Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

giovedì 31 gennaio 2013

La triste sorte del “casalingo”

Nel corso della millenaria storia dell’umanità il ruolo delle donne e quello degli uomini è sempre stato molto ben definito e delineato: le prime si occupavano della prole e della conduzione della casa; i secondi di caccia e raccolta (prima), di agricoltura (dopo), di guerra, e lavoro retribuito in genere. L’equilibrio era dato da questo rapporto: l’uomo procurava il necessario per la sussistenza e la donna lo metteva a frutto perpetuando la specie.
Ciò non toglie che poi, date le difficilissime condizioni di vita, anche le donne non contribuissero a dare una mano nei campi, o anche con lavoretti di piccolo artigianato, perlopiù domestici. È solo con l’avvento della Rivoluzione Industriale che le donne iniziano ad abbandonare la dimora familiare e ad entrare nelle fabbriche, spesso andando a svolgere lavori faticosi, di basso profilo e con salari sensibilmente inferiori a quelli dei loro colleghi maschi. Da quel momento la società, rimasta immobile e cristallizzata da sempre nelle sue regole ancestrali, si evolve, muta geneticamente, ristruttura la propria identità, cominciando a ritagliare spazi sempre più importanti per le donne. L’epoca moderna in seguito, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, accelera ulteriormente il cambiamento del ruolo svolto dalle donne nella società, soprattutto grazie alle possibilità offerte dall’accesso al lavoro e allo studio. Tanto che, arrivando ai nostri giorni, non solo le donne hanno ormai pressoché raggiunto pari possibilità di accesso al mondo del lavoro rispetto agli uomini, ma hanno visto schiudersi le porte di professioni e mestieri considerati da sempre tipicamente maschili: poliziotto, macchinista di treni, pilota d’aereo, medico, soldato. Recentemente il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Leon Panetta, ha rimosso addirittura il divieto per le donne soldato di combattere in prima linea, cancellando d’un colpo l’ultimo grande tabù, quello che riservava all’uomo il compito di uccidere e morire in guerra.
Tutto ciò naturalmente ha comportato un mutamento radicale negli equilibri sociali e familiari: i ruoli uomo-donna un tempo ben demarcati si sono affievoliti, hanno perso di significato, si sono andati quasi a sovrapporre e identificare l’uno con l’altro. La donna occidentale oggi ha una dignità diversa rispetto al passato, ha conquistato diritti e parità nella vita sociale, nel mondo del lavoro, nella conduzione domestica, nella propria autodeterminazione. E da tutto ciò, anche il ruolo maschile ne è uscito profondamente sconvolto. Un tempo compito dell'uomo era “portare i soldi a casa”, assolvere i doveri coniugali e poco più. A tutto il resto pensava la donna. Oggi invece c’è la parità, anche e soprattutto nei lavori di casa: la cosiddetta “divisione equa delle mansioni casalinghe”. Lavare i piatti, cucinare, stirare, cambiare il pannolino al pupo, rammendare, passare lo straccio sul pavimento, tutte attività che le coppie, se desiderano condurre una vita serena e armoniosa, devono assolutamente condividere alla virgola. Anche senza quell’eccessivo entusiasmo, si capisce. Soprattutto da parte dell’uomo.
Un tempo conoscevo un tizio di nome Mario che aveva per moglie una specie di virago, un donnone con una forza fisica erculea e un carattere di ferro. Costui era letteralmente succube della consorte, non poteva quasi mai andare all’osteria a bere con gli amici e non passava giorno che questa gli imponesse qualche umiliante lavoro di casa. Umiliante perché egli era pur sempre un uomo del profondo Sud d’Italia, ancora intriso di vecchi pregiudizi ottocenteschi sul ruolo del maschio capo famiglia. Ma pur soffrendo enormemente, non si tirava mai indietro. Certo non si può dire che fosse un virtuoso dello strofinaccio, ma nel suo piccolo si dava un gran da fare. Anche perché, in caso contrario, avrebbe rischiato il cosiddetto “paliatone” (bastonatura: ndr).
Tra tutti quei “mestieri” odiosi tuttavia, ce n’era uno che proprio non mandava giù: togliere la polvere. Lo trovava tedioso, irritante e soprattutto inutile: “A cosa diavolo serve tutta sta fatica – ragionava tra sé e sé senza farsi udire dalla moglie – se domani di polvere ce ne sarà ancora e forse di più?”. Che poi, diciamocelo, è un po’ quello che pensano tutti gli uomini del pianeta riguardo a questa faccenda. Ma oltre a tutto ciò, egli era persuaso – perché quella era la comune convinzione popolare – che tutti quei lavori domestici, alla lunga, avrebbero nuociuto alla sua virilità. Soprattutto togliere la polvere. La polvere, si diceva allegoricamente, smossa dalla sua sede naturale, si sarebbe andata a depositare sulle orecchie dello spolveratore! C’era da prendere paura al solo pensiero. E così, disperato, Mario cominciò a cercare una via d’uscita. Provò dapprima a discutere con la moglie, a cercare un compromesso. Da abile stratega qual'egli era all’inizio puntò molto in alto, cioè a tutta la posta: «Non farò mai più nulla di nulla in questa dannata casa…, sono io che porto i soldi a casa, io porto i pantaloni…, è chiaro…?». Di fronte alla figura agguerrita della moglie però, per giunta armata di mattarello – quello che usava per fare le orecchiette – , scese subito a più miti consigli. Cercò, come ultima chance, di alleggerirsi almeno dell’incombenza più pericolosa, vale a dire quella di togliere la polvere. Ma neanche qui ottenne grossi risultati. Ed anzi, tra le urla, la moglie gli intimò di prestare molta attenzione alle gioie e ai ninnoli di famiglia. Fu come un’illuminazione. Il giorno successivo Mario, prese con molta calma lo straccio, si avvicinò al comodino della camera da letto e, strizzando occhi e labbra in una smorfia di profondo rancore, fece cadere in terra il più prezioso tra tutti gli affetti a cui era legata la moglie. Come conseguenza immediata di tale “disattenzione” ci fu l’esenzione in perpetuum da tale incombenza.
Ora un recente studio condotto dal US National Survey of Families and Households sostiene che gli “uomini casalinghi”, vale a dire coloro che svolgono anche faccende domestiche tipicamente femminili, farebbero meno sesso rispetto agli uomini che vi si sottraggono. In altre parole dedicare tempo ed energie ai mestieri tradizionalmente considerati femminili tenderebbe a spegnere il desiderio sessuale maschile. Nel dettaglio pare che i “casalinghi” farebbero sesso in media cinque volte al mese, tutti gli altri circa due volte in più. «Le identità di genere di mariti e mogli – sostiene la dottoressa Julie Brines, professore associato di sociologia all’Università di Washington e curatrice dello studio – si esprimono attraverso i lavori che eseguono, e aiutano anche nello strutturare il comportamento sessuale. Il matrimonio non è oggi quello che era trenta o quarant’anni fa, ma ci sono alcune cose che rimangono importanti. Sesso e lavori di casa sono ancora aspetti fondamentali della condivisione di una vita, ed entrambi sono legati alla soddisfazione coniugale e a come coniugi esprimono la loro identità di genere».
Estremizzando si potrebbe dire che se ad un uomo imponi un lavoro che egli reputa – a torto o a ragione – tipicamente femminile, egli si femminilizza. O comunque attenua i suoi appetiti sessuali.
E non finisce mica qui: un’altra ricerca, questa volta norvegese, sostiene che quanto più un uomo s’impegnerà nei lavori casalinghi, tanto più sarà a rischio divorzio (Equality in the Home, Thomas Hansen, settembre 2012). Fino al 50% in più.
Bel risultato, complimenti: un altro fantasmagorico progresso della specie umana.
E quindi che si fa? Torniamo come ai tempi dei Crociati, con annessa cintura di castità, o ci rassegniamo all’appiattimento dei sessi, al modello unico e a tutto ciò che ne consegue? Forse bisognerebbe partire dallo sgombrare il campo da tutta la retorica falsamente femminista che ci portiamo dietro da ormai troppi anni e smetterla, una volta per tutte, di ragionare sull’uguaglianza, la parità, l’identità tra uomo e donna. Come dice Massimo Fini “l’uguaglianza antropologica porterà, come già sta avvenendo, anche a un’uguaglianza psicologica, mentre è proprio la diversità della sensibilità maschile e femminile, oltre, e forse più, di quella fisica, l’eterno motivo di attrazione, e di tensione, fra i sessi. La diversità non è solo, come dice la saggezza popolare, il sale della vita, ciò che la rende interessante, ma è la vita stessa”.
E il buon Mario tutto questo lo sapeva…!

mercoledì 30 gennaio 2013

I treni arrivavano in orario…

Domenica scorsa ricorreva il Giorno della Memoria. Il 27 gennaio 1945, sessant’otto anni fa, le truppe sovietiche entravano ad Auschwitz. Dalla Vistola all’Oder era stata un’avanzata rapida, le armate della Stella Rossa, spinte dal vento gelido della steppa, aveva travolto i rimasugli della potente Wehrmacht e si apprestavano a varcare i “sacri confini” del Terzo Reich. Tre mesi ancora di inutile spreco di vite e la guerra sarebbe finita.

I primi ad entrare nel campo furono gli uomini della LX Armata, comandati dal generale Kurockin. Davanti a loro trovarono circa settemila prigionieri ancora in vita. Nei locali abbandonati in tutta fretta furono rinvenuti migliaia di capi d’abbigliamento ben ordinati, oggetti di varia utilità appartenuti agli internati al loro arrivo, e otto tonnellate di capelli umani imballati e pronti per il trasporto.
Durante le celebrazioni avvenute a Milano, presso la Stazione Centrale – dalla quale partivano i convogli dei deportati diretti in Germania – , la stampa ha raccolto le dichiarazioni di alcuni eminenti esponenti politici italiani. Qualcuno, non si sa bene con quale finalità, ha affermato che il Fascismo, al di là di qualche errore grave, tipo le Leggi Razziali del 1938 e l’entrata in guerra a fianco di Hitler, ha fatto cose buone. Ora, premesso che quella non era né la sede né tantomeno la circostanza più opportuna per fare simile dichiarazione, occorre fare un po’ di chiarezza storica. È indubbio che nell’arco di vent’anni il regime fascista abbia realizzato qualcosa di positivo: nemmeno il più acceso partigiano della Brigata Garibaldi potrebbe negarlo. Ma da qui a ribaltare le proporzioni ce ne vuole. Ci furono politiche in campo economico, amministrativo e sociale di indubbia rilevanza, venne portata avanti un’idea di Stato forte, autocratico e indipendente dalle potenze straniere; negli anni ’30 ci fu una grande vivacità culturale nella letteratura e nelle arti figurative, nell’architettura, nel design industriale. Questa è storia, non un’opinione. Inoltre per moltissimi anni gli italiani furono tutti fascisti o quasi. Non per nulla lo storico De Felice, nell’ambito della sua monumentale opera, ha scritto un volume intitolato Gli anni del consenso. Gli italiani si ribellarono al Fascismo sostanzialmente con l’arrivo della guerra, con la prospettiva della catastrofe finale, in un clima da “rompete le righe”. Ennio Flaiano diceva: “Gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori”. Prima di allora la battaglia contro la dittatura era stata portata avanti solo da un numero esiguo di irriducibili, disposti a sacrificare la libertà e spesso la vita, a favore di un’ideale.
Di certo la propaganda era molto agguerrita, la popolazione irreggimentata, controllata e gli oppositori silenziati, ma qualcosa doveva pur piacere alle masse perché il consenso fosse così vasto a tutti i livelli, anche a quello operaio e, ancor più, contadino, specie tra i giovani. Ma a fronte di tutto ciò non si può dimenticare che si viveva pur sempre in uno stato totalitario, repressivo, violento, fatto di soprusi e ingiustizie di Stato.
Quando ero piccolo sentivo spesso i miei nonni parlare della guerra e del Fascismo. Raccontavano sottovoce, con parole accorte e misurate, come se temessero – a distanza di oltre mezzo secolo – che qualche orecchio indiscreto potesse ancora ascoltare e riferire. Eppure non erano frasi di “sovversivi bolscevichi”, tutt’altro. Spesso si trattava di elogi (“Quanto erano belle quelle parate, quanta forza e bellezza veniva fuori da quei volti di giovani in divisa…”), di ricordi che portavano nostalgia. D’altra parte quelli erano pur sempre gli anni della loro gioventù. Altre volte si raccontava dei bombardamenti – Foggia fu quasi rasa al suolo per via del suo snodo ferroviario e del suo aeroporto – dell’occupazione tedesca. Ho ancora nella mente l’espressione spaventata di mio nonno materno quando parlava delle sirene contraeree, delle esplosioni e soprattutto dei soldati della Wehrmacht, resi ancora più feroci dopo il “tradimento” italiano. Giorgio Bocca ne Il Provinciale dice “Pur sconfitti, facevano ancora paura”. E c'è da credergli.
L’altro nonno invece, quello paterno, parlava poco della guerra. Egli aveva visto dritto negli occhi quell’orrore, al fronte, prima in Albania e dopo in Grecia. E chi sopravvive a tragedie come queste, non ama parlarne. Uno dei pochi episodi che rammento riguarda una parata militare. L’Italia era ancora in uno stato di non-belligeranza, ma la propaganda fascista già preparava il terreno per il discorso di Palazzo Venezia, quello del 10 giugno 1940. Mio nonno quel giorno, così come tutti gli altri concittadini, attendeva il transito del corteo con le autorità del regime. Era pur sempre un evento mondano, un rito di popolo che si ripeteva e faceva parte della cultura del tempo. Ad un tratto una manata da dietro gli fece volare il cappello: «Giù il cappello davanti al Fascio» gridò il “capostrada” fascista, una sorta di ras di quartiere, delegato dal partito a sovrintendere all’ordine e alla disciplina. Mio nonno, sebbene in preda alla rabbia per quell’affronto, non reagì. Egli era un uomo forte, violento, era stato sott’ufficiale dell’esercito per diversi anni: insomma era una persona per nulla avvezza a tollerare oltraggi. Eppure, messo di fronte a quell’autorità becera e arrogante, al cospetto del sopruso legittimato dal diritto della forza, non ebbe il coraggio di ribellarsi. Perché ribellarsi, infondo voleva dire mettersi contro il regime e il regime era lo Stato. L’affronto oltretutto, provenendo da un tale comunemente chiamato “u sgubbatill” – cioè il gobbetto – per via di un difetto alla colonna vertebrale, era ancor più difficile da digerire in anni di “sabato fascista” ed esaltazione della forza fisica delle italiche genti.
Qualche tempo fa, girando su internet, mi sono imbattuto in una vecchia fotografia di fine anni ’30: ritrae un gruppo di persone, metà in divisa d’orbace, metà in borghese, riuniti intorno ad un paio di bandiere italiane. La didascalia dice “Gruppo di fascisti davanti alla Caserma Miale - Foggia”. Ebbene, tra costoro, quarto da destra e in prima fila, compare un uomo in divisa, con un fez sul capo. Piccolo di statura rispetto a tutti gli altri, appare curvo in avanti, come se portasse un pesantissimo fardello sulla schiena. Non ne ho la certezza matematica, ma ci sono buone probabilità che costui sia quel famoso “sgubbatill” che fece volare il cappello di mio nonno.
È poca cosa rispetto alla tragedia che ha investito l’umanità in quegli anni, me ne rendo conto. Di fronte ai campi di sterminio, ai bombardamenti a tappeto, alla ritirata di Russia e tutto il resto, un affronto come questo è un’inezia insignificante, un battito di ciglia nell’Apocalisse. Ma anche un piccolo episodio di questo genere, può aiutare a capire cosa sia stato il Fascismo in Italia. Un’epoca in cui la libertà personale, la dignità e la giustizia divennero parole prive di significato, vuote e senza valore. Ecco cosa fu prima di ogni altra cosa il Fascismo.
Che poi i treni arrivassero in orario è tutto da dimostrare. E in ogni caso aveva ragione Troisi: “Per fare arrivare i treni in orario, mica c’era bisogno di farlo Capo del Governo (Mussolini: ndr.), bastava farlo Capostazione” (Le vie del Signore sono finite, 1987).

martedì 29 gennaio 2013

Perché chi russa si addormenta per primo?

Esiste piacere più grande di quello di concedersi una bella dormita quando si ha sonno? Esiste uno stato di grazia più rilassante, più elevato, più sublime del dolce dormire, soprattutto quando la notte ti recapita sogni che lasciano addosso sensazioni di pace e serenità, quand’anche privi di trame e contorni certi?
Qual è colui che sognando vede - che dopo ’l sogno la passione impressa - rimane, e l’altro a la mente non riede” dice Dante nell’ultimo del Paradiso.

Non per nulla secondo uno studio della University of British Columbia (Canada), concedersi ogni giorno un pisolino dopo pranzo moltiplica le chance di arrivare ai capelli bianchi.
Certo deve pur trattarsi di un riposo piacevole, s’intende, altrimenti, bene che vada, avremo a che fare con un incubo.
“Ho scalato alte montagne e ho camminato in luoghi lontani, diversissimi tra loro. L’unica sicurezza in ogni dove? La presenza del russatore folle in camerata. Il russatore arreda”.
Così scrivevo qualche tempo fa, tornato da un lungo trekking sulle Alpi. Per diversi giorni avevo condiviso notti in rifugio con una specie di leone incazzato, un virtuoso assoluto del “russamento”, capace di tenere svegli non solo tutti i compagni di camerata, ma anche tutti gli animali selvatici della zona, compresi ghiri, tassi e orsi bruni del Trentino in avanzato letargo. Si trattava di un viaggio itinerante da rifugio a rifugio, con tappe impegnative, fatte di saliscendi giornalieri che superavano abbondantemente i 1.500 metri in salita e in discesa. Un tour bellissimo e massacrante. Nulla di trascendentale tuttavia, a patto di poter contare su almeno otto ore di sonno ristoratore. Quella volta però non c’era scampo. È chiaro che in camerate da otto, dieci o trentadue letti si trova sempre qualcuno che ha il respiro pesante, qualcuno che ronfa e che emette altri tipi di rumori corporei poco piacevoli, questo è scontato. Ma in generale basta qualche verso, qualche richiamo per animali (meglio se quello tipico della bertuccia di Gibilterra o del macaco di Giava) per ottenere un po’ di silenzio. Pochi attimi di quiete, istanti incantati di silenzio religioso che, in situazioni normali, sono sufficiente ha farti prendere sonno.
In quella circostanza però, quel triste figuro non solo russava in maniera devastante, ma era altresì insensibile a qualsiasi richiamo della foresta. Forse perché oltretutto era un tantino sordo. A turno qualcuno si alzava e andava a prendere a calci la sua branda, a scuoterlo, a girarlo su un fianco. Niente di niente: trascorsi un minuto e dieci secondi netti, la segheria riprendeva la sua attività. Ancor più violenta. Una tortura indicibile.
Ricordo che in quelle lunghe ore di buio e angoscia, ho covato per la prima volta nella mia vita insani propositi d’omicidio.
Che poi non sono mai riuscito a capire perché i russatori si addormentino sempre prima dei non russatori. C’è qualcosa di scientifico in tale rottura di palle. Bisognerebbe che qualcuno, invece di correre dietro all’inafferrabile bosone di Higgs, cominciasse a indagare su questo mistero.
Certo non riuscire a dormire quando si è preda del sonno è una delle torture più crudeli che ci siano in natura. Non per nulla nelle prigioni di Guantanamo e Abu Ghraib, i detenuti sospettati di terrorismo islamico sono stati sistematicamente sottoposti alla privazione del sonno come metodo per indurre alla confessione. Gli esperti di cose militari chiamano “tortura dolce” tale trattamento. Che gentili.
Tra gli effetti immediati di tale privazione vi sarebbe il deterioramento immediato delle condizioni fisiche e il disorientamento cognitivo. Ecco perché, per esempio, quella mattina appena alzato in rifugio continuavo a chiedermi: «Chi sono, da dove vengo…?». E il mio caro amico Lorenzo: «Da Foggia…».
Ad ogni modo non tutti reagiscono alla stessa maniera di fronte a un russatore. Mentre per qualcuno è una delle sciagure più raccapriccianti, per altri è una bazzecola di poco conto. Per me, ad esempio, abituato al silenzio più totale, la presenza di qualsiasi rumore in camera è garanzia assoluta d’insonnia. Quando faccio le notti in Croce Rossa, è rarissimo che riesca a dormire. All’inizio davo la colpa all’apprensione della campana, alla possibilità che all’improvviso, dal tepore del letto, ci si trovasse immersi in uno scenario da incubo, tipo un incidente stradale o altro. Col tempo invece, mi sono reso conto che si tratta semplicemente del solito, maledetto “sonno leggero”, come si dice volgarmente.
Altri colleghi invece, appena mettono la testa sul cuscino, s’assopiscono di schianto: neanche il tempo di spegnere la luce o dire “buona notte” che già ronfano. Ed ogni volta sento montare dentro di me un’invidia potenzialmente clamorosa.
Ora da un sondaggio condotto recentemente in Australia risulterebbe che i disturbi del sonno causerebbero attrito nelle coppie che dormono insieme, mettendone a rischio le relazioni. Ancor più delle flatulenze sotto le lenzuola, pare. Oltre l’80% di chi russa o soffre di apnee nel sonno ammette che il problema ha conseguenze, anche importanti, sul rapporto di coppia. Il 20% degli intervistati dal Melbourne Sleep Disorders Centre inoltre dichiara di dormire in camere separate.
Conosco situazioni analoghe anche tra amici e conoscenti. Una volta un tizio mi raccontò di quando, esasperato, si alzò dal letto matrimoniale, e andò a sistemarsi sul divano del soggiorno. E non trovando pace neanche lì, sfogò la sua rabbia lanciando una scarpa nel muro. L’altro giorno ero a cena da loro: ancora c’è l’impronta. Ci sono poi vecchie coppie – già seriamente provate dalla fastidiosa insonnia senile – che molto razionalmente, decidono di dormire in camere separate, perché “così almeno non ci diamo fastidio reciprocamente”. Quando si arriva a tale conclusione viene da chiedersi cosa mai rimanga del rapporto di coppia. Ben poco, forse.
Alcuni anni fa feci incontrare due cari amici, Silvia e Daniele. Col tempo si conobbero e si piacquero reciprocamente, tanto da mettere su famiglia. I primi tempi quando parlavo con Silvia, tra le tante cose belle del loro rapporto, mi raccontava anche di quanto russasse Daniele e di quanta fatica lei facesse ad addormentasi. Conoscevo bene Daniele, e sapevo di cosa parlasse. Purtroppo.
Qualche mese dopo, seduti in un locale del centro, tornai sull’argomento con la mia amica. «Allora Silvietta, che mi racconti, ronfa ancora il Dani?».
E lei: «Mizzega se russa. Come un trattore…! Però alla fine devo dirti la verità: mi sono abituata. E anzi, ti dirò di più: quando vado a letto da sola e quindi non lo sento russare…, beh ti sembrerà strano…, ma non riesco ad addormentarmi».
Non ho mai udito dichiarazione d’amore più poetica di questa.
D’altra parte si sa, è dalla notte dei tempi che l’amore è cieco. Da oggi però, e a buona ragione, possiamo aggiungere che è anche sordo.

lunedì 28 gennaio 2013

Ancora sui benefici del matrimonio

A fine novembre avevamo affrontato il tema degli effetti benefici del matrimonio sulla salute (Del come e del perché conviene sposarsi. Forse). Uno studio dell’Università di Cardiff sosteneva che le persone sposate hanno un tasso di mortalità del 10-15 per cento più basso rispetto alla media; altri ricercatori aggiungevano che la vita coniugale, oltre a rendere più gentili e socievoli, allontana la depressione, l’alcolismo, la dipendenza da psicofarmaci; altri ancora affermavano che la presenza del coniuge è garanzia di assiduità nei check-up medici, di uno stile di vita più sano e di attività fisica per tenersi in forma.

Uno spot in piena regola a favore della vita di coppia. Talmente tanta era l’enfasi e la portata di questi risultati che mi era sorto il dubbio che tali ricerche fossero state commissionate direttamente dalla Santa Sede.
Ora un nuovo studio, condotta della Duke University Medical Center in Usa, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Annals of Behavioral Medicine, sostiene che il matrimonio riduce la mortalità negli adulti di mezza età: i single – o coloro che non sono più sposati – hanno un rischio doppio di morire precocemente senza raggiungere la vecchiaia. Non so perché la scienza si occupi così insistentemente di questo argomento, perché tante risorse ed energie vengano impiegate su questa tematica. Oltretutto ricerche che, al contrario di ciò che avviene solitamente nella scienza, si avvalorano le une con le altre. Che discussione ci può mai essere tra studiosi che sono d’accordo tra di loro? Nessuna si direbbe. E invece, a cadenza bimestrale, un nuovo studio conferma vecchie e consolidate teorie, aggiungendo, caso mai, qualche elemento in più, così tanto per avere la parvenza della novità. Alle volte basta alzare una percentuale, o aggiungere un piccolo particolare insignificante, per ottenere la prima pagina dei giornali. Soprattutto se si sparano titoloni accattivanti. La realtà è che dal mare magnum della ricerca saltano fuori quasi ogni giorno notizie di questo genere, a getto continuo. Con quanta valenza scientifica, proprio non saprei. Si dà il caso oltretutto che spesso questi studi sono finanziati da aziende che producono beni e servizi, e che hanno come finalità scopi molto poco filantropici: vendere, proporre modelli che invoglino all’acquisto, plasmare le menti dei consumatori. Il giornale – dietro imbeccata di qualche potente ufficio stampa – scrive del nuovo avveniristico cellulare (o shampoo, o automobile, o pomata per le emorroidi…) di ultima generazione, ne magnifica le qualità, la multimedialità, la connettività, e tutti i lettori si scaraventano nei negozi, facendo spesso file interminabili, fin dalle prime ore della notte. Perché aspettare uno o due giorni non si può: trattasi di vita o di morte, ovviamente. Poi, come per magia, dal giorno successivo sul giornale medesimo, compare una pubblicità a tutta pagina, del suddetto cellulare (o shampoo, o automobile ecc…). Combinazioni, naturalmente.
Ma tornando alla nostra ricerca sul matrimonio, non credo ci voglia una grande capacità scientifica per intuire che la morte di un coniuge, soprattutto se il legame data decenni, possa avere effetti negativi sul superstite. È del tutto naturale direi. Certo ci sono anche quelli che invece stappano una magnum di Moët & Chandon, ci mancherebbe. Ma direi che trattasi di una minoranza infima.
Leggendo questi dati, mi è venuta in mente una vecchia storiella. Tempo fa in Puglia viveva una coppia di anziani coniugi. Sposati giovanissimi, avevano vissuto tutta la vita insieme. Lei godeva di un’ottima salute, mai un colpo di tosse, mai un raffreddore; lui invece era cardiopatico, iperteso, con un principio di diabete e una valanga di pillole colorate da assumere tutti i giorni. Durante una visita medica di routine, un grosso luminare aveva detto a quest’ultimo: «Mi raccomando Lorenzo, nel suo attuale stato, non può permettersi alcun tipo di stress emotivo, nessuno spavento, nessuna afflizione. Glielo dico per il suo bene: ne va non solo della sua salute, ma addirittura della sua vita».
Lorenzo uscì da quella seduta molto turbato e a nulla valsero le rassicuranti e quasi irridenti parole della moglie, tutte tese a sminuire quelle raccomandazioni angoscianti.
E così da quel giorno, Lorenzo, che pure era da sempre un uomo emotivo e sanguigno, cominciò a manifestare un atteggiamento estremamente distaccato nei confronti delle cose della vita. Non trascorsero pochi mesi, tuttavia, che la sua esistenza fu travolta da un evento gravissimo e inaspettato: un infarto fulminante le portò via la donna della sua vita, quella moglie che da sempre era parte di se stesso. Tutti i parenti si precipitarono in soccorso, pronti a dare la loro solidarietà a quest’uomo che immaginavano affranto e distrutto dal dolore. Davanti ai loro occhi, al contrario, trovarono un vedovo sereno, compassato, controllato in ogni gesto o parola, e a tratti quasi seccato da tanto clamore. Mentre la defunta era ancora in casa, i figli e i nipoti sciolti in pianti sfrenati, Lorenzo appariva impassibile, imperturbabile, senza una traccia di emozione sul viso.
Quando giunse il momento si fecero vivi gli affossatori. Tutti i parenti più stretti, intuendo che si avvicinava l’attimo fugace dell’addio, l’ultimo estremo saluto all’amatissima scomparsa, ancor di più levarono urla strazianti e pianti al cielo. Lorenzo invece sempre tetragono. Ed anzi, ad un certo punto chiamò con un cenno imperioso gli affossatori attorno a se, si qualificò come marito della defunta e disse loro con tono fermo e deciso: «Oh, mi raccomando a voi giovanotti…, abbiamo da poco tinteggiato i muri…! Quando portate via la cassa vi prego di fare molta attenzione…».
I quattro si guardarono esterrefatti tra di loro: era la prima volta che udivano una raccomandazione del genere. Ad ogni modo si impegnarono solennemente e cominciarono le operazioni.
Venne chiusa la cassa, tolti i fiori e le corone e fatto spazio per il passaggio del corteo. Tutto intorno si raccolse l’umanità dolente. Gli affossatori, malfermi sotto il peso della cassa, cominciarono a ondeggiare paurosamente lungo il corridoio. Lorenzo seguiva ogni movimento con grande scrupolo. Ad un tratto, in prossimità di un restringimento causato dalla presenza di un comodino, si udì un rumore acuto, come di uno stridio leggerissimo. E sul muro comparve subito un’oscena strisciata scura. «Il muro…, attenti al muro…» fece piano Lorenzo, coperto da pianti e lamenti. Ancora qualche metro e di nuovo una violenta grattata. «Ma insomma…, fate attenzione al muro…» insistette Lorenzo, pacatamente. Altra sbandata e altro sfrego: «Allora, non ci siamo capiti…, vi ho detto di fare piano, porca di quella grandissima putt…» urlacchiò Lorenzo tappandosi la bocca all’ultimo istante. I presenti smisero di piangere e cominciarono a fissarlo con diffidenza. Giunti infine in prossimità della porta d’ingresso, gli affossatori esausti ebbero un'ultima grossa indecisione, le gambe cedettero e la cassa sbandò paurosamente tra lo spavento generale. Si udì nuovamente un rumore stridulo e sulla parete laterale comparve un sfregio imbarazzante di quindici centimetri buoni. «Il murooooo - fece Lorenzo, definitivamente incazzato - mo’ mi sfasciate il muroooo…!».
La donna della sua vita, la madre dei suoi figli se ne andava per sempre ed egli pensava al muro: la scena era talmente tragicomica che a qualcuno scappò da ridere.
Non appena però ebbe terminato lo sfogo, gli sovvennero alla mente le parole del medico: “… non può permettersi alcun tipo di stress emotivo, ne va della sua stessa vita…”. Ripiombò così all’istante nell’atarassia più totale: peggio di un bonzo tibetano completamente fatto di hashish.
Trascorsa non più di una settimana di lutto moderato, la cittadinanza rivide Lorenzo a spasso per il corso principale, quello dello struscio serale. Era vestito di gran gala e lasciava alle sue spalle una scia di Acqua di Colonia chilometrica. Qualcuno sentenziò malignamente che il vecchio fosse di “punta”. E forse effettivamente era così.
Ma d’altra parte, come dargli torto? In fin dei conti, star da soli non conviene: lo dice anche la scienza.

(Foto di Walter Degli Effetti, 2013 Roma)

venerdì 25 gennaio 2013

Perché le flatulenze puzzano? Per i sordi

Tra tutti i deficit psico-fisici che possono colpire gli esseri umani, soprattutto in età avanzata, ce n’è uno che da sempre porta con se un qualcosa di estremamente comico, suo malgrado. La cecità viene accompagnata perlopiù dalla compassione, il mutismo dal disagio comunicativo, le disabilità motorie da un senso di empatia che spinge a prestare aiuto incondizionato, spesso con equivoci tragicamente indesiderati: «Signora, mi dia il braccio che l’aiuto ad attraversare». «Farabutto che non sei altro, togli le mani dalla mia borsetta…». E giù una bastonata tra capo e collo.
La sordità invece, forse perché considerata da sempre un’invalidità minore se paragonata ad altre ben più importanti, si associa all’ilarità, alla risata. Il sordo, per natura, fa ridere. Purtroppo per lui. Quanto cinismo, mi direte…! Capisco, ma infondo è la verità. E perché mai si reagisce in questa maniera di fronte alle persone che sentono poco o non sentono affatto? Perché, oltre a come detto sopra, vale a dire l’idea che si tratti di una disabilità minore, si associa grossolanamente la carenza d’udito alla carenza intellettiva: colui che non afferra le parole, che non capisce ciò che gli si dice, o peggio che travisa il senso di una frase, provoca all’istante un riso spontaneo nella persona che gli sta di fronte. Per un sordo, o aspirante sordo, niente è più insidioso delle assonanze maligne. Un po’ come quando udiamo una lingua sconosciuta e restiamo con il sorrisino ebete a mezz’aria. Quante volte il teatro, o anche il cinema, ha messo in scena il prototipo del classico sordo, munito di cornetto acustico in ottone, voce esageratamente alta e reputazione pari a quella dello “scemo del paese”. Paolo Villaggio in un suo libro scrive: “La cecità e la sordità sono due gravi menomazioni. Ma se per la cecità le compagnie assicurative pagano gli indennizzi più alti, i sordi ricevono quelli più bassi. I ciechi di guerra sono eroi e hanno diritto a medaglie d’oro, accompagnatori, bastoni bianchi e cani lupo. Non ci sono i sordi di guerra e, durante le premiazioni dei ciechi, in campo lungo, quei disgraziati vengono travolti da filobus molto silenziosi, suscitando solo risate”.
Qualche tempo fa mio padre mi riferì di un incontro avuto con un vecchio del paese. Si conoscevano di vista da diversi anni, ma non erano mai andati oltre un semplice saluto. E così un bel giorno, dato che mio padre è una persona spiccatamente portata al dialogo, decise di fermarsi a “fare due parole”, come si usa dire nel cremasco. Gli ci vollero un paio di battute per rendersi conto che il poveretto era sordo come una campana stonata. E per di più parlava un dialetto strettissimo della bassa che mio padre non riusciva minimamente ad intendere. Se parlava mio padre, questi non lo sentiva; se parlava il vecchio, mio padre non lo capiva. Quando si dice l’incomunicabilità…! Ma strano a dirsi, nonostante l’enorme barriera comunicativa, la chiacchierata pare che andò avanti per un bel pezzo. Di cosa mai avranno discusso, lo sanno appena loro. Dubito seriamente tuttavia che abbiano parlato dello stesso argomento.
Ora dagli Stati Uniti arriva uno studio che mette in correlazione i problemi di udito con il declino cognitivo. I ricercatori della Johns Hopkins University hanno seguito per sei anni circa duemila soggetti anziani e sono giunti alla conclusione che vi sarebbe un collegamento tra la sordità o la perdita di udito e il restringimento del cervello, che causerebbe la demenza. In sostanza dunque, oltre ad un peggioramento della qualità della vita, i sordi andrebbero incontro anche ad un precoce declino cognitivo. “L’isolamento sociale – afferma il dottor Frank Lin, coordinatore dello studio – può essere una delle cause del maggiore declino cognitivo, per via della mancata interazione con gli altri e della riduzione delle conversazioni cui si va incontro”. Da ciò ne deriva che “curare l’udito può non solo migliorare le interazioni sociali, ma può anche proteggere da un declino cognitivo precoce e più rapido”.
A questo punto che dire, non appena ci dovessimo accorgere di avere qualche problemino d’udito – tipo se i vicini cominciano a picchiare nel muro alle due di notte, o se qualcuno per attirare la nostra attenzione ci bussa sulla spalla – , cerchiamo di correre subito ai ripari. Ne va anche della nostra salute cerebrale. Oltretutto oggi la tecnologia ci mette a disposizione apparecchiature molto efficaci e quasi invisibili: poco più di un fagiolo nell’orifizio nobile e tutto torna come prima. Almeno così sostiene Lino Banfi.
Nessuno più sarà privato del piacere dell’ascolto, nessuno più si sentirà isolato nella sua campana di vetro, nessuno più dovrà gridare per farsi udire. Che meraviglia.
Certo però il mondo senza sordi non sarà più lo stesso, sarà forse un po’ più triste. Pazienza, ce ne faremo una ragione.

giovedì 24 gennaio 2013

Sì, altro che profezia Maya: ora arriva il Global Risk

In questi giorni si sta tenendo a Davos, in Svizzera, il meeting 2013 del World Economic Forum, l’appuntamento che ogni anno riunisce leader politici internazionali, scienziati e imprenditori di successo che cercano di contribuire a definire un’agenda globale. In questa sede, tra le altre cose, è stato presentato l’attesissimo rapporto Global Risks 2013, uno studio che analizza una serie di cosiddetti “X Factors”, vale a dire i rischi più gravi e attuali che minacciano la sopravvivenza del nostro pianeta. C’è da prendere paura al solo scorrere l’elenco, ve l’assicuro.
Si va dalle mega-eruzioni – eventi capaci di provocare il temutissimo “inverno nucleare” – alle spaventevoli epidemie causate da supervirus; dai funghi patogeni – tipo il Phytophthora infestans che distrusse tutte le coltivazioni di patata in Irlanda a metà dell’800 – alle eruzioni solari – con tanto di emissioni di raggi gamma potenzialmente in grado di friggere la Terra.
Ditemi voi se si può guardare al futuro con speranza…! E fosse solo questo… Tra gli altri rischi cui potrebbe andare incontro l’umanità, non poteva mancare certo l’immancabile asteroide – tipo quello che ha estinto i dinosauri nel Cretaceo – e poi i buchi neri, lo scioglimento dei ghiacci a causa del global warning, le frane sottomarine capaci di produrre tsunami con onde gigantesche – tipo quella che avvenne nel 1998 in Papua Nuova Guinea e che uccise 2.200 persone. Spero che gli autori di Kazzenger non riescano a mettere le mani su questo dossier: nelle condizioni in cui siamo non ce le possiamo permettere altre trenta serie di puntate sulle catastrofi.
E come se non bastasse tutto questo terrore, ecco arrivare l’ultimo rapporto di Greenpeace sulle cosiddette “bombe a orologeria”. Se non avete ancora pensato a redigere un testamento olografo vi consiglio di farlo alla svelta: domani potrebbe essere troppo tardi. Poi nel caso, ho un amico che ultimamente si è specializzato in necrologi e discorsi funebri: è veramente molto bravo e ha tariffe decisamente contenute. Se ne volete approfittare lasciate un recapito telefonico in segreteria.
E cosa dice questo rapporto degli amici ambientalisti? Nel mondo ci sarebbero quattordici progetti in fase di studio capaci di aumentare le emissioni di CO2 di un ulteriore 20%, rendendo praticamente incontrollabili i cambiamenti climatici. Si va dall’estrazione del carbone nella Cina occidentale allo sfruttamento del gas e del petrolio artico, dall’estrazione delle sabbie bituminose del Canada al pompaggio intensivo dai giacimenti in Brasile, Iraq, Golfo del Messico e Kazakistan. Se tutto ciò verrà portato a compimento, nel 2050 ci saranno 300 miliardi di tonnellate di CO2 in più nell’atmosfera, con la produzione e il consumo di quasi 50 milioni di tonnellate di carbone, più di 29 miliardi di metri cubi di gas naturale e 260mila barili di petrolio. Il che significa 5-6 gradi in più entro il 2100. E a quel punto, dicono gli esperti, l’umanità avrà superato abbondantemente il “punto di non ritorno”. Espressione sibillina che sta a significare: “Poi non dite che non ve l’avevamo detto…”.
Soluzione proposta da Greenpeace? Tagliare immediatamente la fame di idrocarburi, ridurre le emissioni, puntare su fonti rinnovabili, produrre oggetti più efficienti e che consumino la metà dell’energia, adottare comportamenti più rispettosi dell’ambiente. Tutti suggerimenti di normale buonsenso, e che se seguiti, innescherebbero oltretutto il volano della cosiddetta “Green-economy”, portando una bella boccata d’ossigeno al mondo del lavoro.
Già, facile a dirsi. Peccato che l’economia globale giri da sempre intorno al business del petrolio. Ed ora pare anche intorno al carbone: un fantasmagorico ritorno al passato.
Di fronte a tutte queste tragedie agghiaccianti, cosa ci resta da fare? L’unica via d’uscita e quella di cercare, nel nostro piccolo, di essere i più responsabili possibili, di ritornare alla sana cultura del risparmio, quella dei nostri antenati. Nessuna società nella storia dell’umanità ha mai sprecato tanto, ha mai prodotto tanti rifiuti. Ce lo possiamo ancora permettere? Questa è la domanda. Ovviamente no. E quindi partiamo dai gesti più semplici: spegniamo le luci che non ci servono, evitiamo di prendere l’automobile anche per andare a comprare il pane, disattiviamo tutti gli stand-by dei nostri elettrodomestici; e poi evitiamo di comprare oggetti con imballaggi enormi, facciamo una corretta raccolta differenziata, acquistiamo prodotti a chilometri zero. E soprattutto parliamo di questi temi tra di noi, cerchiamo di farli diventare argomento comune di conversazione, anche al costo di essere presi per dei tremendi rompicoglioni. Tra un commento sull’arresto di Corona, e uno sghignazzo sulla farfallina di Belen, proviamo a parlare ogni tanto anche di quanto sia bello camminare, di quanto si risparmi ad andare a lavoro in bicicletta o di come siano pratici e convenienti i dispenser dei detersivi (chiaramente ecologici) che consentono di riutilizzare sempre gli stessi flaconi. Passerete per persone originali, forse un po’ tocche, ma dai e dai, riusciremo a cambiare il mondo. E forse a salvarlo.
Poi, per carità, nulla toglie che un asteroide ci possa sempre cadere sulla testa…, questo fa parte delle naturali casualità della vita. A quel punto però, salvo che Bruce Willis non decida ancora una volta di sacrificarsi facendolo esplodere in volo, ci sarebbe ben poco da fare. Si capisce. Nel dubbio comunque vale sempre il solito consiglio strettamente personale: non separatevi mai dal cornetto rosso. Male non fa.

mercoledì 23 gennaio 2013

L’invidia corre sul web...

Allora, parliamoci chiaro, i social network ormai sono entrati a tutti gli effetti a far parte della nostra vita: poche storie. E non c’è età che tenga. Si parte dall’età neonatale e si arriva all’ultimo stadio della senilità: dalla culla alla tomba. So di vecchie zie, ultranovantenni, che ogni sera scacciano a badilate teneri nipotini pur di sedersi davanti al computer e cominciare ricerche furiose sui loro antichi amori.

Che poi spiace dirlo, ma nella quasi totalità dei casi, tali ricerche danno esito tragicamente negativo, causa decessi risalenti a diversi decenni prima. D'altra parte le statistiche sull'aspettativa di vita uomo-donna parlano chiaro. E così alla donna anziana, per reggere la botta emotiva, non resta che affogare il dispiacere nel Fernet.
Oggi come oggi, se non sei su facebook o su twitter sei tagliato fuori dal mondo, vieni considerato al pari di una specie di animale in via d’estinzione. Nessuno ti dà due centesimi di stima se non hai un account su questi siti. Ci sono delle società di ricerca di personale che prima di prendere in considerazione la tua candidatura, pretendono di visionare il tuo profilo facebook, e se hai meno di duecento “amici”, cioè contatti stabili, sei considerato “non idoneo”.
D’altra parte però, occorre ammettere che questa tecnologia avanzatissima in pochissimi anni ha straordinariamente migliorato il nostro modo di relazionarci, di comunicare. Quando ero piccolo il metodo più efficace di comunicare a distanza tra i ragazzi era l’urlo con mani a megafono: “Simoncinoooo, sbrigati che stiamo facendo le squadre per la partita di calcio”. Era forse più poetico, siamo d’accordo, ma quanto fastidio arrecava a tutto il vicinato (soprattutto alle due del pomeriggio).
Oggi invece, in pochi istanti le notizie fanno il giro del pianeta, e ognuno potenzialmente può far conoscere al mondo intero il suo pensiero. È un po’ il concetto della teoria dei sei gradi di separazione: chiunque può essere collegato a qualunque altra persona attraverso una catena di conoscenze con non più di cinque intermediari. E sfruttando questo meccanismo, per esempio, i politici riescono a propinare i loro minestroni indigeribili a tutto l’Universo Mondo. Certo ci vuole comunque un gran bel palato di stagno per apprezzare questa cucina succulenta, ma la platea è talmente ampia che il ristorante non è mai vuoto.
E così tornando ai modestissimi cittadini comuni, come si usa dire di questi tempi – come se poi gli altri fossero cittadini speciali… – , ognuno condivide sui social network pensieri, parole, emozioni, immagini. E a seguire arrivano opinioni, pareri, commenti, risposte ai commenti. Insomma, tutto un fiorire di discussioni, confronti, dibattiti, a volte profondi e raffinati, più spesso frivoli e leggeri. Ed è talmente diffuso questo nuovo medium (singolare di media, ovviamente) che ormai si parla più facilmente attraverso questo canale che non faccia a faccia. Conosco coppie di amici che la sera, tornati a casa dopo una giornata di lavoro, si chiudono in stanze diverse e comunicano tra di loro via chat: sennò non sembra vero.
E poi veniamo al capitolo fotografie: là dove un tempo era il bar il luogo principe dove vantarsi – alla presenza costante di quattro amici perlopiù alcolizzati – ora invece c’è la bacheca di facebook. Gli utenti di questo sito pubblicano quasi esclusivamente immagini che li ritraggono in pose accattivanti, da set hollywoodiano, baciati dal sole e abbronzatissimi. Chi ha la pancia, la camuffa abilmente sotto larghissimi caffetani, i calvi portano sempre cappelli variopinti sulla testa, le bruttone appaiono riprese costantemente da lontano, i bassi nelle foto di gruppo sono sempre in ginocchio ecc…! Tutto un piccolo universo di accorgimenti patetici per apparire meglio di quello che in realtà si è.
E sì perché, dietro a tutta questa realtà virtuale, si agitano pur sempre vite vere, sentimenti, emozioni, aspirazioni. Per cercare di approfondire questo fenomeno, i ricercatori tedeschi del Dipartimento di Sistemi Informativi della Technische Universität Darmstadt, in collaborazione con l’Istituto dei Sistemi Informativi della Humboldt-Universität zu Berlin, hanno effettuato uno studio per valutare i sentimenti delle persone che utilizzano facebook. L’analisi dei dati raccolti ha fatto emergere che più di un terzo degli intervistati ha dichiarato di provare sentimenti perlopiù negativi, spesso di frustrazione. E tale malessere deriverebbe dall’invidia che gli utenti provano nei confronti dei loro “amici” del social. Secondo i ricercatori tedeschi, l’ostentazione del successo degli altri innescherebbe in maniera diretta e immediata il confronto sociale: confronto che nella maggior parte dei casi è causa di conflitto e invidia feroce.
Di fronte a tale tumulto di sentimenti ed emozioni, i disperati internauti hanno due possibilità di fronte a loro: o fingono clamorosamente di non provare invidia (ma in questo caso vanno incontro a terrificanti ulcere gastro-duodenali e devastanti extrasistole maligne), oppure innescano volontariamente la temibile “spirale invidia”, vale a dire un comportamento di natura compulsiva che porta il disgraziato a migliorare continuamente il proprio profilo, aggiungendo solo informazioni, notizie, foto che ne esaltano l’immagine. Ma così facendo si scatena l’invidia di un altro disperato come lui, il quale, a sua volta esalta ancor di più il proprio profilo. E così la spirale si avvita su se stessa senza fine, consumando tutti in una battaglia intestina, fatta di odio e rancore. Quando poi l’invidia si focalizza sulle vacanze, lo svago, l’amore e il tempo libero dell’altro, allora si corre il serio rischio che dall’odio virtuale, si passi alle feroci vie di fatto. E sì perché, sottolineano i ricercatori, frustrazione e invidia influiscono non solo nella vita “virtuale”, ma condizionano negativamente anche la vita di tutti i giorni.
Che fare dunque a questo punto? Respingiamo le novità, ci allontaniamo dal progresso tecnologico, prendiamo a martellate i computer? Niente di tutto ciò: i social network, come ogni altra invenvenzione fatta dall’uomo, sono pur sempre degli strumenti e vanno utilizzati con discernimento. È l’utilizzo che se ne fa a renderli “buoni” o “cattivi”. Possono aiutarci, semplificarci la vita, migliorare le nostre comunicazioni, ma non potranno mai sostituirsi alla vita reale. Occorre tenere ben chiaro nella nostra mente questo concetto, altrimenti corriamo il rischio di farci travolgere.
Parafrasando Olmi si potrebbe concludere dicendo: “Tutte le chat del mondo non valgono un caffè con un amico”.

martedì 22 gennaio 2013

Quando il bue dà del cornuto all’asino

A poco più di un mese dalle elezioni politiche di febbraio finalmente una buona notizia: via gli impresentabili dalle liste. Applauso…! Non è nostra abitudine scrivere di politica, ma una notizia di questo genere non poteva non trovare posto sulle nostre pagine. D’altra parte ormai su tutti i giornali, su ogni canale televisivo e su qualunque sito d’informazione campeggiano titoloni cubitali sulla vera, unica novità di queste elezioni e dunque non potevamo esimerci dal trattare tale succoso argomento.

Per giorni e giorni si è discusso di tasse, di Imu sì – Imu no, di patrimoniale, di debito pubblico, di ricette per la crescita e quant’altro. Ma tutto ciò era inevitabilmente viziato da una domanda ingombrante: possono questi politici essere la risposta per tutti i nostri problemi? Possono coloro che hanno creato questa situazione, essere capaci di risolverla? Ascoltando i responsabili del disastro economico parlare di soluzioni per uscire dalla crisi, mi veniva in mente quella pubblicità dell’azienda che ripara vetri per auto: un tizio prende una grossa pietra, ti sfascia il vetro e poi sul lunotto posteriore ti lascia un volantino: “Hai trovato il vetro rotto? Passa da noi per un preventivo gratuito”. L’altro giorno per esempio un amico mi raccontava dei gravi problemi finanziari cui deve far fronte l’amministrazione pubblica locale per la quale lavora. Anni fa un promotore finanziario di chiara fama aveva convinto l’amministrazione ad acquistare un’ingente quantitativo di “derivati”, con la prospettiva di un grosso guadagno. Tutti sappiamo com’è finita questa faccenda: un colossale flop. Ebbene, dato che l’amministrazione ora versa in enormi difficoltà, ha pensato bene di “ristrutturare il debito”, che in altre parole significa indebitare ulteriormente le generazioni a venire. E a chi verrà affidata questa delicata ristrutturazione? Chi potrebbe mai risolvere questi drammatici e complicatissimi problemi? Ma lo stesso promotore finanziario, ovviamente. Ecco, l’Italia è un po’ questo.
Da oggi in poi però tutto ciò non sarà più un problema: la politica finalmente si rigenera, fuori i farabutti, allontanati i condannati, gli imputati, gli indagati e in generale tutti coloro che hanno pesanti ombre sul loro passato. Non saranno più ammessi candidati impresentabili, banditi tutti i personaggi chiacchierati, a torto o a ragione: perché come si diceva un tempo “non basta che la moglie di Cesare sia onesta, deve anche apparire tale”, essere cioè al di sopra di ogni sospetto.
Dopo un lunghissimo e straziante periodo di decadenza etica e civile, i cittadini italiani finalmente possono contare su di una nuova, ritrovata moralità della classe dirigente. Parola di politico!
No, la nostra non è ironia, ci mancherebbe altro. Chi mai potrebbe fare dell’ironia su una tale tragedia? I partiti, sull’onda del V-Day di Grillo (“Via i condannati dal Parlamento”), spinti dal disgusto della pubblica opinione sugli scandali scoppiati a ripetizione, spaventati dal calo di consensi registrato dai sondaggi, hanno pensato bene di dare una svolta copernicana al meccanismo di selezione dei candidati. In tutte le cancelleria di partito si sono riunite le cosiddette “Commissioni di Garanzia” – che qualcuno con grande sprezzo del ridicolo ha paragonato ai Tribunali dell’Inquisizione - , e dossier alla mano, sono state vagliate tutte le posizioni dei possibili candidati. Metro di giudizio? Opportunità e convenienza.
E già, perché stante che in Italia nessuno è colpevole fino a sentenza passata in giudicato, non si poteva certo pretendere che, per esempio, le Commissioni escludessero a ragione dalla competizione elettorale un condannato per mafia in primo grado. Giammai. D’altra parte la Costituzione parla chiaro. Mettiamo caso che in un eccesso di rabbia un tale sferri un calcio con rincorsa nelle palle ad un altro, aggiungiamoci una buona dozzina di testimoni, telecamere ad alta sensibilità che abbiano ripreso il tutto, e confessione piena e totale del reo, ebbene nessuno potrà dichiarare colpevole costui fino a che la sentenza non sarà definitiva. Ed infatti a lungo i partiti hanno puntato su questo argomento, appoggiandosi al principio del garantismo. E sì, perché l’errore giudiziario ci può sempre scappare, si può sempre incorrere in una toga rossa, azzurra o a pois che sia. Insomma, perché privarsi di un esimio galantuomo, per dei semplici sospetti? Pier Camillo Davigo, pubblico ministero ai tempi dell’inchiesta Mani Pulite, con due frasi smonta così questa posizione: “Se io invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire da casa mia con l’argenteria nelle tasche, non è che devo aspettare la sentenza della Corte di Cassazione per non invitarlo più a cena”. Questo modo di ragionare si chiama principio di precauzione: “Sarai anche innocente, non lo metto in dubbio, ma nell’attesa che si chiarisca la tua posizione, fai un passo indietro”.
E così anche la politica, dopo aver difeso strenuamente la posizione, si è piegata a questo temutissimo “giustizialismo”. E dai sondaggi pare che gli italiani apprezzino.
Stando alle cronache di oggi, tuttavia, pare che non tutto fili liscio nelle segrete stanze delle suddette cancellerie. E sì perché, a voler dare retta a qualche giornalista – sicuramente fazioso, ci mancherebbe – , parrebbe che tra i selezionatori dei candidati, non ci sarebbero poi tutti sti gigli di campo: “Da che pulpito viene la predica”, si potrebbe dire. In una regione del Meridione, tanto per restare sul concreto, ieri si è svolta una drammatica riunione nella quale è stato imposto lo stop ad alcuni esponenti politici di altissimo livello nazionale. L’obiezione è sempre la stessa: “Sei troppo chiacchierato…, meglio che a sto giro passi”. Di fronte a tale presa di posizione uno degli interessati, ha risposto piccato: «Come sarebbe a dire…, perché io fuori e quell’altro dentro? Indagato io, indagato lui…, e dunque perché io un passo indietro e lui un passo avanti?». Risposta: «Perché lui è lui, e tu non sei un cazzo» (per chiosare Il Marchese del Grillo, 1981). Al che il poveraccio ha cercato di buttarla sul patetico: «Che poi, parliamoci chiaro, senza l’immunità parlamentare…, finisco dritto in gattabuia”. Ma dalla segreteria, a breve giro di posta, è giunta una risposta di una logica cristallina: «Ed è proprio per questo che abbiamo parlato di grande sacrificio chiesto ai nostri esclusi…». A questo punto qualcuno sostiene che, dopo un violento alterco, l’illustre escluso sia fuggito verso le colline con i fascicoli di tutti gli altri candidati. Un po’ come quando il ragazzino espulso per un fallo di gioco, si porta via il pallone: “Non gioco io, allora non gioca nessuno”. Ecco a cosa siamo ridotti: poco più che una farsa.
Qualche osservatore malizioso ha bollato tutta questa operazione “liste pulite” come un’enorme speculazione mediatica, in cui non centrerebbe un bel nulla la moralità. Sondaggi alla mano, scartare alcuni impresentabili – si badi bene, solo alcuni – comporterebbe un guadagno di voti in termini assoluti. Per il resto tutto come prima. Vogliamo sperare che non sia così.
Ad ogni modo il suggerimento è sempre lo stesso: recarsi al seggio consapevoli. Essere coscienti di chi si vota, e votare non per fede, ma per convinzione. Se mettiamo caso il nostro partito, per il quale abbiamo sempre votato in passato, ci presenta in lista un personaggio osceno – uno dei pochissimi impresentabili scampato all’epurazione, chiaramente – , dovremo avere il coraggio di ribellarci e trovare alternative valide. In mancanza, e come estrema ipotesi, anche l'astensionismo non sarebbe da escludere.
In questo caso la ribellione non sarà atto di tradimento, ma obbligo morale ineludibile.
È finita l’epoca della delega in bianco.

lunedì 21 gennaio 2013

Eau de Ascel n.5

“Lunedì mattina. Metropolitana di Milano nell’ora di punta. Ora e luogo perfetti per della filosofia”. Un’amica di liceo apre così la sua settimana. In effetti, non c’è luogo al mondo che concili meglio un po’ di sana riflessione: non tanto sulla filosofia, ovviamente, ma sulla triste condizione cui sono immersi i “produttivi” della nostra epoca.

Facce da deportati, occhiaie paurose, sguardo perso nel vuoto, colorito cinereo. Come automi ci si immerge nelle viscere della terra e comincia la battaglia finale per la sopravvivenza.
“Non c’è legge oltre Dodge City, non c’è Dio oltre il fiume Pecos” diceva il vecchio ubriacone del west nel film Chisum. Ed in effetti il paragone calza a pennello: una sorta di giungla in cui regna la legge del più forte, in cui ogni norma civile e morale è calpestata e dove i più deboli vengono pietosamente soppressi. E neanche tanto in senso figurato: è cronaca degli ultimi tempi la simpatica moda di spingere i passeggeri sui binari durante l’arrivo dei convogli. Tant’è vero che, assicurano da Atm, la Linea Cinque di prossima apertura verrà attrezzata con delle transenne mobili lungo tutte le banchine, appositamente studiate contro tali “incidenti”. Sì, altro che incidenti…! A questo punto i simpatici burloni, privati del piacevole hobby, potranno sempre optare per l’affabile spinta sulle scale mobili, oppure per il cortese sgambetto davanti al tornello. Non è la stessa cosa, s’intende, ma d’altra parte occorre pur accontentarsi nella vita.
Che poi siamo onesti, non si tratta solo della metropolitana. Sui mezzi pubblici di superficie la battaglia, se possibile, è ancora più cruenta. Prendere un autobus di linea, soprattutto quelli della circonvallazione milanese, è un’esperienza al limite del fantascientifico. Borseggi, atti di libidine violenta, maleducazione imperante, bestemmie, gomme da masticare attaccate ovunque. E poi i suonatori di tamburo e altri strumenti musicali, verso i quali sei invogliato a mettere mano al portafogli non tanto perché siano bravi o perché mosso a compassione, quanto perché la smettano il prima possibile di fracassarti i timpani.
E siamo ancora in inverno…! Quando arriverà la stagione calda, con temperature spesso da forno crematorio, per i disperati “produttivi” – e non solo – , comincerà una delle piaghe più raccapriccianti dell’era moderna: i terrificanti miasmi da passeggero. E si perché, al di là degli aliti micidiali di cui sono muniti quasi tutti i viaggiatori del primo mattino – tali che neanche i più potenti chewingum alla menta piperita forte riescono un bel niente – , e le insufflazioni selvagge che quasi più nessuno ritiene pubblicamente sconvenienti e indecorose, con l’avanzare dell’estate si crea il giusto mix per arrivare alla combinazione chimica più devastante che ci sia in natura. Ho visto persone di una certa età piangere in silenzio di fronte all’ascella alzata di un fetido sanculotto; altri accasciarsi esanimi al cospetto di individui saliti al volo sul predellino del bus, e sprizzanti sudore e alitate violente in faccia al vicino di posto. Di fronte a tali drammatici flagelli, Paolo Villaggio suggerisce una soluzione: “Se ce la fate, prendete un taxi, almeno il tassista è di spalle” (Sono incazzato come una belva, Mondadori).
Ottimo consiglio. Si potrebbe obiettare tuttavia che non tutti hanno la possibilità di usare questo mezzo, che comunque, resta pur sempre una soluzione per portafogli a prova di crisi. E così, non ci restano che due soluzioni: o ci muniamo di maschera antigas – meglio se modello S.B.R. 1915, di fabbricazione austriaca – oppure ci alziamo con un buon anticipo (intorno alle quattro del mattino) e ci rechiamo a lavoro a piedi. Che oltretutto fa anche bene alla salute.
Ora tuttavia un’illuminante ricerca dell’Università di Bristol, pubblicata sul Journal of Investigative Dermatology, sostiene che il 78 per cento delle persone non ha bisogno di usare il deodorante, anche se poi lo fa lo stesso. Questo perché molti individui sono dotati di una particolare variante genetica che non fa produrre sudore ascellare dall’odore sgradevole. “Riteniamo che queste persone semplicemente continuino a seguire inconsapevolmente una norma socio-culturale non necessaria dato che la variante genetiche permette loro di non emanare cattivi odori sudando”, ha spiegato Santiago Rodriguez, autore della ricerca.
A questo punto, suggeriscono i ricercatori inglesi, basterebbe un piccolo test genetico per evitare di far ricorso a prodotti chimici e industriali. In alternativa, aggiungo io, potremmo provare a non deodorarci per una quindicina di giorni e vedere l’effetto che fa: se anche il nostro miglior amico comincia a parlarci dalla distanza minima di sette metri e trenta, probabilmente siamo privi della variante genetica.
Ad ogni modo è da tanto che sentiamo parlare di ferormoni, di odori naturali, di ritorno all’antico. L’abbandono dello stato di natura ha fatto sì che dimenticassimo quasi completamente tutto il linguaggio olfattivo, che pure ha enorme importanza nel mondo animale. Laura Beani, etologa dell’Università di Firenze, in un’intervista a Il Messaggero sostiene in sostanza che la biologia influenza la nostra attività sessuale amorosa-riproduttiva: «Ci mettiamo quindici secondi per individuare le caratteristiche per noi fondamentali […] è una questione di simmetria. La simmetria, in un viso o in un corpo, è indicatore di uno sviluppo non perturbato, alta qualità genetica, perfetta per la riproduzione. Ma sono anche altri i fattori decisivi. L’odore. Noi scherzando lo chiamiamo Ascel n.5 che sta per Chanel n.5. Gli ormoni di un maschio eccitato arrivano a vaporizzarsi e si depositano proprio sotto le ascelle […]».
Da ciò ne deriva chiaramente che cospargersi di prodotti copri-odori potrebbe alterare l’interazione chimica, fuorviare le reali intenzioni di un individuo, stroncare sul nascere magari una meravigliosa storia d’amore. La qual cosa sarebbe ovviamente una grande tragedia per l’umanità.
Ad ogni modo, visto e considerato che comunque sia, siamo completamente immersi nel nostro tempo e nel nostro brodo culturale, rinunciare al deodorante potrebbe essere un grosso rischio.
Ricordo che un periodo venne da noi in prova un collega giovane, simpatico e brillante. Il capo lo presentò una mattina nella sala riunioni, al cospetto di tutti. Fece subito una bella impressione. Quella mattina tuttavia si avvertiva uno strano odore per l’ufficio, arrivava con ondate violente ad intervalli regolari. Sapeva vagamente di balena putrefatta in avanzato stato di decomposizione. Tutti pensarono ad un problema contingente dell’impianto fognario, e dunque non vi fecero granché caso. Il giorno seguente, al nuovo collega venne assegnata una scrivania, un computer e tutto quanto serviva per lavorare. Il tutto all’interno di una stanzetta con un altro tizio. Verso metà mattinata mi recai da lui per ragguagliarlo su di un progetto, ma venni colpito all’istante da quell’odore maledetto. Oltretutto faceva un freddo micidiale – eravamo in pieno inverno – dal momento che la finestra era completamente spalancata. Andai subito a chiuderla: «Ma come vi salta in mente di tenere tutto aperto? Fuori siamo sottozero…». E proprio mentre finivo la frase incrociai gli occhi del collega anziano: aveva una molletta al naso e mi fissava con uno sguardo d’odio…!
La triste vicenda si concluse purtroppo con la mancata conferma del ragazzo. Non so se sull’esito negativo del periodo di prova abbia influito quel suo piccolo difetto. Di certo nessuno ebbe il coraggio di dirgli nulla. D’altra parte si sa, in questi casi, si parla – o meglio si sparla – sempre alle spalle dell’interessato. E con quanta rabbia poi…! E invece basterebbe che qualcuno si prendesse la responsabilità di parlare chiaro, di essere sincero: «Senti bello, qui abbiamo un problema…! Hai mai pensato di usare un deodorante?». Così facendo magari scopriremmo che il poveraccio ha appena ritirato l’esito positivo del test genetico, e che dunque si ritiene aulente come una violetta di campo. D’altra parte si sa, la scienza progredisce pur sempre per prova ed errori.
Ed invece niente: o si tollera l’intollerabile, o si fa in maniera tale di liberarsi al più presto e nella maniera più indolore possibile della “puzzola” di turno. Arrecando oltretutto ai suoi danni un doppio male: la perdita di un vantaggio attuale, e la compromissione di uno futuro.
E dunque che dire? Anche al costo di essere tacciati di banalità, ci sentiamo di concludere con un unico consiglio alla Mario Catalano, il tizio di Quelli della Notte: “La sincerità conveniente sempre”.
Garbo e prudenza, però. Mi raccomando.

venerdì 18 gennaio 2013

Sì, ma che cos’è la felicità?

È in corso in questi giorni (dal 17 al 20 gennaio) il Festival della Scienza di Roma: tema della kermesse, la “felicità”. Argomento decisamente controcorrente, e dunque coraggioso, in questi tempi di crisi economica e non solo. L’appuntamento capitolino, giunto all’ottava edizione, s’interroga sui segreti di questo misterioso fenomeno, su questo stato d’animo così sfuggente, inafferrabile e di difficile interpretazione.

Stato di grazia, euforia, gioia esplosiva e incontenibile, ebbrezza, allegria, giubilo, entusiasmo sfrenato: che cos’è la felicità e quali sono le cause che la governano?
“La felicità – afferma Vittorio Bo, direttore scientifico del festival – si pone come un bene intangibile a cui non possiamo fare a meno di pensare. È un concetto centrale in filosofia e in psicologia e più in generale, in ambito scientifico, è diventata sempre più oggetto di studio di discipline diverse, dalla biologia alle neuroscienze fino all’antropologia”.
Perbacco, a giudicare da quanti scienziati s’interessano alla materia, verrebbe da pensare che siamo ben lontani da una soluzione al nostro quesito.
Un paio d’anni fa il Financial Times pubblicò un’inchiesta in cui si cercava di assegnare dei parametri economici alla felicità: la salute veniva stimata in 1 milione e 300mila sterline, il matrimonio 200mila, un buon rapporto con i vicini 129mila, godersi finalmente la pensione 114mila. A tutto ciò, ovviamente, potremmo ribattere con l’antico adagio “il denaro non può dare la felicità”, ma poi ci troveremmo inevitabilmente a fronteggiare la chiosa di Woody Allen “figuriamoci la miseria!”. E dunque lasciamo perdere.
A dire il vero però, non sono tanto convinto che qualcuno baratterebbe sul serio un buono stato di salute con un bel gruzzoletto in banca. Passi per i vicini rumorosi, passi per un matrimonio in frantumi, ma la salute…! Nel film Ricominciamo da tre la compagna di Troisi, al termine di un litigio, dice: «Ma Gaetano, che c’importa di questa faccenda? In fondo quando c’è l’amore, c’è tutto». E lui prontissimo ribatte: «No, quella è la salute…».
Il Journal of Consumer Research ha pubblicato recentemente una ricerca nella quale si dimostrerebbe che la felicità è un concetto astratto identificabile più con il desiderio che non con il possesso. Marsha Richins della University of Missouri sostiene che quando in un individuo si manifesta un desiderio intenso, s’innescano immediatamente aspettative, si è propensi all’ottimismo, la bramosia del futuro possesso spinge verso l’allegria, l’euforia. Una volta ottenuto l’oggetto del desiderio tuttavia, questo stato di grazia scompare repentinamente, precipitando l’individuo nel cosiddetto “calo del piacere” dovuto all’appagamento. In altre parole, tutta la felicità provata nel desiderio, si esaurisce con la sua realizzazione. Come se il concetto di felicità fosse legato a filo doppio con l’immaginazione, con la proiezione futura, e dunque con l’aspettativa. Ed in effetti, quante volte c’è capitato di desiderare ardentemente qualcosa, di non dormirci la notte pur di possederla, salvo poi, dopo pochi giorni, abbandonarla nel dimenticatoio? I nostri padri erano ben a conoscenza di questo meccanismo, lo padroneggiavano con cura e attenzione: ecco perché prima di concedere qualcosa ai figli, facevano trascorrere il giusto tempo. In primo luogo l’attesa, accrescendo il desiderio, dava la dimensione dell’importanza e della consistenza del bene; in secondo luogo si instillava nelle menti in via di formazione l’idea che per ottenere qualcosa bisognasse meritarla. Il contrario dell’odierno “tutto e subito”, che fa strame di ogni principio e valore.
Felicità dunque, sarebbe avere desideri, non tanto realizzarli. È pur vero tuttavia che aver desideri e non riuscire mai a concretizzarli porta a frustrazione, abbattimento, sconforto. Ecco perché, per esempio, gli americani inserirono tra i principi fondamentali della loro Costituzione l’illuministico diritto alla felicità. Enunciazione certamente nobilissima, ma per forza di cose destinata ad essere utopistica: per definizione infatti, non tutti sono destinati alla felicità. Non per legge almeno.
Meglio a questo punto sarebbe puntare su qualcosa di più concreto e facilmente perseguibile: armonia, benessere, soddisfazione, serenità. Terzani diceva: «Io trovo che c’è una bella parola in italiano che è molto più calzante della parola “felice”, ed è “contento”. Accontentarsi, uno che si accontenta è un uomo felice». Già, ma questo ci porta inevitabilmente fuori tema. La felicità – o meglio la chimera della felicità – resta pur sempre un soffio di vento impetuoso che solleva da terra, che scuote la forza vitale dal profondo, che da ossigeno all’anima. “Or la squilla dà segno/della festa che viene; ed a quel suon diresti/che il cor si riconforta” dice Leopardi ne Il Sabato del villaggio. È l’idea della festa che “riconforta”, non tanto la festa in se. Perché quando poi la festa verrà, il pensiero sarà già al “diman tristezza e noia/recheran l’ore, ed al travaglio usato/ciascuno in suo pensier farà ritorno”.
E ancora nel film Qualcosa è cambiato Jack Nicolson s’innamora di una cameriera, e non sapendo come conquistarla si lascia andare allo sconforto. Ma il vicino, con il quale ha avuto un passato conflittuale, e che ora è diventato il suo unico amico, gli confida: «Sei un uomo fortunato Mel, perché a differenza di me, tu sai cosa vuoi». E così egli si carica nuovamente di fiducia ed entusiasmo e ricomincia a sperare.
E quindi il desiderio come essenza stessa della felicità. Finché l’uomo avrà la forza di desiderare ardentemente qualcosa, finché sarà capace di provare emozioni, slanci, fremiti, fino a che coltiverà i suoi sogni e le sue passioni, sarà un uomo vivo. E dunque felice.
Ecco forse la risposta che stiamo cercando.

giovedì 17 gennaio 2013

Vai a capire le donne...

“Vai a capire le donne…! ” Quante volte ho sentito questa frase, quante volte mi è capitato di passare ore e ore ad ascoltare gli sfoghi di amici e conoscenti in difficoltà con le rispettive partner. Tremendissime lamentazioni, condite con un misto di autoflagellazione, autocommiserazione e depressione cosmica. Seguite immancabilmente da desiderio di rivalsa, rancore feroce, aggressività esplosiva.
Sentimenti incongruenti, fluttuanti, contrastanti e configgenti gli uni con gli altri. Spiegabili solo con l’enorme stato di confusione e sbandamento psichico che può provocare la fine di una relazione a cui si tiene molto.
In queste circostanze ti senti obbligato moralmente a intervenire, a dire qualcosa di sensato, di utile per la triste condizione del disgraziato, a fare la parte dello psicologo emotivamente coinvolto. Ma immancabilmente ti trovi di fronte al muro del “nessuno mi capisce, nessuno mi potrà mai capire”. Al che tu provi a ribattere, a inserirti nelle disperate lamentazioni del poveretto senza apparire troppo ipocrita, ma non c’è nulla da fare. Questi non ti ascolta neanche: il suo unico intento è quello di sfogarsi, di urlare al mondo intero tutto il suo infinito dolore. E così, avendo preso coscienza della cosa, ti adegui al ruolo che la circostanza ha ritagliato per te, vale a dire quella del figurante che ascolta, che porge la spalla al pianto e atteggia faccia sofferente ed empatia al massimo livello possibile. Anche se onestamente non te ne frega un bel niente, e anzi ti verrebbe da dire: “La sai una cosa, bello? Ha fatto bene a lasciarti…, ha fatto proprio bene: non ho mai visto un rompicoglioni come te…”.
Una volta mi capitò un collega che, per sua (e mia) somma disgrazia, era stato lasciato dalla fidanzata. In uno sprazzo di onestà mi aveva confessato che, in fin dei conti, la colpa di quella rottura era stata la sua: prima ancora che ella gli desse il benservito infatti, era stato lui a lasciarla per mettersi con un’altra. Poi però, resosi conto di aver fatto, con rispetto parlando, una grande stronzata, aveva cercato di rimediare, di riallacciare i rapporti. Ma era troppo tardi: la sua ex non aveva perso tempo e aveva trovato un altro bel grullo con il quale spassarsela. E il mio collega si affliggeva, si straziava l’animo in pianti a tutte le ore del giorno e della notte. E come non bastasse tutto il tempo che gli dedicavo al lavoro, trascurando peraltro le mie incombenze – ma di questo francamente mi fregava men che meno – , prese a chiamarmi anche sul cellulare, ad orari improbabili. Ed era sempre la stessa solfa deprimente e indigeribile. Che poi, quando finiva il credito, prendeva a farmi degli squilli rapidissimi, ed io, citrullo fino in fondo, lo richiamavo anche: mi asciugava ogni volta non meno di una decina di euro buoni. Poi, tutto d’un tratto, prese a fare discorsi strani: “Io non so se devo uccidere, o se mi devo uccidere…”. Al che capii subito che la tragedia si stava trasformando in farsa, e come conseguenza smisi di stargli dietro. Nel giro di qualche settimana, si fidanzò felicemente con una giovane ragazza rumena. E finalmente smise di frantumarmi le palle.
Facile parlare così, mi ribatterete: prova un po’ tu a trovarti in una situazione analoga. In effetti, devo ammettere che le prospettive cambiano “leggermente” quando siamo noi al centro di una tale tempesta. D’altra parte, nonostante l’essere umano sia un animale empatico, portato cioè a immedesimarsi nel prossimo e provare le sue stesse emozioni, non riusciremo mai – per fortuna verrebbe da dire – a vivere con la stessa intensità le sensazioni delle persone che ci stanno di fronte. Ovviamente anch’io ho provato delusioni sentimentali, anch’io ho sofferto per amore. Come tutti del resto. Le mie reazioni però, sono sempre state estremamente contenute e limitate nel tempo – forse anche perché raramente sono stato coinvolto in maniera totale – . E soprattutto non mi è mai passato per la mente di ammorbare neanche il mio miglio amico con simili faccende. Un po’ per pudore, un po’ perché so quanto sia pesante star dietro ad un deluso d’amore. Solo recentemente mi sono aperto con qualcuno, ma solo e soltanto perché dall’altra parte sentivo un interesse vero per la vicenda. E la cosa mi ha dato molto piacere, perché è utile e confortante poter ascoltare il parere di persone per noi preziose.
L’altro giorno leggevo un’intervista a Marco Rossi, psichiatra e sessuologo: il titolo dell’articolo recitava “Capire gli uomini in dodici lezioni”. Nella sostanza si affrontava il complicato argomento del diverso modo di relazionarsi tra uomini e donne, e pur con tutte le cautele del caso – “le persone sono diverse l’una dall’altra pertanto è difficile e non sempre corretto generalizzare…” - , l’esperto dichiarava “ci sono affinità nei comportamenti maschili (come in quelli femminili) e diventa interessante pensare a qualche regola generale che aiuti a capire chi si ha di fronte”.
A cosa ci porta tutto questo? Per esempio a darmi delle spiegazioni all’accusa che spesso ho sentito rivolgermi da alcune partner: “Sei stato poco chiaro con me…”. E dunque, tenendo conto come regola generale, che l’universo femminile e maschile sono fatti per non comprendersi reciprocamente (a Roma si direbbe: “Famo a non capisse…”), ecco alcune considerazioni di pratica utilità:
Gli uomini tendono a non esprimere i loro sentimenti con le parole, ma con i gesti, con le cose concrete”. Ovvio, è rarissimo trovare un uomo che si lanci in frasi sentimentali, proclami di passione e amore. Per nostra natura, salvo i poeti che pure devono fare il loro mestiere, ogni concessione all’affettuosità manifesta ci appare come qualcosa di insopportabilmente sdolcinato, languido, lezioso, mellifluo. Non sentito, e dunque falso oltreché lesivo del pudore proprio del maschio.
Il modo di ascoltare degli uomini è diverso da quello delle donne”. Mentre queste ultime interagiscono di più durante il dialogo, i primi tendono ad immergersi nella riflessione, senza dare a volte segni di vita. E simile atteggiamento, naturalmente, fa pensare a distrazione, disinteresse, svogliatezza e quant’altro. Ma non è così, garantiscono gli esperti, anche se in determinate circostanze il dubbio che l’uomo stia pensando alla partitella di calcetto con gli amici, resta.
L’uomo rafforza il rapporto condividendo qualcosa di molto personale (passioni, interessi)”, mentre per le donne contano di più i pensieri e i sentimenti. Quante volte, ad esempio, ci si presenta entusiasti dalla fidanzata con due biglietti per andare a San Siro e ci si ritrova invece all’incontro settimanale degli amici del libro? Roba da suicidio…!
L’uomo ha bisogno di spazi tutti suoi”. E qui veniamo ad uno degli argomenti più problematici in fatto di coppia. Chi di noi non ha mai sentito frasi del tipo: «Tu non mi coinvolgi nella tua vita, nelle tue scelte, nei tuoi viaggi…». Fino a che la donna non riuscirà a capire che per l’uomo la libertà (sia pure vigilata, condizionata o provvisoria) è essenziale come l’aria che respira, non comprenderà la natura del partner. E farà del male al rapporto.
L’uomo dimentica in fretta”.  Mentre le donne, a seguito di eventi spiacevoli e difficoltà, sono portate anche per lunghi periodi a manifestare ansia, stress e depressione, l’uomo tende a sorvolare e dimenticare in fretta. Ecco perché spesso, all’uomo ignaro, si ripropongono situazioni che sembravano risolte e invece erano semplicemente sottaciute. E sono le più terribili, perché oltretutto si passa per esseri spregevoli e insensibili.
L’uomo ha bisogno di indizi chiari e diretti”. In altre parole, se una donna vuole qualcosa da un uomo, glielo deve mettere quasi per iscritto, e nella forma più trasparente possibile, data l’assodata incapacità di cogliere al volo del maschio. Tristezza, scontentezza, ma anche desiderio, bramosia d’amore: niente di niente, l’uomo per sua natura non percepisce quasi nulla. Sottoscrivo totalmente questa considerazione, ed anzi aggiungerei, per restare sul personale, che le storie sentimentali più belle le ho vissute proprio grazie all’insistenza e abnegazione di alcune partner nel fare in modo che io capissi: fosse stato per me, potevano passare i secoli.
L’uomo ama essere apprezzato per quello che fa”. In altre parole, più questi avverte un incoraggiamento in relazione ai propri atteggiamenti o comportamenti, più si sentirà spinto a fare sempre meglio. Ecco perché ad esempio, se mia madre diceva a mio padre di piantarla con i suoi inconcludenti lavoretti in casa, egli rispondeva: «Tu sei una donna castrante…».
L’uomo pensa al sesso più della donna”. Le statistiche dicono che la maggioranza dei maschi pensano al sesso minimo una volta al giorno; tra le donne invece la percentuale si riduce ad un quarto. Gli uomini inoltre hanno fantasie erotiche due volte più frequenti, oltre che più varie, e pensano molto più spesso anche a rapporti sessuali occasionali. E tutto ciò per le donne si racchiude in un’unica espressione: «Porco».
L’uomo vorrebbe che la donna prendesse più spesso l’iniziativa nel sesso”. E tutto ciò per gli uomini si racchiude in un’unica espressione: «Porca».
Ci sono volte che anche all’uomo non va di fare sesso”. Lo stress da lavoro, i problemi economici, le preoccupazioni quotidiane, possono influire negativamente anche sull’uomo, non solo sulla donna. Certo sentire «no, non mi va…, ho mal di testa» suona strano, siamo d’accordo. Ma è pur sempre una circostanza da tenere in considerazione. E che non significa mancanza d’interesse.
Per l’uomo conta molto il piacere della partner”. Checché ne dicano e ne pensino tutte le donne del globo. Ecco perché, suggerisce il sessuologo, occorre sforzarsi di parlare, di spiegare ciò che si ama sotto le lenzuola.
Ecco, sì parliamoci. Forse questo è il suggerimento migliore. Evitiamo i sottintesi, non diamo mai niente per scontato, cerchiamo di essere i più trasparenti possibili nei nostri atteggiamenti. Occorre rendersi conto, e parlo per esperienza personale, che tutto ciò che viene sottaciuto, o anche solo sottinteso, può essere motivo di fraintendimento, di incomprensione, di malintesi. A maggior ragione se consideriamo che il 90% delle nostre comunicazioni avvengono attraverso il linguaggio non verbale. E tutti sanno quanto sia facile fraintendere una parola, figuriamoci un gesto.
A volte basta davvero poco per rafforzare un rapporto: un piccolo sacrificio, un gesto di buona volontà, qualche grammo di umiltà. Poca cosa, credetemi, rispetto al conto salato del rimpianto.

mercoledì 16 gennaio 2013

Reminescenze di buon umore

Sarà il cielo grigio, quest’attesa della neve che non arriva, sarà che in giro non si sente parlare d’altro che di crisi, di elezioni e altre similari amenità, fatto sta che oggi è uno di quei giorni in cui sento il bisogno di ridere, di rincorrere il buon umore e non pensare a tutto il resto.
Il mio amico Lucio ed io abbiamo circa tre anni di differenza, io sono il più grande.
A differenziarci, oltre all’età – che da piccoli ci sembrava immensa, mentre ora è poco più che un’inezia – è anche una visione complessiva del mondo. Io non ho mai dato grande importanza al possesso, ai beni voluttuari, all’apparenza, all’avere in genere, mentre egli è sempre stato portato verso la proprietà, l’accumulo, la stabilità economica. Ed è forse proprio questa nostra distanza che ci rende così affini l’uno all’altro, complementari: io sognatore trasognato, idealista, visionario, utopista sperduto dietro alle mie fantasticherie fumose; egli realista, materiale, disincantato, legato indissolubilmente alla concretezza.
Il suo fiuto e amore per gli affari lo portò, all’età di sei anni scarsi, a far redigere un contratto scritto al padre – una sorta di eredità anticipata – , per la cessione, a suo esclusivo favore, della proprietà del disimpegno della casa di famiglia, una specie di locale di transito da cui si accedeva alla cucina e all’uscita secondaria dell’appartamento. Se ricordo bene, per un certo periodo pretese dai familiari anche una salata gabella di passaggio sul suo possedimento. Non ho indagato approfonditamente, ma sono convinto che quell’atto ce l’abbia ancora ben conservato da qualche parte.
E così, quando giungeva l’estate, mentre io sprofondavo nel torpore e nell’accidia più totale, egli si prodigava subito per la ricerca di un lavoro – essendo tra l’altro ancora minorenne – . Perché lavoro significava quattrini, ovviamente; e quattrini volevano dire vacanze e divertimento. Una volta la madre, tramite amicizie e conoscenze varie, riuscì a procurargli un colloquio di lavoro presso un bar. La persona che si era spesa per la raccomandazione aveva una grande stima di questa donna e ne conosceva le grandi doti umane e professionali. Al titolare del bar aveva detto: «Se questo ragazzo è sveglio e volenteroso anche solo in decimo della madre, farai un grandissimo affare ad assumerlo».
E dunque Lucio, che peraltro la sera prima aveva fatto bisboccia fino a tardi, quella mattina si avviò verso il bar con la speranza di trovare un lavoro. Aveva un sonno apocalittico, ma non voleva rinunciare a quell’occasione. Sul foglietto che gli aveva dato la madre si leggeva la via e il nome del bar. Aprì la porta ed entrò. Lo sguardo fluttuava spaesato tra quei locali fumosi, colmi di rumori e chiasso. Da dietro il bancone un omone con un grembiulaccio azzurro da barista gli chiese cosa volesse. Ed egli prontissimo: «Salve, cercavo la signora Bianca Maria…».
Il barista lo guardò come si guarderebbe un elfo appena uscito dal Bosco Atro, quello de Il Signore degli Anelli: «A dire il vero qui non c’è nessuna signora Bianca Maria…! È pur vero che qui siamo in viale Bianca Maria, ma la nobildonna è deceduta qualche secolo fa…».
Al che Lucio, accortosi dell’errore grossolano, spiegazzò nervosamente il foglio e cercò disperatamente un altro nome: «Ha ragione, mi scusi, ha perfettamente ragione. In realtà cercavo il signor Victory».
Il barista, che peraltro era una carogna conclamata, rispose: «Guarda che Victory è il nome del bar…! Ad ogni modo dimmi, sono il proprietario».
Lucio era paonazzo dalla vergogna, ma trovò la forza di dire che era lì per il colloquio di lavoro. A quelle parole al barista tornarono subito in mente le frasi profetiche udite un paio di giorni prima: “Se questo ragazzo è sveglio e volenteroso anche solo in decimo della madre…”. Ad ogni modo l’esperienza durò solo pochi giorni, e non lasciò un piacevolissimo ricordo in nessuno dei due.
Ma Lucio non si dette per vinto e, nel breve volgere di qualche settimana, trovò un nuovo impiego. Questa volta si trattava di una bottega da salumiere del centro, la cui clientela era rappresentata per lo più dagli impiegati degli uffici dei paraggi. Lucio al mattino aiutava il titolare a preparare i panini e, a ora di pranzo, effettuava le consegne. E ogni volta era sempre la stessa stucchevole litania: «Giovane – dicevano a ripetizione gli impiegati – , ma questi panini li fa lei?».
Lucio prendeva immediatamente le distanze: «No, no io faccio solo le consegne…».
«Ecco – continuavano i clienti rancorosi – allora dica al principale di metterci una fetta di salame in più per cortesia…, che diamine. Guarda qua che roba…, questo panino è il ritratto della tristezza…».
Lucio riferiva diligentemente le lagnanze, ma il padrone rispondeva sempre immancabilmente: «A si, vogliono più salame…? E allora di loro che sarò costretto ad aumentare il prezzo…! Diglielo, diglielo pure…!».
Resistette fino ai primi d’agosto a quel ping-pong di alta economia, poi diede le dimissioni e se ne andò a Milano Marittima con gli amici.
A settembre ricominciò la scuola, ma fu una perdita di tempo. In classe non seguiva, fumava durante le lezioni, minacciava i compagni di classe e irrideva i professori. Il preside, esasperato dalle lagnanze dei docenti, fu costretto a chiamare il padre: nel colloquio che ne seguì venne avanzata la proposta di ritirarlo da scuola. E così avvenne.
Ma Lucio non se ne stette con le mani in mano. Un suo amico gli suggerì di fare domanda presso una cooperativa di lavoro dell’hinterland. Nel giro di qualche giorno si ritrovò in un ampio capannone nei pressi dell’Orto Mercato provinciale, in compagnia di una nutrita schiera di sfaccendati, extracomunitari irregolari e avanzi di galera. Dieci ore al giorno a selezionare (“questo è buono, questo non è buono”) i limoni che poi sarebbero finiti sui banconi dei supermercati. Che poi non sarebbe stato neanche tanto malaccio come lavoro, se non fosse stato per quel fetido responsabile del personale, un caporale di un’ignoranza e cattiveria potenzialmente clamorose: «E questi sarebbero limoni capati? Eh…, dico a voi, farabutti…!». E cominciava a lanciare limoni bacati sulle teste dei lavoratori atterriti…! Anche sta volta Lucio tagliò la corda senza grossi rimpianti.
Provò poi con un impiego da operaio presso una fabbrica che produceva copri water in pvc, ma neanche questa volta venne rapito di entusiasmo. Finì dunque presso un’azienda che produceva isolanti elettrici. E qui finalmente trovò un po’ di serenità. Anche perché in quell’ambiente si trovava a suo agio, la paga era decente, i capi abbastanza umani e i colleghi simpatici. Tra questi ultimi uno in particolare era il suo preferito: Vittorio. Costui, come si direbbe a Roma, era un gran cazzaro, uno che raccontava un sacco di frottole, che amava vantarsi, che probabilmente beveva, e che era stato accusato, in passato, di aver compiuto anche qualche furtarello di poco conto in azienda. Una volta, ad esempio, un collega l’aveva incolpato di essersi appropriato addirittura delle suolette antiodore dei suoi scarponi. E da quel dì, in officina tutti presero a chiamarlo Arma Letame Due. Ma così, del tutto bonariamente. Vittorio poi, nonostante fosse un padre di famiglia, e dunque carico di responsabilità, assumeva sempre atteggiamenti assai licenziosi con le colleghe: lanciava battute, provocava, faceva proposte indecenti. Spesso si esibiva nella sua specialità, vale a dire il cosiddetto “salamino”: s’infilava cioè nei pantaloni uno strofinaccio, e poi mostrava con spavalda guitteria la sua mascolinità taroccata. Ed i colleghi ridevano, ridevano con lui. La sua filosofia di vita infondo era una, e una soltanto: “Se chiedi puoi ottenere un si o un no; se non chiedi sarà sempre un no”. E alla teoria faceva seguire immancabilmente la pratica. Un bel giorno giunse una nuova inserviente per le pulizie, una signora di mezza età, non troppo avvenente, e Vittorio non perse tempo: «Ciao bella, che ne dici se ce ne andiamo a mangiare qualche pizza (sic) una di queste sere?».
E la sua audacia venne repentinamente premiata: «Si, perché no. La macchina ce l’hai?».
Vittorio andò immediatamente a vantarsi di questa nuova conquista con i colleghi. Lucio tuttavia dimostrò di non apprezzare molto e questi dunque chiese spiegazioni: «Ma dai, è brutta, è brutta forte. Non l’hai vista che faccia che ha?».
Ma Vittorio, indignato, difese senza indugio la sua posizione: «Tu la faccia…, toglila di mezzo. È il resto che conta. Ad ogni modo, lo sapevo…! Lo sai qual è il tuo problema, Lucio? È che sei troppo timido».
E dunque, tra un’avventura sentimentale e l’altra, un bel giorno Vittorio, passeggiando per il corso, s’imbatté in un manifesto funebre che lo fece trasalire. Il suo collega Mario, il suo caro – per modo di dire – collega Mario Squicciarelli, di anni 53, era defunto. A dire il vero il manifesto era strappato, scolorito per la pioggia e non si leggeva integralmente il nome. Ma non c’erano dubbi, si trattava proprio di Mario. Il giorno dopo, impaziente di dare la notizia ai colleghi, si presentò in officina quasi in lutto totale. Chiamò tutti intorno a se e con la voce carica di finta commozione disse: «Avete saputo…? È morto Mario. È morto Mario Squicciarelli…!».
La notizia colse tutti di sorpresa, lasciando senza parole. Poi, ad un tratto, uno dei colleghi ruppe il silenzio: «Ma come, ieri sera era qui, stava benissimo…! Ma sei sicuro, Vittorio? Chi te l’ha detto?». Al che tra i presenti cominciò immediatamente a insinuarsi il dubbio.
Vittorio perse subito le staffe: «Come sarebbe chi te l’ha detto? Metti in discussione la mia parola? L’ho letto, ho letto il manifesto…! È morto, Mario Squicciarelli è morto…! Ve lo dico io…!».
Ma in quel preciso momento, proprio mentre Vittorio si batteva con tutte le sue forze contro quel gruppo di implacabili nichilisti, alle spalle del capannello e con il suo solito passo svelto e deciso, transitò Mario: «Ehilà, buongiorno a tutti…».
Nell’ampio capannone si udì un unanime, sentitissimo “vaffanculo” corale che sapeva tanto di liberazione.
Da alcuni anni il mio amico Lucio svolge un altro lavoro, molto più appagante, soprattutto dal punto di vista economico. Il che non guasta, ovviamente. Ma quando abbiamo voglia di sorridere un po’, quando sentiamo la necessità di alleggerire il peso della vita con una risata, il pensiero torna a questo passato spassoso, a queste deliziose chicche che impreziosiscono la memoria degli anni lontani. Episodi che, edulcorati dal tempo trascorso e resi quasi fiabeschi dalla distanza, hanno perso tutto il carico di brutture e dolori, lasciando solo la bellezza della semplicità e dell’ingenuità di quel mondo.
Ed è un fardello che non pesa, che non porta pena, ma arricchisce e lascia senso di quiete.
E ce n’è un gran bisogno.

martedì 15 gennaio 2013

Dietro le quinte della Storia

Piero Angela e Alessandro Barbero hanno da poco pubblicato un libro dal titolo decisamente accattivante: Dietro le quinte della Storia. È dal 2007 che questo sodalizio tra menti raffinate va avanti nell’ambito del programma televisivo Superquark, ma questa è la prima volta che i due scrivono un libro a quattro mani.

Che poi chissà perché si dice “scrivere a quattro mani” quando si tratta di due autori: forse che normalmente scriviamo con due mani? O forse s’intende scrivere a macchina o, più modernamente, al computer? Oltretutto é notorio che la maggior parte degli scrittori per battere sui tasti usano non più di tre, quattro dita in tutto. Bah, in ogni caso l’immagine di due che scrivono davanti ad uno schermo mi mette addosso una tristezza infinita: meglio pensarli intenti a discutere dottamente prendendo appunti su delle moleskine, davanti ad un camino, o su una terrazza che si affaccia sul mare, mentre il sole s’immerge lentamente all’orizzonte. Libro dei sogni, naturalmente.
In questo nuovo volume, impostato sul modello domanda-risposta – il giornalista introduce l’argomento e l’ordinario di Storia Medievale risponde approfondendo la materia – , i due affrontano una serie di argomenti concreti, reali, sostanziali della vita di tutti i giorni dei nostri antenati, e ciò che più avvince il lettore è il costante riferimento e raffronto con i nostri giorni. Si discute di alimentazione, di viaggi, di rischi dell’esistenza, di famiglia, casa, religione, guerra, privilegi e mobilità sociale ecc… È affascinante lasciarsi guidare tra le pieghe della storia, all’ombra dei grandi eventi che da sempre abbiamo studiato sui libri di testo: ci si rende conto di come ragionavano i nostri avi, di quali erano i loro pensieri, le loro priorità, aspirazioni, modi di vedere il mondo. Ad esempio, il fatto che nell’antichità non si festeggiassero i compleanni, punto cruciale ed essenziale, al contrario, nella scansione delle nostre vite attuali, ci fa aprire squarci di profondità nella conoscenza del passato. Lo scorrere del tempo per gli antichi non aveva bisogno di orologi, né di calendari: semplicemente non se ne sentiva la necessità, anche perché il tempo apparteneva a Dio. Mancava in sostanza il concetto di futuro, non c’era la proiezione sul domani, salvo le preoccupazioni legate alla semina e al raccolto. Era una costante, determinata concentrazione sull’oggi, sull’hic et nunc. Spesso, ad esempio, non si festeggiava il compleanno perché banalmente non si sapeva né quando si era nati, né in che anno si vivesse in quel momento. È rarissimo, afferma Barbero, trovare un atto di epoca medievale in cui si abbia la certezza della data di nascita di qualcuno. Il primo documento attendibile in cui si parla di festa di compleanno, con annesso spegnimento delle candeline sulla torta, risale al 1803, in piena epoca napoleonica: Goethe festeggia il suo 53esimo compleanno.
Tra gli altri argomenti che mi hanno incuriosito, c’è quello legato alla sessualità: in un passato neanche troppo remoto, esistevano delle regole assai rigide sulla vita sessuale, e l’onore della famiglia imponeva un comportamento improntato al pudore, all’onestà, alla sobrietà dei costumi, al rispetto del decoro. La verginità della nubenda era sacra, il libertinaggio malvisto, l’adulterio della donna sposata una colpa riprovevole e foriera di conseguenze gravissime. Ma a fronte di tutto questo sistema di valori, che segnava pesantemente lo scorrere della vita alla luce del sole, esistevano al contempo abitudini e comportamenti, soprattutto in ambito maschile, che – nell’ombra del non detto – apparivano tutt’altro che virtuosi. Per avere un’idea della portata di tali costumi basta pensare che nelle grandi città il dieci per cento dei bambini erano trovatelli. Certo per fare bambini occorreva pur sempre essere in due, ci mancherebbe, ma mentre per gli uomini avere dei figli illegittimi e a spasso per il mondo poteva rappresentare quasi un vanto – sebbene ipocritamente sottaciuto – , per la donna era sinonimo di disonore, immoralità e meretricio.
Tutto ciò mi ha fatto tornare alla mente un episodio di famiglia, lontano nel tempo eppure costantemente riproposto, con un misto di ilarità e orgoglio. Siamo intorno alla metà degli anni ’30, una piccola città di provincia del Meridione. Nella numerosa famiglia di mio nonno paterno – composta da ben otto fratelli, oltre ai genitori – Antonietta, la sorella maggiore, comincia a frequentare un simpatico giovane. All’apparenza si tratta di un buon partito, ha un ottimo lavoro, proviene da una famiglia di specchiata onorabilità. Che sia minuto e leggermente scuro di carnagione – talché bonariamente gli si appioppi il nomignolo di Maometto – poco importa. I due cominciano a frequentarsi e le rispettive famiglie si preparano psicologicamente, e ancor più economicamente per il grande passo che li condurrà verso il matrimonio. Improvvisamente però, come il classico fulmine a ciel sereno, comincia a diffondersi la notizia che Antonietta è incinta. La famiglia, oltraggiata da questo accadimento inopportuno e inaspettato, dapprima cerca di negare la notizia, ma poi, dato il precipitare degli eventi, è costretta ad ammetterla. Ma la faccenda prende subito una brutta piega: Maometto, messo al corrente della gravidanza della fidanzata, si dimostra assai poco responsabile. E tra mille scuse, mezze frasi e velate accuse di tradimento rivolte alla fidanzata, fa intendere di non essere più disposto a sposare Antonietta. In famiglia è il caos. Il disonore, e ancor più l’angoscia che la ragazza debba crescere un bimbo da sola e che soprattutto possa restare a carico dei parenti – chi mai potrà prendersi per moglie una donna così compromessa? – , fanno tremare dalla rabbia e dalla paura. E così, ecco correre in soccorso della sventurata la rete di protezione familiare. Michele e Luigi, due dei quattro fratelli maschi di Antonietta, fanno giungere un’ambasciata a Maometto, nella quale lo si invita a un chiarimento civile, educato e alla luce del sole. Perché, “va bene tutto – vi si legge nel biglietto – , ma prima di ogni altra cosa occorre conservare buoni rapporti”. Maometto è preoccupato all’idea di tale incontro, teme che possa finire male, anche perché Michele e Luigi sono due energumeni, grandi, grossi e si dice anche violenti. Michele tra l’altro ha un passato da picchiatore fascista alle spalle. Tuttavia accetta, anche perché se l’incontro avviene in luogo pubblico ha poco da temere. E dunque, una bella domenica mattina, i tre si trovano in centro, presso un’osteria. Il clima è sereno, si discute del più e del meno, non dico con armonia, ma senza neanche tensioni o attriti. E poi così, dopo aver disquisito dell’incostanza del tempo meteorologico e delle recenti avventure coloniali dell’Impero, en passant, il discorso cade sulla triste vicenda. Maometto, con uno stato d’animo rasserenato dalla cordialità dei due, si lascia andare e confessa apertamente di non essere più disposto a sposare Antonietta. E pur con molto tatto, adombra l’ipotesi che la stessa non gli sia stata poi del tutto fedele durante il loro rapporto. E che dunque si ritiene del tutto estraneo e privo di obblighi riguardo al nascituro. Michele e Luigi, accolgono tali parole con apparente tranquillità, senza denotare un minimo cenno di reazione. Usciti dall’osteria, tuttavia, prendono con insolita fermezza sottobraccio Maometto, e lo invitano gentilmente a fare due passi. Giunti però sul cavalcavia della ferrovia, la situazione muta in maniera definitiva. Con una manovra risoluta e improvvisa i due afferrano per le gambe Maometto e lo sporgono dalla balaustra fino a farlo penzolare con la testa nel vuoto, verso i binari. Questi comincia a gridare disperato, chiede aiuto, urla frasi e preghiere sconclusionate verso i suoi aggressori. Oltretutto passa un treno sotto il sul capino, e dunque le sue parole arrivano ancora più drammaticamente incomprensibili. Quando il frastuono finisce, Michele e Luigi finalmente riescono ad udire, e sono parole di una chiarezza cristallina: «Me la sposo…, me la sposo subito. Ci siamo fraintesi, ci siamo tremendamente fraintesi…! Domani stesso vado in chiesa per le pubblicazioni…! Mettetemi giùùùùù».
A detta dei presenti fu un matrimonio bellissimo.
“Sembrerà strano, perché in tutti i sondaggi la gente, se si pone il problema della sicurezza tende a rispondere che si sente insicura e che il paese è più pericoloso rispetto al passato. Ma è uno di quei casi in cui la percezione della gente è sbagliata. Un secolo fa in Italia il numero degli omicidi rispetto al totale della popolazione era il quadruplo rispetto ad oggi. Il paese era molto più violento e pericoloso, solo che non ce ne rendiamo conto […]. Era un mondo molto più violento del nostro. La gente girava armata: non c’era nessuno che non girasse con un coltello nella cintura […]. E poi la gente era più povera e quindi anche più attaccata al possesso; si litigava molto, anche per cose da nulla, si creavano rancori che duravano anni, nascevano le faide familiari, e prima o poi arrivava l’archibugiata […]. Per molto tempo l’omicidio non è stato considerato un crimine veramente grave; era molto più facile cavarsela se si commetteva un omicidio, che non in caso di furto”. Ecco, più leggo queste considerazioni di Barbero e più m’immergo nel passato e lo capisco. E anche le storie di famiglia, quelle più piccole e banali, quelle avvolte da veli di mistero e che inevitabilmente sono destinate a essere dimenticate, assumono ai miei occhi consistenza di realtà. E così là dove un tempo c’erano sorrisi e interrogativi dettati dall’incomprensione, ora vi sono sorpresa e riflessione sulle ragioni che governavano quei comportamenti dei nostri antenati. E tutto ciò mi porta grande piacere, immenso piacere: perché capire la storia infondo vuol dire anche collocare ogni casella al posto giusto.