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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

mercoledì 6 marzo 2013

La Milano perduta

Piazza del Duomo e il Rebecchino - osteria - , 1870 circa
L’altro giorno sono stato colpito da alcune foto d’epoca pubblicate su facebook da un mio “amico”. Il titolo dell’album era “La Milano perduta” e vi erano una cinquan-tina d’immagini risalenti agli ultimi anni dell’800, primi decenni del ‘900. La città raffigurata in quegli scatti in bianco e nero era molto diversa da quella che vediamo oggi. Tanto per comin-ciare vi era una fitta rete di canali navigabili che correva in due cerchie concentriche: una più interna, che arrivava ad un passo dal Duomo e l’altra più esterna, che è quella oggi ancora parzialmente visibile. In una fotografia del 1900 si vede un barcone che transita lungo via Senato e porta delle enormi bobine di carta, da Corsico alla sede del Corriere della Sera: se non ci fosse una didascalia a darci un riferimento, potremmo tranquillamente pensare che si tratti di un canale di Venezia. Un’altra immagine risalente agli anni ’20 immortala decine di donne intente a lavare i panni nei pressi dell’Alzaia del Naviglio Grande. È suggestivo pensare che ci fosse un appuntamento comune per fare il bucato: sa di buono, di genuino, di comunità paesana. In un’altra fotografia del 1910, ci sono tre persone intorno ad un uomo con una canna da pesca improvvisata: la rete è sospesa su un canale, ed è tristemente vuota. Incredibile, nella Milano dei primi del secolo, si pescava nei canali. E poi ancora i soldati del Generale Bava Beccaris accampati davanti al Duomo, per sedare a suon di cannonate i moti popolari contro l’aumento delle tariffe del grano: la famosa “Protesta dello stomaco”. Quello che tuttavia stupisce di più guardando quelle immagini è il fatto che nelle piazze e lungo le strade cittadine, ci fosse tantissima gente. Non che oggi non ce ne sia, naturalmente, tutt’altro, ma l’impressione è che gli abitanti di Milano di un tempo, vivessero molto di più la loro città, che ci fosse un senso di appartenenza maggiore, di condivisione, di agorà. E non lo si vede solamente nelle immagini di piazza Duomo, ma anche lungo i canali, le alzaie, sui ponti, nelle piazze più defilate. Ci sono capannelli di persone che confabulano tra di loro al centro della via, carrozze ferme agli angoli degli incroci, tramvai trainati da cavalli, e poi una miriade di venditori e artigiani ambulanti: el moletta (arrotino), l’anciuat (venditore di acciughe), l’umbrelee (ombrellaio), el cadreghée (venditore di sedie), el cadregatt (l’impagliatore di sedia), el ranatt (venditore di rane), el brumista (conducente di carrozza), el brentador (il facchino che portava a domicilio fiasche di vino), el ciapparatt (l’odierno derattizzatore). E poi venditori di limoni, caldarroste, fioraie, lattai sui biroccini, lanternai. Tutta una folla di persone che popolavano il centro, che si incontravano, interagivano fra di loro, discutevano, e che vivevano insieme giorno per giorno. In un’immagine del 1870, ripresa dal fondo della piazza, si vede una prospettiva incredibile del Duomo: defilato leggermente sulla destra sorge un caseggiato di edilizia popolare, alto quattro piani. Al piano terra si distinguono alcune botteghe e un paio di insegne recitano “Parrucchiere e profumeria” e “Camicie di flanella”. Faceva parte di un rione chiamato “Rebecchino”. Pare che un tempo qui vi fosse un’antica osteria nata nel XVI secolo, e che il proprietario si dilettasse a suonare la ribeca (uno strumento musicale molto simile al mandolino). Questa osteria divenne molto rinomata nel XVII secolo (l’epoca di Renzo e Lucia, per intenderci), e col tempo cominciò ad offrire anche il servizio d’albergo. Ebbene da allora tutto il rione prese il nome di Rebecchino. Fu Napoleone il primo a pensare di allargare la piazza del sagrato, ma si dovette attendere molti decenni prima di procedere all’opera. Quel piccolo rione urbano, fatto di viottoli strettissimi e abitazioni per lo più fatiscenti, era abitato da ceti popolani e veniva frequentato dalla malavita locale, attratta dall’incessante andirivieni di pellegrini in visita al Duomo. In altre parole, nella piazza più esclusiva di Milano, al cospetto delle guglie marmoree e della Madonnina dorata, risiedevano gli abitanti del popolo, i ceti più umili, i cosiddetti meno abbienti. Una bestemmia scandalosa paragonata ai nostri tempi. In seguito, tra il 1866 e il 1876, grazie alla demolizione di tutti i fabbricati prospicienti la facciata del Duomo, si realizzò quell’immenso spazio tetro e vuoto che fa da platea alla chiesa più importante di Milano. Ad un luogo a misura d’uomo, contestualizzato e cresciuto armoniosamente nei secoli, si preferì lo spazio aperto, la visuale ampia, il campo largo. Al centro del quale domina la statua equestre del Re Vittorio Emanuele. Via tutto ciò che deturpa lo sguardo, via tutto ciò che ci ricorda la miseria, la quotidianità spiccia, la turpitudine del reietto. Largo alla grandezza, all’apparire. E così, agli antichi residenti non rimase che cercare posto altrove.
Questo episodio è un po’ l’emblema di ciò che sta capitando alle nostre città. In una parola, spopolamento. Oggi a Milano i residenti sono poco più di un milione e duecento mila (con il 14 per cento di stranieri), mentre nel 1971 erano un milione e settecento mila: un esodo biblico. Che poi se andiamo a vedere gli ultimi dati del Rapporto “Municipium 2012” realizzato dal Censis, si scopre che tale ammanco di abitanti oggi è ampiamente compensato con il terrificante fenomeno del pendolarismo: ogni giorno entrano a Milano 592 mila persone (vale a dire il 45,4 per cento della popolazione residente nel comune). Una contraddizione spaventosa fra “città del giorno e città della notte”, fra la metropoli del lavoro, dello studio, del business, e quella dove si risiede.
Il centro della città, il borgo medievale attorno al quale era cresciuta e si era strutturata la comunità, oggi è irriconoscibile e non ha quasi più niente che la possa connotare come luogo di aggregazione. Scomparsi quasi tutti i residenti, è diventato un territorio di caccia per speculatori, affaristi, magazzini e boutique di grandi maison, uffici, terziario avanzato. I nuovi ricchi hanno distrutto l’originale tessuto socio-culturale cittadino, cancellando tutto ciò che non era al passo con i tempi, ovvero i vecchi posti di ritrovo, le osterie, le trattorie, i negozi di piccolo artigianato, le piccole botteghe. E al loro posto sono sorti mega-store, multisale, fast-food, sale bingo, bar-ristoranti e altro ancora. Il tutto all’insegna della pacchianeria più assoluta. E a cascata, dal centro, tutto ciò si è progressivamente trasmesso anche alle altre zone della città, fino a snaturarla del tutto, a strapparle l'anima e a privarla quasi completamente della sua identità. E così gli abitanti hanno deciso di abbandonare la città e di andare a risiedere in luoghi più tranquilli, lontani dal caos e in cui i prezzi delle case fossero più abbordabili. E facendo ciò hanno pensato di fare un affare. Salvo poi accorgersi sulla propria pelle di quanto sia triste la condizione dei pendolari: lavoratori costretti ad agghiaccianti spostamenti quotidiani fuori dal comune di residenza per motivi di studio o di lavoro. In Italia oggi i pendolari sono oltre quattordici milioni, pari al 23,4 per cento della popolazione. Una trasmigrazione di massa, per cinque giorni alla settimana: alla faccia delle tanto decantate nuove tecnologie che promettevano lavoro a chilometri zero. Al netto di tutto lo stress causato da ritardi, code, affollamento sui mezzi pubblici, calca, scioperi e disservizi. Nessuna epoca storica ha mai sofferto di una tale piaga: la vita si svolgeva in un ambito territoriale assai limitato, il luogo di lavoro facilmente raggiungibile, le persone si conoscevano tutte fra di loro. Per millenni l’uomo ha creato e vissuto in contesti sociali e comunitari che lo individuavano come persona, con un ruolo e un’identità ben definita. Ognuno aveva un posto ben preciso nel suo ambiente, e in esso nasceva, viveva e infine moriva. Oggi, invece siamo solo numeri che rimbalzano come palline da flipper, senza una storia, senza relazioni stabili, senza radici. Costretti a vivere in un perenne stato di precarietà.
Ecco perché guardando quelle foto antiche, quelle prospettive a misura d’uomo, quelle persone che passeggiano senza fretta lungo strade prive di automobili, quei sorrisi cordiali, aperti, sinceri, in cui ancora si intravede un pizzico di furbizia contadina, mi viene prosaicamente da dire: “Si stava davvero meglio quando si stava peggio”.

Leggi anche: http://www.massimofini.it/articoli/enzo-che-si-porta-via-la-mia-milano

3 commenti:

  1. Che meraviglia Luigi, una bellissima lettura! E pure istruttiva, non conoscevo la differenza fra cadreghèe e cadregatt, e neppure l'esigua distanza che separava El Dòmm dalle case più vicine.. Eggià, era proprio un'altra Milano, con tanti uffici di meno e tanti artigiani di più, pensa che bello poter essere teletrasportati in quei giorni, e dare un'occhiata in giro travestiti da scalpellini o conciatori, come Kirk e Spock quando scendono sui pianeti "simili alla Terra del ventesimo secolo"!
    Salvo, viaggiatore del tempo.

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  2. Si Salvo, e direi che almeno fino agli anni '50 le cose non sono cambiate granché rispetto a inizio secolo. Il boom economico, insieme alle tante cose belle, ha portato anche lo stravolgimento totale del tessuto sociale e culturale. Si chiama progresso. E occorre adeguarsi. Purtroppo.

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