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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 29 marzo 2013

Il biologico è una bufala: torniamo ai mercatini rionali

Biologico sì, biologico no. Da anni ormai ci si interroga su questo annoso problema: frutta e verdura, meglio con o senza pesticidi? Domanda retorica all’apparenza. È ovvio che messa in questi termini chiunque preferirebbe evitare la pera o la banana con l’additivo chimico sopra. Naturalmente. Peccato che poi, quando si arriva alla cassa col carrello pieno di prodotti biologici, e si legge l’importo dello scontrino, viene un’irresistibile desiderio di scappare verso le colline. In effetti i costi delle produzioni biologiche non sono gli stessi che si registrano per le coltivazioni classiche e quindi, quando frutta e verdura arrivano sui banconi della grande distribuzione, i prezzi sono decisamente alti. A fronte di tale differenza economica però, si dice, sapore e qualità sono ineguagliabili. Qualche anno fa il mio amico Enrico mi convinse con la forza ad andare con lui ad acquistare del vino da un coltivatore diretto dell’Oltrepo Pavese. Nella sua vigna evitava di usare qualsiasi tipo di prodotto chimico e la sua produzione era conosciuta in tutta la Lomellina. Nella cantina c’erano una dozzina di tini e botti, colme di grignolino e nebbiolo, e l’aria spessa sapeva di frutta marcita e muffa. Il mio amico - un ubriacone da competizione - non stava nella pelle dalla felicità e non vedeva l’ora di suggere un po’ di quel prezioso nettare. Il contadino spillò prima un mezzo bicchiere da una botte e subito dopo da un’altra. E li passò a Enrico, e questi avvicinò prima l’uno e poi l’altro alle labbra. Aveva un’espressione paradisiaca dipinta sul volto e m’invitava ad assaggiare. Presi uno dei due bicchieri e tirai giù una sorsata: acqua fresca e niente più. «Be’, che ne dici?». Rimasi in silenzio e con un’espressione piuttosto scettica. Mi passò l’altro bicchiere: «Questo è strepitoso». Lo sputai in terra, tanto era l’orrore che avevano provato le mie papille gustative. Andò a finire che Enrico si portò a casa due damigiane da trenta e quaranta litri e a me restò la certezza che per gustare un buon vino ci vogliono per forza dentro i solfiti e tutto il resto.
Qualche giorno fa sul Washington Post è apparso un articolo sullo scetticismo degli scienziati americani davanti al boom dei prodotti organici. Nella sostanza sembra che incrociando i molti dati raccolti negli ultimi tempi, non ci sarebbero evidenze scientifiche, né prove schiaccianti che possano affermare che il cibo organico sia meglio dell’altro. C’è si minor probabilità di trovare tracce di pesticida nel biologico, ma nella realtà è assai raro trovare prodotti non biologici in cui vi siano valori sopra la soglia di rischio. E tra l’altro, come confermano recenti studi dell’Università di Stanford, anche dal punto di vista dei valori nutrizionali, non sembra che ci siano grosse differenze tra le due tipologie. E dunque, tutta questa voglia di naturale, altro non sarebbe che l’effetto di una portentosa campagna mediatica per spingere verso consumi più costosi, ma non necessariamente più salutari. Se proprio ci si vuol preoccupare di qualcosa, affermano i nutrizionisti, meglio sarebbe educare ad una sana alimentazione gli adolescenti. Perché infondo, il vero nemico da combattere è l’obesità.
Quando ero bambino, accompagnavo mia madre a fare compere. Non si andava al supermercato che una volta al mese, per la spesa grossa. Il resto veniva acquistato nei negozietti vicino a casa. C’erano un’infinità di botteghe oggi scomparse: c’era la merciaia, il ciabattino, il riparatore di apparecchi elettrici, il macellaio, il lattaio. Il fruttivendolo per esempio, era un signore siciliano di mezza età. Parlava con una pesante inflessione dialettale e quando qualche massaia gli chiedeva zucchine, cetrioli o banane, egli rispondeva sempre: «Quanto gliene do? Un chilometro?». E se la rideva sotto i baffi. Per me, nonostante la portentosa motilità intestinale di cui soffriva, era quasi uno di famiglia.
E quando andavo giù dai miei nonni, c’era l’usanza di far la spesa al mercato della piazzetta. I coltivatori delle campagne riempivano questo luogo con un’infinità di banconi e bancarelle per vendere i prodotti della loro terra e ogni giorno, da secoli, si rinnovava la festa dell’abbondanza a poco costo, condita con urla e strilli dei venditori per attirare la clientela. E la cittadinanza conosceva uno per uno quei personaggi, sapeva perfettamente che tipo di merce vendevano, di che qualità, a quale costo. C’era una rapporto di profonda umanità che legava quella comunità. Quanto mi affascinava quello spettacolo e quanta differenza c’era tra questo mercato e quello a cui ero abituato su al nord, dove il silenzio dominava incontrastato. Mia nonna poi aveva il suo macellaio di fiducia, e solo da costui si fidava di acquistare la carne. Ogni due o tre giorni gli faceva visita e da sempre si ripeteva la stessa identica manfrina: «Buongiorno, Tonino». «Buongiorno a voi signora. Che vi do oggi?». «Mezzo chilo, Tonino». Al che costui sollevava lo sguardo al cielo e diceva: «Mezzo chilo di cosa, signora?». E lei beffarda: «Come di cosa? Di carne…! È ovvio». A quel punto il macellaio cercava un po’ di umana solidarietà negli altri clienti e diceva: «Lo so di carne…, non vendo mica le nespole del Giappone. Voglio sapere che tipo di carne vi serve: per pizzaiola, da fare ai ferri…». Al che lei gli indicava la carne di vitella e la faccenda si chiudeva.
Quando torno a quei ricordi, mi assale sempre una grande nostalgia: era un’epoca in cui le persone usavano ancora guardarsi in faccia e parlarsi. Adesso invece va di moda l’ipermercato, il centro commerciale, gli scaffali con i prodotti impacchettati seguendo le più scrupolose norme igieniche-sanitarie. Ognuno riempie il suo fottuto carrello indossando guanti di plastica e senza aprire bocca. E con le casse automatiche inoltre, non si corre più neanche il rischio di dover sorridere alla cassiera. Altro che pesticidi: questo è il vero orrore.

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