Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

giovedì 28 febbraio 2013

L’autobus di Rosa

Al termine di quella lunga giornata di lavoro, Rosa raggiunse come ogni sera la fermata dell’autobus ed attese che il “Cleveland Avenue” sopraggiungesse. Faceva freddo a Montgomery (Alabama) quel primo dicembre del 1955 e Rosa era stanca e non vedeva l’ora di tornare a casa. Quando la corriera giunse, affollata come ogni volta, Rosa salì sul predellino, salutò l’autista e cominciò a cercare con lo sguardo un posto per sedersi. La parte posteriore, quella riservata alla gente come lei, era strapiena, le persone pigiate una accanto all’altra. Quella anteriore invece era semivuota. Rosa rimase immobile un attimo, assorta, come a scorrere i titoli di un film visto e rivisto infinite volte. Sapeva bene qual’era la regola, conosceva i suoi doveri, eppure qualcosa si agitava ribelle dentro di lei, e le impediva di muoversi. Poi, all’improvviso decise. C’era un posto libero vicino all’autista e lei ci si sedette. Un paio di fermate dopo salirono alcuni uomini bianchi e vedendola seduta là dove solo loro potevano, cominciarono a protestare con l’autista. Questi arrestò la corriera e, dopo aver inutilmente chiesto a Rosa di cedere il posto abusivamente occupato, chiamò un paio di poliziotti. Rosa aveva paura, sapeva a cosa andava incontro con quel suo gesto temerario e irresponsabile, ma era decisa a tutto. Come colui che non ha più nulla da perdere salvo l’onore. Com’era immaginabile fu arrestata e trasferita in carcere per condotta impropria e per aver violato le norme cittadine. Da allora Rosa passò alla storia come “the woman who didn’t stand up” (la donna che non si alzò). Comincia così la vicenda di Rosa Louise Parks, la donna che con il suo gesto di ribellione, cambiò per sempre la storia degli Stati Uniti d’America. Quella stessa notte, una cinquantina di leader della comunità afro-americana, guidati da Martin Luther King, pastore protestante ancora semisconosciuto, si riunirono per decidere una strategia comune per reagire a quell’episodio. Nei giorni successivi a Montgomery cominciò il boicottaggio dei mezzi pubblici: la protesta proseguì per oltre un anno. La notizia di diffuse in tutto il paese e ovunque nacquero spontanei moti di protesta contro il regime segregazionista. Nel 1956 il caso giunse dinnanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che decretò contraria alla Costituzione la segregazione sui pullman pubblici dell’Alabama. Da quel momento, nacque il mito di Rosa Parks l’icona indiscussa del movimento per i diritti civili.
Ieri, 27 febbraio 2013, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha inaugurato a Capitol Hill, sede del Congresso, una statua della pioniera dei diritti civili con queste parole: “Rosa Parks ci insegna che le cose possono accadere o non accadere, e se si vuole cambiare il mondo è necessario sfidare l’ingiustizia con coraggio”. Ha del commovente questa storia: una piccola donna indifesa, una semplice sarta neanche più tanto giovane (a quell’epoca aveva 42 anni), disposta a mettere in gioco tutto, a combattere una battaglia impossibile, a mettersi contro l’autorità costituita, violenta e spietata. E il tutto per un ideale di giustizia. Nascono così le grandi avventure umane, le grandi sfide contro l’orrore: “Con quel gesto semplice – continua Obama – Rosa ha contribuito a cambiare l’America e il mondo”.
A seguito di quelle vicende Rosa ricevette numerose minacce di morte, perse il lavoro e non le riuscì di trovarne un altro a Montgomery. E così decise di trasferirsi a Detroit, nel Michigan, all’inizio degli anni sessanta, dove riprese l’attività di sarta. Dal 1965 al 1988 lavorò come segretaria per il membro del Congresso John Conyers. Nel 1999 il Congresso degli Stati Uniti le conferì la Medaglia d’oro per meriti civili. Rosa si è spenta a Detroit il 24 ottobre del 2005, all’età di 92 anni.
La discriminazione razziale è quanto di più turpe possa esistere sulla faccia della terra. E questa non è una mera asserzione di principio è una constatazione. Qualche tempo fa, nonostante sia cittadino italiano su suolo italiano, ho assaggiato sulla mia pelle cosa voglia dire sentirsi disprezzati per le proprie origini. Essendo figlio di meridionali emigrati al nord per lavoro, ho avuto fin da bambino uno strano rapporto con i coetanei settentrionali da generazione. Spesso la mia cadenza era oggetto di scherno, qualcuno mi chiamava “Foggia” per identificarmi con il luogo di nascita dei miei parenti. Ma fino a che ho trascorso la mia vita in una grande città, nel grande crogiuolo di lingue, dialetti e culture metropolitane, la faccenda era derubricabile a puro folclore. Trasferitomi invece nella bassa padana, dove l’ambiente è più chiuso e provinciale e il fenomeno dell’immigrazione, a quell’epoca ancora del tutto marginale, ho dovuto constatare quanto peso abbia ancora il fatto di non essere del posto. “Adesso devi imparare il nostro dialetto”: quante volte ho sentito questa stupida frase, pronunciata con arroganza da persone che vogliono che tu ti integri. Espressione orrenda. Perché o ti integri o resterai sempre un forestiero, un cittadino di serie “B”. Ma uno può anche non farci caso a tutto ciò, può rassegnarsi e aggregarsi da paria alla comunità. Sempre che questa gli consenta di aderire. Ciò che non si può far finta di sapere, tuttavia, è che presto o tardi qualcuno ti urlerà in faccia tutta la tua diversità. Ed è ciò che mi è accaduto appunto qualche tempo fa. Mi trovavo allo stadio come soccorritore della Croce XXX, addetto alle tribune. Un altro equipaggio era dislocato sul campo di gioco. Durante l’intervallo venne da me correndo un signore: un giocatore stava male negli spogliatoi. Avrebbe dovuto intervenire l’altro equipaggio, ma non lo vedevo. E così presi con me un collega e lasciai sulle gradinate gli altri due. Negli spogliatoi il ragazzo aveva dei capogiri e non riusciva a stare in piedi. Probabilmente aveva una commozione cerebrale. Gli prendemmo i parametri e cominciammo le operazioni di trasferimento in ospedale. Nel corridoio incrociammo l’altro equipaggio. Uno dei soccorritori, una donna non più giovanissima, mi venne incontro e con un’espressione astiosa, mi disse: «Cosa ci fai te (sic) qua? Tu devi stare sugli spalti. Dobbiamo pensarci noi ai giocatori». Risposi che avevo lasciato là due colleghi. Insistette con rabbia a vomitarmi addosso parole di fuoco. Senza peraltro curarsi minimamente che ci fosse un paziente da assistere. Lasciai le consegne al capo-equipaggio e mi incamminai verso la mia postazione. Ma costei continuò a seguirmi e a dirmi altre parole. Mi fermai e guardandola fissa negli occhi le disse: «Senti bella, voi non eravate sul posto e io di fronte a una richiesta d’aiuto, me ne frego delle regole. Chiaro?». Esplose nella classica espressione usata dai beceri di queste latitudini: «Sei un terrone di merda…! Ecco cosa sei: un terrone di merda…». Le feci ingoiare una per una quelle parole: se non l’avesse fatto, l’avrei querelata il giorno dopo. E lei lo sapeva. La faccenda si chiuse con le sue scuse, in presenza di testimoni. Eppure tornando a casa, provai un senso di rabbia profondo, un odio inverecondo verso quella persona che mi aveva aggredito senza una sola ragione. Sì, in precedenza c’era stato qualche scambio di battute poco simpatiche, ma pensavo fosse tutto riconducibile alla normale dialettica tra colleghi. E invece questa persona covava nei miei confronti un autentico sentimento di odio razziale. Che poi quando glielo spiattellai in faccia, come tutti i razzisti di questo mondo, ebbe anche il coraggio di piccarsi: «Io razzista? Giammai…! Ci mancherebbe. Anzi, ti dirò, tra i miei migliori amici ci sono anche dei meridionali». Come i cani, insomma: evviva l’ecumenismo. Ad ogni modo mi ci vollero diversi giorni per digerire quella brutta storia. L’odio razziale ti scende come un corrosivo dentro, ti macera, ti brucia, raggiunge la parte più profonda di te stesso, l’essenza stessa della tua persona. Un qualsiasi altro insulto resta in superficie, pertiene al come appariamo esternamente, a come ci manifestiamo: stupido, maldestro, ladro, sono tutti insulti che riguardano la persona attuale, quella che hai davanti. L’insulto razzista invece è un quid prius, è odio puro verso una categoria, uno schiaffo alla carne viva a prescindere. Senza alcuna ragione oggettiva se non che sei diverso, e il diverso è qualcosa che non ci appartiene e che va allontanato.
Ecco perché, a distanza di oltre mezzo secolo, leggo la storia di Rosa Parks e sento una grande emozione. La sua storia è un po’ anche la mia.

mercoledì 27 febbraio 2013

Wild West: l’America dei Pionieri

Loup Valley, Nebraska, 1886
Lunedì scorso a Milano ha aperto al pubblico la mostra fotografica intitolata Wild West. 1861 - 1912: l’America dei Pionieri. Si tratta di 55 riproduzioni digitali di antiche fotografie conservate presso i National Archives degli Stati Uniti. Sono immagini rare che ritraggono cowboy a cavallo, pistoleri, cavalleggeri nelle sterminate praterie del nord-ovest, sceriffi, pionieri su carriaggi sgangherati. In una parola l’epopea del selvaggio west. Ci sono i cowboy della Aztec & Cattle Company di Holbrook, nei Territori dell’Arizona (1877), ritratti in posizione spavalda, con i cappelli a larghe tese e le mani sul cinturone; e poi il gruppetto di sceriffi di Dodge City, Kansas, tra cui spunta lo sguardo tenebroso di Wyatt Earp, l’eroico protagonista della sfida all’O.K. Corral, resa immortale da svariate pellicole cinematografiche; e ancora la colonna di cavalleria del Generale George A. Custer mentre attraversa per l’ultima volta, prima del massacro, le pianure del Territorio del Dakota, durante la spedizione militare delle Black Hills (1874). Ma, al di là della leggenda del west, che inevitabilmente s’intreccia con la realtà, le immagini che colpiscono di più sono quelle che ritraggono le persone comuni, le famiglie. In una fotografia del 1895, scattata nella Contea di Woods, Oklahoma, si vede un gruppo di bambini con la loro insegnante davanti a una baracca fatta di assi di legno e zolle di terra: la loro scuola. In campo lungo una prateria sterminata, brulla e tetra. Dall’abbigliamento indossato si potrebbe presumere che fosse autunno inoltrato. Quelli ritratti sono i figli dei pionieri, i figli dei contadini che, dopo infinite peripezie, hanno raggiunto la terra promessa. Osservandoli bene, ci si accorge che non hanno tutti la stessa età: ordinati su tre file, ci sono adolescenti (maschi e femmine insieme) e bambini di non più di cinque o sei anni. Hanno tutti un bell’aspetto - ben nutriti e in salute - e molti si assomigliano tra di loro: sicuramente ci sono fratelli e sorelle. Ma non sorride nessuno. Anzi, per dirla tutta, qualcuno ha proprio l’espressione imbronciata. Al che ho pensato: “Certo non è che avessero molto da sorridere in quelle condizioni”. Poi però ho recuperato una vecchia foto di quando andavo alle scuole elementari e mi sono reso conto che neanche lì c’era il minimo sorriso. Evidentemente, in ogni epoca, la foto di classe è sempre stata una sorta di tortura. Ma scorrendo il catalogo ci sono anche altre immagini molto significative: una famiglia posa davanti al tipico carro coperto dal telo bianco, utilizzato durante l’avventurosa migrazione verso il west (Loup Valley, Nebraska, 1886). Due ronzini, uno bianco e l’altro nero; il capofamiglia, grande e grosso e con una lunga e folta barba nera (come usava in quei tempi); la moglie, una donnetta minuta con capelli raccolti in una coda di cavallo e un abito a righe lungo fino ai piedi; il figlio maggiore, stessa corporatura del padre, giubba scura abbottonata e cartucciera da fucile alla vita; figlia piccola, non più di cinque anni, sul carro. Sul carro un fucile, dei panni, alcune lenzuola e qualche pentolino. Nient’altro. Fa impressione pensare a quanto coraggio ci volesse per abbandonare un luogo civilizzato per inoltrarsi nel nulla, in una sconfinata prateria in cui per centinaia di miglia non vi era alcuna traccia di esseri umani. Salvo i feroci e sanguinari “pellerossa”, come si sosteneva fino a qualche decennio fa. E viene da chiedersi che sorte sarà toccata a questa famiglia, che ne sarà stata della loro esistenza? Avranno raggiunto la meta che si erano prefissati, avranno trovato un luogo dove vivere? Non lo sapremo mai. E poi c’è la foto di un gruppo di prigionieri della tribù dei Crow, scattata nella loro riserva del Montana (1887). Circondati da soldati in blu armati fino ai denti, posano avvolti nelle coperte fornite “benignamente” dall’uomo bianco, mostrando ancora l’antica armonia e fierezza del tempo in cui erano un popolo libero e padrone della propria terra. Adorni di lunghe trecce nere ed eleganti collane d’osso, fissano l’obiettivo con sguardi seri, eppure privi di rancore, sconfitti eppure non rassegnati. I loro carcerieri invece appaiono tronfi, spietati, come se posassero davanti alla macchina fotografica al termine di una battuta di caccia nella savana. Per l’occasione indossano perfino i guanti bianchi.
Oggi, al cospetto delle nostre meschine faccende elettorali, questo mondo perduto ci appare lontanissimo e quasi fiabesco. Eppure è passato poco più di un secolo dalla conquista della “frontiera”. Abbandonare tutto e salire su un carro diretti verso l’ignoto: chi di noi oggi farebbe una scelta di questo genere? Chi si arrischierebbe un viaggio di sola andata in una terra in cui mancava tutto e tutto era da inventare e costruire? Niente cibo pronto, nessun ospedale, né forze dell’ordine a cui chiedere protezione da “selvaggi” e briganti. Niente di niente. Solo una landa sconfinata da conquistare e dissodare a forza di braccia. Un’impresa al cui cospetto, l’emigrazione per lavoro degli anni ’60 è una bazzecola. Eppure, nonostante tutto questo, il fascino del selvaggio west resta immutabile. E ancor di più prende forza se lo confrontiamo con i nostri tempi, la nostra epoca priva di stupore e colma di disillusione e di routine angosciante. Oggi la nostra esistenza è scandita a tappe fisse, è un lento e scontato susseguirsi di avvenimenti per lo più insulsi e immutabili che ci portano dalla culla alla vecchiaia. Scuola, lavoro, ferie, vacanze estive, dibattiti televisivi. Un grigiore noioso e sconfortante. Quarant’anni di ufficio in attesa della pensione, quando va bene, stroncherebbero anche un rinoceronte. Ecco a cos’è ridotta la nostra vita. E dunque siamo sicuri veramente di non invidiare almeno un po’ quei pionieri su quel carro sgangherato diretto verso l’avventura? Christopher McCandless, il protagonista del film Into the wild scriveva “C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo. Il vero nucleo dello spirito vitale di una persona è la passione per l’avventura”. Perché infondo, in quest’assurdo mondo fatto di sicurezza e razionalismo, l’ignoto e il mistero, rappresentano per l’uomo ancora l’unico cibo capace di dare gusto all’esistenza.
wild-west-1861-1912: informazioni

martedì 26 febbraio 2013

Dopo undici anni, il sogno si avvera

Quel sabato era una bella giornata di sole, un anticipo improvviso di primavera dopo giorni e giorni di gelo e umidità. D’altra parte si sa, febbraio è pur sempre il mese più freddo oltreché più corto. Quel pomeriggio avevo preso la metropolitana ed ero sceso a Lampugnano. Fin da subito ero stato sommerso da una folla immensa di persone. In ordine sparso, si dirigevano tutti verso il Palavobis, il palazzetto dello sport adibito per l’occasione a teatro del decennale di Manipulite. Me l’ero presa comoda quella volta, senza fretta: “Chi vuoi che ci vada ad ascoltare quattro sognatori che sbraitano contro il sistema?”. E invece mi ero clamorosamente sbagliato. Quaranta mila persone erano accorse all’invito della rivista MicroMega, una valanga umana impressionante a fronte di dodici mila posti scarsi disponibili all’interno del palazzetto. Poco più di un mese prima, Francesco Saverio Borrelli, Procuratore Generale di Milano, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, aveva lanciato il suo proclama civico: “Ai guasti di un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”. E a tutti era apparso chiarissimo quale fosse il bersaglio di quell’invettiva. Quel pomeriggio dunque non c’era posto per tutti là dentro, migliaia e migliaia di persone neanche riuscivano a entrare nel perimetro del cancello esterno del palazzetto. Neanche il più ottimista tra gli ottimisti degli organizzatori dell’evento avrebbe potuto immaginare un successo di pubblico di quella portata. E così, mentre all’interno cominciavano a parlare gli oratori, all’esterno, sotto la vigorosa regia di Antonio Di Pietro - che effetto mi fece vedere il mio eroe in carne ed ossa… - , si cercava di allestire un palco improvvisato, sfruttando come ripiano soprelevato la pensilina traballante di un cancello d’accesso. A seguire poi giunsero anche gli altoparlanti, il megafono fu sostituito da un microfono, e a turno, gli oratori che avevano terminato il loro intervento all’interno, vennero chiamati da Di Pietro a salire su quel trabiccolo pericolante, per ripetere nuovamente ciò che avevano detto a beneficio degli spettatori esterni. Aveva un che di eroico quella scena, qualcosa a metà tra il comico e il sublime, tra l’ingenuo e il demagogico. E il pubblico s’inebriava nel partecipare a quell’improvvisazione istrionesca. Si arrampicò lassù per prima Sabina Guzzanti - esterrefatta e senza parole davanti a quella marea umana - , poi presero la parola Francesco Pancho Pardi, Furio Colombo, Roberto Zaccaria ed altri. Quando poi, con qualche difficoltà in più, salì sul palco il vecchio Giovanni Berlinguer, che a quell’epoca aveva 78 anni, si fece un gran silenzio. Quella figura attempata e malferma sulle ginocchia, issata lassù come un antico vessillo di lotta e libertà, gettò all’istante un incantesimo su tutti i presenti. Di fronte a quella scena portentosa, al cospetto di migliaia di persone prive di bandiere politiche e striscioni, e armate soltanto di profondo senso civico, il vecchio combattente - che pure di piazze ne aveva viste nella sua lunga vita - ebbe un lungo momento di commozione. Sotto il palco e tutto intorno molti si commossero di rimando. Ecco, quel 23 febbraio 2002 fu il mio primo approccio a quel genere di esperienza di piazza, alla partecipazione. Quand’ero al liceo avevo preso parte ad un paio di cortei contro la guerra in Iraq, ma ad essere onesti si trattava di un bieco stratagemma per saltare la verifica di fisica. Questa volta invece partecipavo spontaneamente e con entusiasmo, e provavo l’orgoglio di essere parte di un comunità in cui finalmente mi riconoscevo. L’avventura dei cosiddetti Girotondi, per la prima volta usciva dall’anonimato della cronaca locale e si prendeva la ribalta nazionale. L’onda di popolo, sorta spontaneamente intorno ai Tribunali della Repubblica, come manifestazione di solidarietà nei confronti dei magistrati impegnati nelle delicate inchieste contro la corruzione politica, per la prima volta obbligava la stampa a parlare di sé e riscuoteva meritatamente le prime pagine di tutti i quotidiani italiani e internazionali. Seguirono altre manifestazioni, alcune più numerose, altre meno, fino a giungere all’apoteosi della Piazza San Giovanni a Roma, il 14 settembre dello stesso anno. Scesi alla Stazione Termini e percorsi a piedi tutto viale Emanuele Filiberto. La città era piena di manifestanti di tutte le età, c’erano famiglie con passeggini, gruppi di ragazzi, adulti, anziani, persone distinte e giovani alternativi. Una vera festa di popolo, scevra da qualsiasi connotazione politica. Quando giunsi sulla piazza la scena fu memorabile: sembrava di essere al concerto del Primo Maggio. Provai ad avvicinarmi al palco, ma non c’era nessuna speranza di guadagnare terreno. Mi scelsi dunque un luogo che mi consentisse una visuale discreta e cominciai ad ascoltare gli interventi. La “Festa di protesta”, come venne chiamata dagli organizzatori, iniziò con l’introduzione di Nanni Moretti. Il regista, dopo il famoso “con questi dirigenti non vinceremo mai”, era diventato in quel periodo il faro per i delusi di sinistra e non solo. Seguirono gli interventi di don Luigi Ciotti dell’associazione “Libera”, Rita Borsellino, Gino Strada, Federico Orlando, Paolo Flores d’Arcais, Furio Colombo, Francesco Pardi, Daria Colombo, Vittorio Foa. E poi si esibirono anche artisti come Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia e Roberto Vecchioni. Fu una meravigliosa festa di piazza, una straordinaria occasione per dimostrare che il popolo italiano non era più disposto a mandar giù l’orrore che i politici abilmente cucinavano giorno per giorno per la Nazione. Eppure, a dispetto di cotanto exploit, quello fu il canto del cigno del movimento dei Girotondi. Da quel momento in poi, lentamente eppure inesorabilmente, l’entusiasmo impetuoso di quelle adunate oceaniche, cominciò a scemare. Senza purtroppo tradursi in una realtà concreta e tangibile. Tempo dopo, approfittando della presentazione di uno dei tanti libri di Marco Travaglio, chiesi al giornalista il suo parere sul perché tale movimento non era riuscito a strutturarsi in un partito politico. Mi rispose - vado a memoria - che per fare politica erano indispensabili persone del mestiere: assolutamente assenti in quel movimento. E così per anni, salvo qualche iniziativa di stampo pacifista o sindacale, le piazze rimasero pressoché vuote. Fino a che non giunse il V-Day di Beppe Grillo. Quell’otto settembre 2007, mi trovavo a Bologna, a casa di amici conosciuti il mese prima in Corsica. Seguivo il blog di Grillo già da qualche tempo e per nulla al mondo mi sarei perso quell’evento. Piazza Maggiore era piena all’inverosimile e dal palco l’ex-comico genovese inveiva contro la classe politica, artefice a suo dire, dello sfascio della Nazione. Per la prima volta sentivo parlare di argomenti nuovi, con parole nuove: c’erano le tematiche ambientaliste, le innovative politiche energetiche, i moderni sistemi di mobilità, i diversi e più democratici criteri di selezione della classe dirigente. Il tutto raccontato in maniera chiara e cristallina da personaggi straordinari come Maurizio Pallante, Massimo Fini, Walter Ganapini, Milena Gabanelli. E poi c’era lui, Grillo, un fuoco d’artificio, un vulcano carismatico in eruzione, capace di accendere gli animi della folla. Questo movimento, a differenza dei Girotondi aveva qualcosa di più da offrire, era più eclettico, più strutturato, squadernava una visione del mondo completamente diversa da tutto ciò che avevamo visto fino ad allora. E tutto ciò penetrava nei polmoni come aria frizzante, leggera, regalando sensazioni di ebbrezza. Nel momento clou della serata, all’apice dell’esaltazione, ricordo che trovai il coraggio di prendere per mano Giovanna. E lei mi guardò sorridendo. Durante quella magnifica giornata vennero raccolte le firme per la presentazione di una legge di iniziativa popolare riguardante i criteri di candidabilità ed eleggibilità dei parlamentari, i casi di revoca e decadenza dei medesimi e la modifica della legge elettorale. E anche qui fu un successo: 336.144 firme in poche ore. Ovviamente poi, di tutto ciò, il Parlamento non se ne curò minimamente. Nacquero poi i Meet Up, gruppi territoriali che si rifacevano alle idee del blog (frequentato tra l’altro da premi Nobel del calibro di Joseph Stiglitz e Paul Krugman). E a seguire prese vita il Movimento 5 Stelle, il soggetto politico che riassumeva tutte le istanze portate avanti da anni di discussioni e dibattiti. E come conseguenza la partecipazione alle prime elezioni amministrative locali: con un crescendo rossiniano. Ciò che segue è storia di oggi. Con le elezioni di domenica e lunedì, il Movimento 5 Stelle è diventato il primo partito d’Italia alla Camera con il 25,5 per cento di voti e 108 deputati eletti; mentre al Senato ha conquistato la bellezza di 54 seggi. Un successo di una portata epocale. Per anni tutte le forze politiche - dall’estrema destra all’estrema sinistra - hanno snobbato, ignorato e irriso selvaggiamente le iniziative di Grillo, le manifestazioni, i comizi, le proposte di legge e quant’altro. I leader politici dei maggior schieramenti, nella foga di smitizzare e demolire questo nuovo movimento, si sono lasciati andare a frasi che lette oggi, suscitano solo grandi risate di scherno: “Se Grillo vuole fare politica, fondi un partito e vediamo quanti voti prende” (Piero Fassino, 2009); “Grillo è un trombone, non conta nulla in questo paese” (Maurizio Gasparri, 2008); “Grillo si tenga i suoi boy scout incompetenti. Noi abbiamo i nostri sindaci guerrieri” (Roberto Maroni, giugno 2012); “Mi sono sottoposto al sacrificio di ascoltare su internet il comizio di Beppe Grillo: mi sembra un impasto tra il primo Bossi e il Gabibbo” (Massimo D’Alema, aprile 2012). Fino ad arrivare niente meno che al Presidente della Repubblica che a domanda “Cosa pensa del boom di Grillo alle comunali?”, rispose: “Di boom ricordo quello degli anni ’60. Di altri non ne vedo” (maggio, 2012). Ecco la lungimiranza dei nostri politici. E così, dati alla mano, in queste ore si contano i caduti sul campo: dalle ultime politiche del 2008 ad oggi, il Partito Democratico perde quasi 3,5 milioni di voti alla Camera e oltre 2,5 al Senato; il Popolo delle Libertà 6,2 milioni alla Camera e 5,5 al Senato; la Lega Nord 1,6 alla Camera e 1,3 al Senato. Altre formazioni storiche non hanno neanche raggiunto la soglia di sbarramento.
Cos’accadrà ora in questo clima di ingovernabilità pressoché assoluta? Staremo a vedere. L’incarico di formare il Governo sarà probabilmente affidato al candidato premier del Partito Democratico grazie alla maggioranza conseguita alla Camera. Da quel momento si apriranno due scenari: o l’alleanza con il vecchio, già vista e rivista in questi ultimi penosissimi vent’anni, o l’apertura al nuovo. La prima scelta segnerà la fine dei partiti della Seconda Repubblica; la seconda regalerà un futuro incerto, avventuroso, fatto di aspettative, speranze, nuovi ideali, nuovi modi di intendere l’esistenza, nuove frontiere. Mi auguro che il PD, se non altro per spirito di conservazione, decida per la seconda.
Dopo tutti i guai che avete combinato, lasciateci almeno un briciolo di speranza.

lunedì 25 febbraio 2013

Basta avances alle colleghe: si rischia la galera

Ci risiamo, eccoci di nuovo a commentare una pronuncia della Corte di Cassazione che farà sicuramente discutere. Con la sentenza numero 8761/2013 la Suprema Corte stabilisce che non è lecito approfittarsi di un (“presunto”) clima goliardico e scherzoso creatosi in un ambiente lavorativo per fare apprezzamenti volgari, o peggio ingiuriosi, a una collega. La faccenda si svolge in un ufficio postale di Massa e vede protagonisti due dipendenti, Roberto e Stefania. Il primo, durante una normale giornata lavorativa, dal suo reparto si reca nell’ufficio dove Stefania svolge le sue abituali incombenze, ed esclama “Ah, c’è anche la pornodiva sulla piazza”. Stefania sostiene che quella non era la prima volta che Roberto usava un frasario del genere con lei e che già diverse volte l’aveva rimproverato per questo. Tre colleghi presenti alla scena vengono chiamati a testimoniare sull’accaduto, e confermano sostanzialmente la ricostruzione dei fatti. Due di costoro tuttavia aggiungono che Stefania in precedenza ha sempre reagito a quelle frasi con un sorriso. Il terzo ammette addirittura di aver anch’egli fatto delle avances per scherzo a Stefania, ma che costei non si è mai adirata. Ma questa volta evidentemente la faccenda è diversa e dunque si finisce davanti al Giudice di Pace: condanna dell’imputato per ingiuria. In secondo grado l’imputato viene assolto in quanto “la condotta scherzosa, in un contesto di tolleranza che si era già consolidato sul luogo di lavoro” non costituisce reato. In Cassazione, davanti alla Quinta Sezione Penale, l’assoluzione viene annullata e gli atti rinviati al Tribunale per un nuovo esame. Nelle motivazioni vi si legge che anche se la donna aveva risposto con un sorriso alla condotta scherzosa di un collega, questo non autorizzava un altro uomo a ritenere che le sue battute fossero altrettanto tollerate e gradite. Da oggi in poi dunque, prestiamo molta, ma molta attenzione a tutto ciò che si dice in ufficio. Guai per esempio a dare per scontato che si possa scherzare su argomenti pruriginosi (neanche se dall’altra parte si spalanca il più luminoso dei sorrisi), e guai a pensare che ciò che è lecito ad un collega, sia lecito anche ad un altro. Niente affatto, la Cassazione lo dice esplicitamente: “in tema di reati contro l’onore appare sufficiente il dolo generico […] in quanto basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive […] , senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente”. In altri termini il contesto, il clima e l’atmosfera in cui queste espressioni vengono pronunciate non hanno alcuna rilevanza: basta che siano comunemente considerate offensive.
Ora, è di tutta evidenza che in astratto volgarità e turpiloquio siano atteggiamenti riprovevoli, scandalosi e di cattivo gusto. Ancor di più se rivolti a delle donne. Ma non possiamo neanche chiudere gli occhi e dimenticare in che mondo viviamo. Andiamo, sappiamo benissimo qual è l’atmosfera che si respira negli uffici pubblici e privati, quali sono gli scherzi, gli sfottò e le avances che dominano le relazioni tra colleghi. E sappiamo anche che le cosiddette “quote rosa” non sono sempre una congrega di suore carmelitane scalze, la cui castità viene messa di continuo a rischio da pelosi maschiacci assatanati. Quante volte si sentono esclamazioni tipo “ma che bbono”, “ma che bel di dietro”, “quanto me lo farei…” dalle pudiche labbra di alcune nostre colleghe? Quante volte, di fronte a manifestazioni licenziose e trasgressive di alcune donne (spesso puramente formali, occorre dirlo…), sono gli uomini, a parti invertite, ad arrossire di imbarazzo. Certo è pur raro che siano poi le donne a prendere l’iniziativa nell’approccio (anche se non così impossibile), ma da qui a pensare che siano una categoria inerme, alla mercé dell’universo maschile, direi che ce ne passa. Che poi, siamo onesti, dipende sempre da chi viene portata l’avances: una cosa è se il complimento proviene da un “figaccione”, altra se giunge da un “rospo”. Mentre per il primo ci saranno vampate di rossore e sorrisini ammalianti, per l’ultimo solo risposte piccate, sarcasmo e in alcuni casi anche qualche querela. È pur vero che una donna è libera di scegliere quali avances accettare e quali rifiutare, ma cerchiamo di mantenere un minimo di parità di diritti anche in questo campo: almeno ai blocchi di partenza vediamo di non imbrogliare. Il progresso dei nostri giorni ha consentito libertà un tempo impensabili: oggi non ci sono più ambienti divisi per genere, nelle saune si entra ignudi senza più pudore reciproco, sul luogo di lavoro uomini e donne passano intere giornate fianco a fianco. E ben sappiamo quanto possa essere noiosa una giornata di lavoro se non la si condisce con un po’ di sana complicità maschio-femmina. Stando agli ultimi dati del Centro Studi dell’Ami (Associazione avvocati matrimonialisti italiani) in Italia ci sarebbe un alto tasso di tradimenti sul luogo di lavoro. Le infedeltà coniugali sono la causa del 40 per cento dei casi di separazione e divorzio, e tra queste, ben il 60 per cento avviene a lavoro. D’altra parte, sostengono i matrimonialisti, chi lavora trascorre molto più tempo con il collega che con il coniuge. Ecco perché, ad esempio le indagini degli investigatori privati, assoldati per scoprire ipotetiche tresche coniugali, iniziano sempre dall’ambito professionale del pedinato. Da che mondo è mondo, l’eterno gioco della seduzione si è sempre basato su quell’equilibrio fragile e meraviglioso fatto di prudenti avances, moine, finti respingimenti e finti cedimenti, sguardi languidi, rossori improvvisi, angoscia, speranza, delusione. Il tutto finalizzato ad un’unica tormentosa domanda: avrò capito bene, o no? E nelle more della risposta nascevano film romantici, carichi di passioni e di notti insonni. Che se poi la risposta era negativa finiva tutto con una badilata di ridicolo sul capo. Oggi invece, ognuno di quei gesti, ognuna di quelle attenzioni, complimenti o frasi ardite, potrebbe per assurdo divenire oggetto di denuncia. E sì perché, basta che una donna (o anche un uomo, perché no), si senta offesa da un determinato comportamento perché si incorra nelle maglie della giustizia. Già nel lontano ’93 Giuliano Zincone scriveva sul Corriere della Sera: «Negli Stati Uniti tutto è più chiaro, i confini sono precisi e severi. Lì esiste anche una tabella che definisce, senza possibilità di equivoci, ciò che è “molestia sessuale” e ciò che non lo è. È molestia, per esempio, “osservare una signora dalla testa ai piedi e viceversa”, mentre è lecito “guardarla negli occhi con franchezza”. E vietato esclamare: “Ehi, che belle gambe!”, ma si può dire: “Oggi hai un bell’aspetto”». E ancora, sempre restando negli Usa, una legge impone in California, Massachusetts, Connecticut e Maine che ogni società con più di cinquanta dipendenti, organizzi un corso «antimolestie» di due ore ogni due anni, con frequenza obbligatoria. Deborah Rhode, docente di diritto all’Università di Stanford, sostiene ad esempio che «un dirigente può mettere in serio imbarazzo una dipendente anche solo fermandosi con eccessiva insistenza sulla porta della stanza di lei, continuando a osservarla senza un particolare motivo apparente. I tribunali sanzionano questo tipo di invasione della privacy. In alcuni casi ci sono stati richiami a impiegati che alzavano troppo la testa per spiare colleghe avvenenti sedute ignare alla loro scrivania». E poi c’è il capitolo dei complimenti: nessun problema se sono graditi, ma semaforo rosso appena viene segnalato fastidio. «La frase “come sei bella con questo vestito” può essere allo stesso tempo una semplice cordialità se detto en passant e sorridendo, oppure una simpatica forma di corteggiamento, oppure ancora un’intollerabile cafonata se pronunciata in modo viscido da un collega cui si è rifiutato un appuntamento la sera prima. Stesso discorso per le porte che vengono aperte, i regali, gli inviti, le occhiate, i commenti ad alta voce con altri colleghi. Se sono “unwelcome”, non apprezzati, meglio lasciar perdere subito». Che detta così sembra la cosa più semplice del mondo. Ma avete presente che genere di reazioni s’innescano in un essere umano quando il demone della passione lo travolge? Credete veramente che sia possibile ridurre il tutto ad un’arida tabella in cui questo è lecito, quest’altro no? Forse la realtà è che nella smania assurda di guadagnare uguaglianza e parità, il millenario rapporto di equilibrio tra uomo e donna si è inevitabilmente distorto, fatalmente mutato geneticamente, fino a creare una situazione ambigua e caotica, nella quale nessuno sa più qual è il suo dannato ruolo. L’ambiente di lavoro, per sua natura, è sempre stato un luogo cameratesco, goliardico, in cui tutto o quasi è lecito pur di arrivare a fine giornata: “un po’ per noia, un po’ per non morire”. E la donna oggi, volente o nolente, si trova in questo meccanismo, condivide questo ambiente con i colleghi maschi. È dunque il caso che si torni alle “sezioni separate”? O forse è richiesto alle donne di sopportare senza proferire verbo volgarità, turpiloquio o avances indesiderate? Niente di tutto ciò. Da sempre credo in un postulato: “Nessuno ha potere su di te se non glielo concedi”. Se non vogliamo essere oggetto di avances indesiderate o turpiloquio da caserma, forse l’unica soluzione è non scendere mai sul “campo di gioco”. Un sano e austero distacco, fatto di rapporti seri e cordiali, ma privi di confidenza e familiarità alcuna, farà di noi persone con le quali non sarà lecito concedersi licenze. Di alcun genere. Il che senza dubbio sarà un vantaggio sotto tanti aspetti. Forse ci divertiremo di meno, questo sì: ma infondo questo è il prezzo da pagare alla modernità.

venerdì 22 febbraio 2013

Cammino e natura come cura contro la modernità

«Buongiorno Pasqualino, come vi sentite».
«Meglio, meglio. Un poco debole».
«Di aspetto state bene. Ieri stavate pallido. Fatemi sentire il polso, … che è la prima cosa» – non lo sente – «Be’ io mo’ non me ne intendo, non lo trovo mai…».
«La lingua, guardatemi la lingua».
«Ah sì, la lingua la guardo bene io…! Sì, sì, state meglio. Mo’ dovete sentire a vostro fratello, vi dovete rinforzare, mangiate carne al sangue, vino rosso. Poi vi fate una bella passeggiata dalla parte di via Caracciolo: dopo l’influenza, una mezz’ora di aria di mare vi fa bene…».
Si tratta di un scena della commedia Natale in casa Cupiello, di Eduardo de Filippo. Pasquale è stato male, e dopo una settimana di febbre alta, finalmente sta meglio. Luca, il fratello maggiore, lieto di vederlo ristabilito gli consiglia di mangiare proteine, di bere del buon vino e di andare a fare una passeggiata sul lungo mare. Ottimo consiglio fraterno. D’altra parte si sa, camminare all’aria aperta fa bene, rilassa, consente di ammirare paesaggi affascinanti, lontano dall’inquinamento e dallo stress cittadino. Ma oltre a tutto ciò oggi sappiamo che camminare immersi nella natura, senza avere per le mani né uno smartphone né un tablet, aumenta anche le capacità di pensiero creativo. A rivelarlo è uno studio associato delle Università dello Utah e del Kansas. Le persone che hanno partecipato a questo esperimento hanno trascorso alcuni giorni sulle montagne degli Stati del Nord, senza alcun apparecchio elettronico. Lo scopo era quello di fare una full immersion nello stato di natura. Una volta tornati, queste persone sono state sottoposte nuovamente al test effettuato prima di partire: il risultato è che la capacità creatività e di risoluzione di problemi e quesiti era migliorata del 50 per cento. Secondo i ricercatori camminare a contatto con la natura ha effetti benefici sulla corteccia cerebrale, e a goderne maggiormente di questa attività è proprio la creatività. Questa ricerca, inevitabilmente ci porta a pensare alla filosofia classica. Nell’antichità i grandi maestri greci insegnavano nelle piazze, nei giardini, si concedevano lunghe passeggiate dialogando e confrontandosi con gli allievi. Socrate ad esempio camminava scalzo per le strade di Atene, e ogni occasione era buona per rivolgere domande terrificanti agli uomini più influenti della città. Con rispetto parlando e al di là di tutto l’alone romanzesco che lo avvolge da millenni, Socrate era un tremendo rompicoglioni: non per nulla, dai e ridai, gli hanno fatto tracannare la cicuta. Ma egli non era il solo a passeggiare insegnando. Pitagora al mattino faceva insieme ai suoi discepoli delle lunghe passeggiate in luoghi isolati, dove regnavano quiete e tranquillità. La tranquillità, sosteneva, era propedeutica e confacente all’innalzamento dello spirito. Aristotele poi usava passeggiare con gli allievi lungo i viali che circondavano la scuola. Scuola chiamata poi “peripatetica” (περίπατοι, “colonnati”) a causa appunto di questa abitudine di camminare nel giardino e lungo i colonnati del ginnasio di Atene. Che tempi era quelli, quanta saggezza in questi uomini. Per avere un’idea dell’abisso che ci separa da costoro, basta pensare al fatto che per noi oggi, “peripatetica” equivale a meretrice. E per continuare sul terreno filosofico anche Ipazia, la straordinaria inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio, amava passeggiare per le strade. No, che avete capito: niente copertoni bruciati. La sua era una missione divulgativa di ben altra natura. Ma in generale tutti gli studiosi del passato, a differenza di oggi, erano immersi nel cammino e nella natura. Racconta Platone nel Teeteto, che un bel giorno Talete, croce e delizia degli studenti di geometria di tutte le epoche, mentre passeggiava intento a osservare le stelle e avviluppato nei suoi pensieri, cadde in un pozzo e cominciò a urlare come un suino al mattatoio. Accorse una serva tracia e vedendolo in quella miseranda situazione cominciò a turlupinarlo dicendogli che egli si preoccupava di conoscere le cose del cielo e non si avvedeva di ciò che gli stava sotto ai piedi. Pare che il grande matematico abbia risposto con una sonora bestemmia indirizzata a Padre Zeus. Passeggiare meditando tuttavia non era un’attività gradita ai soli filosofi greci. Anche Emmanuel Kant, il padre dell’Idealismo tedesco, sembra che fosse appassionato di passeggiate. Pare che a Konigsberg le sue escursioni fossero talmente regolari, che i suoi concittadini le usassero per controllare la precisione dei loro orologi. E chissà quanti pensieri avrà maturato questo grande filosofo durante quelle camminate, quanti concetti si saranno materializzati sui fogli d’appunti grazie a quelle divagazioni, grazie a quelle lunghe passeggiate solitarie. Gli studiosi sostengono che la creatività va a deprimersi con l’utilizzo degli odierni dispositivi tecnologici. Può darsi, ma come abbiamo visto, da che mondo è mondo, il cammino e l’immersione nella natura, nei panorami, o anche soltanto lungo strade e giardini, aiuta la meditazione, la riflessione. Anche i monaci di clausura meditano camminando lungo il perimetro dei chiostri dei monasteri. Ci dev’essere qualcosa di più dunque: non è solo una questione di apparecchiature elettriche che deprimono la creatività. Camminare da soli, probabilmente produce l’effetto benefico di accende la mente, permette di razionalizzare il pensiero, di definire le idee. Perché essere soli con noi stessi ci costringe a pensare. Ma ciò può avvenire, per esempio, anche andando in bicicletta: a me capita tante volte di uscire con un problema nella testa e di tornare con una soluzione. Anche il contadino con il suo bell’aratro, per secoli ha avuto fama di possedere “scarpe grosse e cervello fino”. Dov’è dunque la verità? Probabilmente il punto è sempre lo stesso: oggi viviamo in una società chiassosa, confusionaria, fatta di rumori, schiamazzi, urla. Com’è possibile concentrarsi in un ambiente come questo? Come si fa a riflettere sui grandi concetti della vita in questo immenso, assordante bailamme? E più banalmente, come si fa a sviluppare creatività o capacità di risolvere problemi e questioni, in questo frastuono continuo, in questo perpetuo schiamazzo che fa da sottofondo alle nostre esistenze? Forse non è indispensabile andare per i monti per riconquistare un po’ di creatività: proviamo magari ad abbassare il volume e ad ascoltare di più il silenzio. È probabile che abbia tante cose da dirci.

giovedì 21 febbraio 2013

Un’arma in più contro il vicino rompiballe

Un paio di giorni fa è comparsa sui giornali una notizia piuttosto originale, vale a dire una sentenza di condanna per “stalking condominiale” emessa nel padovano nei confronti di un uomo di 43 anni. Il provvedimento del giudice, giunto alla fine di un lungo iter processuale - in cui il reo ha collezionato ben otto denunce per la stessa tipologia di reato - , ha stabilito che l’uomo dovrà abbandonare immediatamente l’appartamento in cui vive con la fidanzata, e non potrà più avvicinarsi allo stabile se non a distanza di minimo cinquecento metri. Si, ma qual è la colpa che si imputa a questo stalker? L’articolo 612 bis del Codice Penale, richiamato dalla sentenza e introdotto con la legge del 2009, fa riferimento ai cosiddetti “atti persecutori”. Tale fattispecie di reato, come si ricorderà, venne introdotta nell’ordinamento come tutela contro il fenomeno sempre crescente di violenza fisica e psicologica sulle donne angariate dagli ex partner. Ora però, con questa interpretazione giurisprudenziale, tale tutela viene estesa per analogia anche a tutte quelle situazioni in cui c’è una perdurante attività di molestia, che procura alterazioni dello stile di vita o stati di ansia. Nello specifico le molestie persecutorie messe in atto dal reo consistevano in performance amorose particolarmente focose e rumorose – nel cuore della notte ovviamente – , associate a musica a tutto volume e oggetti scagliati contro le pareti. E per chi protestava, minacce e insulti da trivio. I vicini, stanchi di sopportare tutte queste angherie, si sono rivolti alla giustizia, e finalmente hanno ottenuto l’allontanamento coatto del “simpaticone”. Ogni anno, stando agli ultimi dati forniti dall’Anaci, l’associazione nazionale amministratori condominiali e immobiliari, ben due milioni di italiani sono coinvolti in furibonde liti condominiali. Una cifra record che ci da la dimensione del grado di litigiosità del nostro pacifico popolo. Liti condominiali e sinistri stradali: il core business degli studi legali d’Italia. Quando andavo all’Università, il mio professore di procedura civile spesso ci parlava delle cause tra condomini. Usava sempre parole sarcastiche per definire gli atteggiamenti delle parti in lite, quasi uno sberleffo verso individui che, avendo perso quello che era il reale oggetto del contendere, si abbeveravano con piacere alla fonte della rabbia e della vendetta fine a se stessa. Per il puro gusto dello sfogo violento. Tant’è vero che, diceva sempre il professore, quando si arrivava a sentenza, nessuna delle parti manifestava gioia o entusiasmo: nemmeno la parte vincitrice. “Eh ora che si fa? – pare che fosse la domanda più ricorrente rivolta agli avvocati – Come procediamo da domani?”. “Come che si fa? Abbiamo vinto. Finisce qui!”. “No…, davvero? Quanto mi dispiace…”. Sono passati alcuni anni da quelle lezioni, ma non credo la faccenda sia mutata di molto. Anzi, probabilmente si è ulteriormente aggravata se diamo per buoni i dati dell’Osservatorio nazionale sullo stalking, secondo i quali, soltanto a Roma quello condominiale rappresenta il 27% dei casi di violenza. L’Anammi, l’associazione nazional-europea degli amministratori di immobili, ha provato a stilare una lista di comportamenti che maggiormente inducono alla lite condominiale: al primo posto ci sono i rumori e gli odori provenienti dagli altri appartamenti, poi l’invasione delle aree comuni, l’innaffiatura di piante sul balcone, la presenza degli animali domestici, il bucato in esposizione, mozziconi o briciole gettati dalla finestra. Che poi, diciamolo, sono i dispettucci più utilizzati dai rancorosi condomini per infliggere sofferenza al vicino antipatico. D’altra parte la convivenza gomito a gomito non è per nulla facile, bisogna pur ammetterlo, e il concetto di “normale tollerabilità” di cui parla il Codice Civile a volte è pura utopia. Oggi in Italia otto persone su dieci vivono in un condominio, e stante la difficile crisi economica che ci troviamo a vivere, le tensioni sociali e personali rischiano di esplodere in maniera sempre più virulenta. Prima di trasferirmi a Crema, ho vissuto per molti anni in un condominio di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. Si trattava di uno stabile piuttosto signorile, ma non si faceva mancare nulla del campionario classico di cui stiamo parlando: arabeschi sulle carrozzerie delle automobili, soppressione fisica di animali da compagnia, stratagemmi per far suonare i citofoni nel cuore della notte (scotch o chewingum opportunamente posizionati sulla pulsantiera), mozziconi di sigaretta lanciati con eleganza da un balcone all’altro, spazi comuni occupati impunemente e altre amenità simili. Certo la vita di condominio non è semplice, occorre un grande spirito di adattamento e sacrificio. Una notte ricordo che un inquilino del settimo piano, gonfio di Barbera all’inverosimile, sbagliò clamorosamente a pigiare il piano giusto sull’ascensore, e cominciò a suonare il campanello pensando di essere di fronte alla sua porta di casa. Mia madre era incinta del secondo figlio e mio padre a lavoro. Spaventata a morte si rifiutò ovviamente di aprire, e questi cominciò a inveire e picchiare contro la porta. Per fortuna il nostro dirimpettaio, esasperato da quel chiasso, uscì sul pianerottolo e con poche parole aggraziate (“Vattene a casa tua, ubriacone… prima che ti prenda a calci”) risolse la situazione. Ma questo in fin dei conti è un episodio senza dolo, scusabile tutto sommato. A chi non è mai capitato di tornare a casa un po’ alticcio e di rischiare la figuraccia. Ben altri sono i comportamenti che fanno perdere il lume della ragione. Nell’appartamento sopra al nostro, per esempio, viveva una ragazzina che all’epoca frequentava le scuole medie. Ebbene costei, tutti i santi pomeriggi accendeva lo stereo e lo mandava a tutto volume. C’era da impazzire, anche perché nella mia famiglia c’è da sempre l'usanza di concedersi il riposino dopopranzo. E quella fottuta musica non permetteva di chiudere occhio. E così prendemmo l’abitudine di staccarle il contatore della corrente: me ne occupavo io personalmente con gran piacere. E la peste, sola in casa a quell’ora, desisteva dal riattaccare la corrente. Forse per paura di aprire la porta. Certo ne sarà andata a male di roba nel frigorifero, soprattutto d’estate: danni collaterali, direbbero gli americani.
E poi c’erano le terrificanti riunioni condominiali. Ricordo lo sguardo di mio padre quando la sera doveva recarsi a questi tragici appuntamenti: aveva l’espressione di Luigi XVI un attimo prima di mettere la testa sotto la ghigliottina. D’altra parte sapeva perfettamente di andare incontro a discussioni mortifere: non per nulla circa i due terzi dei presenti si addormentavano già alla lettura del verbale di apertura. Tra l’altro spesso questi incontri si trasformavano improvvisamente in accesi match di box: ecco perché il nostro vicino di casa si portava sempre appresso un ombrello con manico di robusta radica anche nella stagione della grande siccità. Data la tensione orrenda causata da quella costrizione insopportabile, per un nonnulla poteva scoppiare la rissa. Una volta due tizi arrivarono alle mani in un tempo record: due minuti e quindici secondi dall’apertura della riunione. Per futili motivi ovviamente. Nell’ampio salone, al termine di un feroce battibecco da pettegole, risuonò improvviso un rotondo rumore di manrovescio, seguito da un silenzio irreale. Poi tutto d’un tratto si udì una vocetta da capretta brianzola uscire dalle labbra tumefatte dell’aggredito: “Se ho sbagliato a parlare… allora picchiami”. La sala attonita, non credette alle proprie orecchie.
Ma anche quando andavo dai miei nonni l’estate c’erano problemi di convivenza tra vicini. Il tizio del piano di sotto per esempio, non gradiva che mio nonno innaffiasse le piante dato che l’acqua scorrendo finiva sul suo balcone. E se mio nonno diceva «Ma scusami tanto, quando piove non si bagna lo stesso il tuo balcone?», questi rispondeva arrogante «L’acqua di Cristo va bene, la tua no». E così il pover’uomo era costretto a innaffiare nelle ore più tarde della notte, sperando che il rognoso stesse già dormendo. E poi c’era uno zio che era un virtuoso del lancio del mozzicone di sigaretta: egli posizionava la cicca tra medio e pollice, rincagnava leggermente il capo nelle spalle, e con uno scatto di molla lo faceva finire nel giardino della casa del dirimpettaio. E immancabilmente diceva: «Questo al Capitano...». Il termine "Capitano" ovviamente era uno sberleffo, essendo che questi indossava sempre uno stupido cappello da marinaio per coprire la calvizie.
Come si vede si tratta di piccoli sgarbi quotidiani, gesti di ordinaria piccolezza umana: nulla di particolarmente cruento, s’intende, fatto salvo che alla lunga questa determinazione nel provocare un danno all’altro, questa premeditazione rancorosa, questa ostinazione solipsistica, innesca inevitabilmente una terrificante spirale negativa del conflitto. Che, nei casi peggiori, arriva alle estreme conseguenze. Viviamo un’epoca buia di rabbia, violenza e scontri? Senza dubbio. Abitare in palazzoni di nove-dieci piani, con centinaia di persone stipate una affianco all’altra, come tante termiti nel termitaio, può essere terreno fertile per i conflitti? Assai probabile. Che fare dunque? Date le circostanze e considerato che ormai viviamo in un contesto fortemente urbanizzato, non ci resta che sopportare. Fino a che è possibile sopportare, s’intende. Se poi vi dovesse capitare la sventura di trovarvi come vicini un branco di scimmie urlatrici, non abbiate timore di denunciarli per “atti persecutori”: da oggi la legge è dalla vostra parte. In alternativa, e per i più pacifici, prendete su armi e bagagli, e partite senza voltarvi alla volta della steppa mongola. Da quelle parti per incrociare lo sguardo col vicino occorre il telescopio.

mercoledì 20 febbraio 2013

Aveva ragione Bracardi: l’uomo è una bestia

Da molti anni ormai anche in Italia sono arrivate fascinose discipline psico-motorie orientaleggianti tipo yoga, kendo, wushu, aikido. Le prime volte che si vedevano praticanti di tai chi nei parchi cittadini si restava assai sconcertati, come se si assistesse all’esibizione circense di un raro animale in via d’estinzione. Quei movimenti lenti, quelle posture strane, associate a dei volti serissimi e inespressivi, lasciavano assolutamente interdetti i curiosi. Qualcuno a dire il vero, non avendo alcuna cognizione di causa, era anche tentato di chiamare d’urgenza la neuro-deliri. Ora invece, che la moda è ampiamente diffusa, nessuno fa più quasi caso a costoro. Certo c’è ancora qualcuno che osserva con ammirazione questo spettacolo, soprattutto tra le categorie più stressate e paranoiche, quelle che tanto anelerebbero riacquisire un minimo di equilibrio mentale nel marasma che attanaglia le nostre vite agitate. E sì perché, osservando queste persone alle prese con i loro esercizi, ciò che si percepisce subito dai loro sguardi è un gran senso di rilassatezza, una pace interiore assoluta, una calma totale e quasi trascendentale. Eppure non è sempre stato così. All’inizio, come giustamente aveva già rilevato Terzani in Un altro giro di giostra, queste discipline erano state recepite in maniera forse distorta dal mondo occidentale. Mentre nei paesi dove queste filosofie erano sorte, i praticanti apparivano effettivamente in uno stato d’estasi, da noi, si potevano osservare dei volti serissimi, corrucciati, truci e per nulla rilassati. D’altra parte non è che si può acquisire una cultura millenaria in pochi giorni. Oggi per fortuna, pare che la faccenda abbia preso finalmente la piega giusta. Quante volte si sente dire: “Ah guarda, quel tizio non riuscirebbe a sconvolgerlo neanche lo tsunami di Giava. Lui si che è assolutamente zen”. Così dicendo si sottolinea lo stato di assoluta atarassia raggiunta da questi individui, tale appunto che qualunque cosa possa accadere loro, dai problemi sul lavoro, a quelli sentimentali, dalla rovina economica al cataclisma meteoritico (o anche meteorico e aerofageo) nulla intaccherebbe la loro tranquillità interiore. Perché in effetti questi fortunati, attraverso la pratica meditativa e la rinuncia alle distorsioni dell’ego (così dicono loro…), hanno raggiunto l’armonia perfetta, l’esperienza completa e profonda della vita, sono cioè diventati padroni assoluti della loro mente e dei loro sentimenti, unici detentori delle chiavi emozionale. Provate ad insultare uno di questi zen, schiacciategli un piede con molta violenza: tutto ciò che otterrete sarà uno sguardo serafico, imperturbabile, come colui che posa i suoi occhi su un malato di mente. Ciò non vuol dire che costoro siano dei masochisti, tutt’altro. Anzi, se davvero vi siete malauguratamente provati a schiacciare un piede ad un cultore dello Yin e dello Yang, cercate di scappare il più rapidamente possibile: avete presente il calcio rotante di Chuck Norris? Ecco, ciò che vi potrebbe capitare è infinitamente peggio. Ma sempre senza odio. Ad ogni modo ciò che si invidia di più a queste persone è proprio la calma, la tranquillità, la mancanza assoluta di aggressività (salvo, come abbiamo visto per autodifesa): tutto ciò viene identificato con il migliore dei modi possibili di vivere, vale a dire nessuna preoccupazione, nessuna angoscia, nessun rancore, solo una vita fatta di serenità, armonia e consapevolezza. Questo fino a ieri. Ora però d’oltre oceano giungono nuove ricerche scientifiche che tenderebbero a mettere in discussione tutto ciò: l’autocontrollo e la meditazione non sarebbero affatto la via giusta per raggiungere né una buona vita, né una salute di ferro. Tanto per cominciare pare che una sana arrabbiatura, con urla ed esplosioni di violenza, sia assai utile alla pressione sanguigna e consenta un minor accumulo di cortisolo, il pericolosissimo ormone dello stress, causa ogni anni di spaventevoli attacchi apoplettici fulminanti. A sostenere questa tesi sono i ricercatori della Carnegie Mellon University di Pittsburg (Usa), secondo i quali è infinitamente meglio dare sfogo alla propria rabbia, che soffocare l’aggressività, con il rischio concreto di scoppiare. E per quanto riguarda il turpiloquio? Difficilmente sentirete uno zen pronunciare parolacce o frasi poco eleganti, nemmeno nella più tragica delle situazioni. Eppure, stando a ciò che sostengono gli studiosi della Keele University, un linguaggio scurrile aiuterebbe a sopportare meglio il dolore. Vi è mai capitato di darvi una martellata sul pollice mentre piantate un picchetto da campeggio? Brutta faccenda, vero? Ecco, se per assurdo vi tappaste la bocca con lo scotch, o vi imponeste volontariamente di non emettere un solo fonema dalla bocca (tipo Fantozzi nel camping dei tedeschi), probabilmente sentireste un dolore infinitamente più atroce, rispetto allo sfogo della bestemmia libera. Un’altra cosa che uno zen non farebbe mai è il riposino pomeridiano. La prima regola è la disciplina, ovviamente: più si indulge in cattive abitudini, più ci si concede momenti di mollezza e pigrizia, più si corre il rischio di perdere il controllo della mente e del corpo. Eppure, direttamente dal Canada (University of British Columbia), giunge notizia che un pisolino dopo pranzo moltiplica le chance di arrivare felicemente alla vecchiaia. Dunque stendersi sul divano dopo un’abbondante mangiata, innaffiata da ottimo vino rosso e amaro della casa, non solo sarebbe un piacere, ma addirittura un toccasana per la salute. Ecco perché in alcune aziende avveniristiche sono state allestite stanzette per il riposino pomeridiano dei dipendenti. Questo sì che è vero umanesimo post-industriale.
E veniamo alla musica: avete mai visto un tipo zen che ascolta musica ad alto volume? Ma andiamo, al massimo qualche aggraziata nota di biwa e taiko, nell’incantata atmosfera del giardino dei fior di loto. Secondo una ricercata della Manchester University alzare al massimo il volume dello stereo o sottoporsi a estenuanti maratone musicali farebbe bene alla mente. La stimolazione dell’orecchio interno, provocata dalla musica ad alto volume, darebbe piacere al cervello e contribuirebbe a farci sentire bene. Unica avvertenza, usate delle cuffie, sennò al tipo zen saltano i nervi e viene giù a darvi un sacco di legnate.
E per concludere la passione per il gioco: cosa volete che possa importare del Bingo o della Lotteria, ad un soggetto che ha raggiunto la pace dei sensi? Nulla si direbbe. Eppure, al di là della possibilità di intascare qualche bella vincita (ipotesi improbabile, a dire il vero), dalle ultime ricerche condotte alla Yale University (Usa) sembrerebbe che coloro che si concedono di tanto in tanto qualche scommessina, siano più sani e felici dei coetanei non giocatori. E il motivo risiederebbe nel fatto che il gioco favorisce la socializzazione e la stimolazione cerebrale. A patto che non si ricada nel solipsismo del video-poker, naturalmente. Siamo di fronte all’ennesima dissacrazione: comportamenti apparentemente deplorevoli, contrari alla logica, al bon gusto, e alla decenza, sarebbero dunque alla base del buon vivere. Ma siamo per caso impazziti? Forse no. Da che l’uomo occidentale ha smesso di considerare la guerra una costante della sua esistenza, ci siamo illusi di poter imbrigliare l’aggressività, di poterla dichiarare reietta e fuori moda. Oggi le manifestazioni violente sono considerate fattispecie da manicomio psichiatrico, l’odio è bandito, il rancore vituperato. Impulsi e istinti naturali sono faccende che riguardano solo gli animali. A parole, salvo poi stupirci degli efferati episodi di cronaca nera. A questo punto sarebbe meglio smetterla di considerarci angioletti, cui ogni tanto salta il ghiribizzo della follia, e rassegnarci all'idea che la violenza ce l'abbiamo ben radicata nel profondo di noi stessi. Siamo parte del mondo animale, gli apparteniamo al pari di qualsiasi altra bestia del creato, ci piaccia o no. E l’aggressività è una delle componenti della vitalità, esattamente come ogni altra pulsione. Togliete l’una e avrete depresso anche l’altra. Occorre che ce ne rendiamo conto una volta per tutte. E non c’è rimedio zen che tenga.

martedì 19 febbraio 2013

Rimettete a posto il lavatoio

Domenica scorsa, approfittando della bella giornata di sole, ho fatto un giro in bicicletta. Certo l’aria era ancora fredda e i postumi dell’influenza non del tutto smaltiti, ma quando il richiamo della strada si fa sentire, non c’è verso di resistergli. E così mi sono bardato di tutto punto, ho messo su tutto ciò che era possibile indossare senza perdere ovviamente in eleganza, e mi sono avviato lungo un percorso breve, ma paesaggisticamente assai remunerativo, come usano dire le guide turistiche dei nostri giorni. D’altra parte il bello di vivere in una città di provincia è proprio questo, vale a dire basta allontanarsi di qualche chilometro dal centro e subito ci si immerge nella bellezza della natura. L’alto cremasco poi, la zona in cui vivo, è caratterizzato da enormi distese pianeggianti di campagna - quasi esclusivamente coltivate a mais - , abbondanti corsi d’acqua (fiumi, navigli, rogge e fontanili) lungo gli argini dei quali stanno proliferando magnifiche piste ciclabili, e paesini graziosi - a volte poco più che dei borghi - immersi nella quiete del fuori dal tempo. Quando esco in bicicletta durante la bella stagione cerco di fare sempre dei percorsi circolari, degli ampi giri a stella lungo le strade basse di campagna, quelle snobbate dal traffico automobilistico. A volte, quando “sento la gamba”, riesco a percorrere anche novanta o cento chilometri nell’arco di un pomeriggio senza quasi incrociare una macchina. L’altro giorno però, dato che ero fermo da alcuni mesi, non ho voluto esagerare e così ho pensato bene di fare non più di una trentina di chilometri. Mi sono bastate poche pedalate per capire di essere completamente fuori forma: fiatone tipo mantice, tachicardia maligna, vista annebbiata. Ho scalato subito di marcia e, piano piano, ho cercato di riguadagnare un minimo di contegno ciclistico. Col passare dei minuti l’organismo ha cominciato a girare meglio, la respirazione si è regolarizzata e anche il cuore ha smesso di picchiare furiosamente. E più passava il tempo, più si faceva largo dentro di me quella gioia antica di andare in bilico sulle due ruote, di mordere l’aria che sa di fresco, di correre libero come un uccello del cielo. E come ogni volta che ricomincio a pedalare dopo un lungo periodo di stop, mi sono tornate in mente le parole di Pantani, pronunciate al microfono del giornalista che raccolse le sue prime dichiarazioni, dopo l’incidente stradale che l’aveva fermato per mesi: “Avevo dimenticato la felicità che si prova andando in bicicletta”. Ed in effetti la bicicletta non è solo un mezzo di trasporto, è molto di più. È una macchina del tempo che ti riporta a quando eri bambino, a quando per la prima volta assaggiavi l’ebbrezza della velocità, il gusto della temerarietà, il sapore dei nuovi orizzonti, della libertà di movimento nel tempo e nello spazio. E dunque dell’emancipazione dalla limitatissima età infantile che relegava in luoghi finiti. E così l’altra mattina ho iniziato a percorrere un tragitto non troppo lungo, una strada affrontata decine di volte, che si snoda lungo una serie di paesini uniti tra loro da viottoli secondari di campagna. Mi piaceva l’idea di ripassare da un piccolo borgo visto l’ultima volta in autunno. Quella volta la mia attenzione era stata rapita da alcuni operai intenti alla sistemazione di una piazzetta. In quel piccolo angolo, di quel minuscolo agglomerato, c’è un antico lavatoio con tanto di pensilina. Uno scorcio incantevole, un reperto del passato giunto miracolosamente fino ai nostri giorni. Anche a Milano ce n’è ancora qualcuno, nella zona dei navigli (meraviglioso il “vicolo dei lavandai” presso la chiesa di San Cristoforo). E così mi ero fermato e, mettendo le mani dietro la schiena come da prassi, avevo cominciato a guardare gli operai a lavoro. C’erano naturalmente un nugolo di anziani pensionati ad assistere tutt’intorno e qualcuno dava anche consigli non richiesti su come metter giù la putrella. Gli operai chiaramente facevano finta di niente e non davano un minimo di soddisfazione. Era bella quella scena: buttata giù la catapecchia che ingombrava la visuale, ora finalmente la piazzetta emergeva in tutta la sua bellezza, mettendo al centro dell’attenzione quel piccolo lavatoio, dove generazioni e generazioni di donne avevano faticato lavando i panni nelle acque della roggia. Non ci si fa mai caso, ma ci fu un tempo in cui si lavava tutto a mano. E non è poi un’epoca così remota come si possa immaginare. Le prime lavatrici arrivarono in Italia solo col boom economico, vale a dire cinquant’anni fa. Prima di allora tutto avveniva a forza di braccia. Mi raccontava mio padre che un giorno la madre, non sentendosi molto bene, chiese a lui di fare il bucato. Egli in quel periodo era nel pieno della sua vigoria giovanile e quel lavoretto, che tanto pesava sulle spalle della madre, sarebbe stato per lui una bazzecola. Tanto più che ogni giorno egli si dedicava al body-building. E così prese la gerla dei panni e si mise all’opera: sbatteva, strofinava, strizzava, e poi risciacquava e ricominciava. Una furia ceca. Quando alla fine del cimento andò dalla madre per mostrarle orgoglioso l’opera compiuta, questa si accorse con orrore che sulle lenzuola erano comparsi degli strappi osceni. Tanta e tale era stata la foga del giovanotto, che il bucato era ridotto quasi a brandelli. Certo l’arrivo della lavatrice risolse molti problemi alle massaie. I miei nonni materni acquistarono la prima lavatrice sul finire degli anni ’60. Era un oggetto così prezioso che mia nonna prima di metterci dentro i panni, li lavava a mano: perché sennò poi si sporcava il cestello. Fatto il carico, si sedevano entrambi davanti all’oblò e guardavano, come se si trattasse di un film alla televisione. E se poi la macchina smetteva di girare, magari per caricare acqua, loro cominciavano ad entrare in angoscia: «Forse si è rotta… – diceva lei – Tu che dici?». «E che ne so io – replicava lui agitato – , te l’avevo pur detto di lasciar perdere queste diavolerie». Al che lei si alzava dalla seggiola e andava a dare un pugno non troppo forte sul ripiano superiore della lavatrice. E lui, guardandola male, si apprestava a redarguirla. Salvo che poi il cestello miracolosamente ricominciava a girare, cosicché entrambi si rasserenavano per ulteriori cinque minuti di risciacquo delicato. Ma non divaghiamo troppo e torniamo al nostro lavatoio. Domenica dunque ero proprio curioso di vedere com’era venuta la mia piazzetta: in tutti questi mesi sicuramente i lavori erano stati ultimati e io avrei finalmente ammirato quello scorcio meraviglioso. Quando sono giunto al borgo, ho girato come sempre l’angolo e mi sono immesso sulla via principale, ma non ne ho riconosciuto la prospettiva. Mi sono fermato e ho voltato il capo in ogni dove per cercare di capire se mi trovassi effettivamente dove pensavo di essere. Non c’erano dubbi. Mi sono inoltrato più avanti e là dove prima c’era il mio lavatoio, mi sono accorto con orrore che ora c’era una palazzina di quattro o cinque piani, color rosa salmone. Oscenamente ingombrante e fuori luogo in quel contesto. Ho cacciato un urlo soffocato di sdegno. Sono sceso dalla bicicletta e mi sono avvicinato alla ricerca di una qualche traccia di quell’antichità perduta. Niente di niente: tutto spianato, ricoperto, la roggia tombinata e affidata per sempre alla memoria degli anziani. Di quella piccola, poetica porticina del tempo, non c’era rimasto più nulla. Chiusa definitivamente, come se non fosse mai esistita. Così come tutte quelle donne che per secoli si inginocchiarono su quelle sponde scoscese per lavare i panni di una vita. Mi è salita improvvisa una grande rabbia. Chi può aver autorizzato tale scempio? Chi è stato quel bifolco che ha progettato questo delitto? Possibile che a nessuno sia venuto in mente che abbattendo a colpi di piccone quel piccolo simbolo della nostra storia, non s'è fatto altro che cancellare una parte del nostro passato? Possibile che non si riesca a capire che senza ricordi, senza radici non siamo che granelli di sabbia esposti al vento? Sono stufo, stufo marcio di sentirmi dire che l’utile e il conveniente viene sempre prima di ogni altra cosa. Non è vero, è una fesseria. Tirate giù quell’obbrobrio e rimettete a posto il lavatoio. Ora, subito.

lunedì 18 febbraio 2013

Ma senza cantanti non verrebbe meglio?

Allora lo ammetto, mi dichiaro colpevole e mi appello alla clemenza della corte: sono tra coloro che hanno visto il Festival di Sanremo. Certo non in versione integrale, ovviamente, quello credo sia toccato solo a qualche sfortunato tapino, malaugurata-mente capitato sotto le grinfie della giustizia creativa: ora vanno tanto di moda le pene alternative al carcere. Erano anni che non guardavo questo evento in tv, diciamo dai tempi di Claudio Villa e dei Duran Duran (chi non ricorda la memorabile Wild Boys?), e tutto sommato non ne sentivo la mancanza. E non per quello snobbismo razzista tipico di coloro che, per partito preso rifiutano a prescindere tutto ciò che è “popolare”, o meglio “nazional-popolare”, ma perché mi ha sempre dato l’idea di una manifestazione improntata alla mediocrità, riservata ad artisti di rincalzo, di seconda o terza linea. Non per niente quando si parla del Festival, si usa sempre l’espressio-ne “canzonette”. Perché mai, mi chiedevo con un pizzico di rabbia, dobbiamo sorbirci ogni anno i vari Al Bano, Bobby Solo, Fiordaliso e “compagnia cantante”, e non, per esempio De Andrè, Guccini o Paolo Conte. La risposta è presto detta: perché questi ultimi, a differenza degli altri, non hanno bisogno di Sanremo. E dunque è inutile per loro sottoporsi al giudizio della platea, controproducente cimentarsi in una gara dai risvolti del tutto aleatori (Dio ci scampi e liberi dal televoto), rischioso affrontare avversari di minor caratura. Per dirla tutta, quest’anno ho guardato il Festival esclusivamente per la presenza di Luciana Littizzetto, detta Lucianina, in qualità di co-presentatrice insieme a Fabio Fazio. Trovo che questa coppia sia fenomenale, televisivamente parlando. Hanno una grande sintonia, si capiscono al volo e si stimano: sono la classica coppia comico-spalla che riempie lo schermo, che regge la scena con autorevolezza. Lei irriverente, impertinente, imprudente, sfacciata, tendente alla volgarità e allo sberleffo; lui educato, misurato, raffinato, estremamente rispettoso e sempre politically correct. Un gioco delle parti in cui lei attacca, inveisce, insolentisce tutto e tutti e lui tenta (fintamente?) di metterle il freno, di arginarla, di tapparle quasi fisicamente la bocca. Senza riuscirci peraltro. Guardando il sorrisino ironico con il quale Fazio fissa la Littizzetto dopo ogni strigliata, ci si rende conto di quanta complicità ci sia tra i due, di quanto l’una dica ciò che solo a lei è concesso (il privilegio del giullare) e di quanto l’altro, pur nella formalità un po’ ingessata del conduttore modello, ami sentire dire quelle cose. I loro siparietti a Che tempo che fa sono tra le gag televisive più efficaci che ci siano in circolazione, e ricordano un’altra coppia storica formidabile, Vianello - Mondaini.
E dunque, forte di questa garanzia, mi sono sintonizzato su Rai Uno per alcune sere. Purtroppo però mi sono accorto quasi subito con grande rammarico che, a parte la Littizzetto e Fazio, c’erano anche i cantanti. Alcune canzoni erano davvero uno strazio inascoltabile: sconclusionate melodicamente, incomprensibili, biascicate o urlacchiate senza criterio. In alcuni frangenti - vuoi anche a causa dell’influenza che mi ha reso un tantino sorso - ho avuto serie difficoltà a comprendere testi e parole. E così, al pari di un non udente fatto e finito, ho messo su la pagina 777 di televideo. Da quel momento sono riuscito a intendere parola per parola, anche se leggermente in ritardo rispetto al labiale. Il che ha creato, se possibile, ancora più confusione. E sì perché, se prima potevo ragionevolmente pensare di non riuscire ad afferrare il senso della canzone perché non sentivo le parole, ora le parole le potevo leggere, eppure non capivo lo stesso. In alcune circostanze mi sono trovato di fronte a dei testi al di là di ogni possibile comprensione umana. Ecco una piccola antologia colta fior da fiore tra i ritornelli, che pure dovrebbero essere il punto di forza di ogni pezzo: “Senza di noi - ho ancora - quella smania di fuggire via da sola - senza di noi - ma non da ora - se non altro per vederti - andar via ancora”; “Ho imparato a leggere e pure a parla’ - mangio scatolette non cucino più - festa del paese non ci vengo e tu? - c’è il pallone alla tv”; “Portami a bere oltre le stelle - Spiegami il senso dimmi la verità, profeta - Fammi fumare venti d’immenso”; “Come poterti dire - Questa mia canzone - Già ti appartiene e mi lascia di te - Come in un regalo di natale - La curiosità di non sapere cos’è”; “La prima volta che sono morto non me ne sono nemmeno accorto - ma ho realizzato dopo un secondo, che si sta meglio nell’altro mondo”. Ecco, a parte l’ultimo virgolettato, che pure è parecchio stravagante, ditemi voi se hanno un senso logico queste parole. Ditemi se si capisce il pensiero che hanno seguito gli autori. Per forza che poi Vecchioni al confronto diventa un grande poeta. Stando così le cose allora non si capisce perché il grande Leone Di Lernia non venga mai invitato ad esibirsi sul palco. Questa si che è un’ingiustizia.
Ad ogni modo, a conclusione della kermesse, tutti si sono ovviamente dichiarati molto soddisfatti: gli ascolti sono stati mediamente alti (e sfido io..., dove vuoi che vada la gente con sta crisi?), i dirigenti Rai si sono complimentati con autori e conduttori, i critici hanno elogiato le canzoni e l’evento pare che si sia ripagato con la raccolta pubblicitaria. Il che è già qualcosa considerato il momento economicamente non certo felice che vive il mondo dell’editoria. Nulla di nuovo dunque rispetto agli altri anni. Tra qualche giorno, poi, sempre nel solco della tradizione, inizieremo a chiederci: “Chi è che ha vinto il Festival quest’anno?”. Al che cominceremo a fare delle panoramiche infinite tutt’intorno a noi, alla ricerca di una risposta che non arriva. E per uscire dall’empasse imbarazzante faremo la solita immarcescibile battuta: “Forse i Jalisse”. E dunque senza accorgercene, presto ci ritroveremo davanti ad un nuovo fantasmagorico festival. Si ricomincerà a parlare di chi c’è e chi non c’è, degli ospiti d’onore, delle soubrette, degli opinionisti, dei conduttori e dei compensi stratosferici. Che poi non si capisce perché ci sia tanta indignazione riguardo a quest’ultimo argomento. Viviamo in un regime di libero mercato, abbiamo accettato l’idea che chi vale debba essere pagato, anche profumatamente? Bene. E dunque dov’è lo scandalo…? Si tratta della banalissima legge del mercato: faccio ascolti, attraggo investimenti pubblicitari? Bon, il mio prezzo è questo. Matematico. D’altra parte è dai tempi di Leibniz che riteniamo di vivere nel migliore dei mondo possibili. Che novità è mai questa? A meno che non si voglia entrare in un nuovo discorso di valenza etica. Cosa che, va da sè, ci porterebbe su un terreno assai minato.
Ad ogni modo, visto che manca ancora qualche mesetto all’appuntamento, e fermo restando che la coppia Fazio-Littizzetto funziona e che dunque andrebbe riconfermata, io avrei da proporre un suggerimento ai “padroni del vapore”: e se l’anno prossimo facessimo lo spettacolo senza i cantanti?

venerdì 15 febbraio 2013

L’algoritmo dell’anima gemella

Allora, spiace dirlo, ma tutte quelle vecchie litanie, tutti quei beceri luoghi comuni, tutte quelle solfe in agro-dolce su quanto gli opposti si attraggano e si completino reciprocamente, sono delle gran panzane. Mi hanno sempre molto stupito coloro che, mostrando orgoglio e baldanza, sostengono: “Ah guarda, io e lei…, completamente diversi. Ed è per questo che andiamo d’accordo…”. Un corto circuito nel cervello. E sì, perché se a me piace bianco e a te piace nero, il punto d’incontro sarà pur sempre un grigio che non soddisferà nessuno dei due. Un compromesso al ribasso. Salvo che uno dei due ceda a vantaggio dell’altro - per amor suo, diciamo così - , ma sarà comunque, una rinuncia più o meno dolorosa, a seconda del grado più o meno elevato di masochismo presente nel soggetto che si sacrifica. A meno che, dai e dai, la coppia non si sintonizzi sulla stessa lunghezza d’onda, non cominci a vedere il mondo con gli stessi occhi. Un po’ come succede tra cane e padrone. Fateci caso se non finiscono per assomigliarsi anche loro: padrone grassoccio, cane botolo; padrone depresso, cane con espressione da funerale; padrone tombeur de femmes, cane stupratore di cagnette al parchetto, sotto gli occhi esterrefatti di gruppi di religiosi casualmente di passaggio. La vita in comune, al di là di tutti i discorsi più o meno poetici sull’amore, è pur sempre un grande compromesso, occorre dirlo: per natura l’uomo, essendo un animale sociale, è portato ad aggregarsi. La rinuncia alla libertà individuale e assoluta ha portato il vantaggio della socialità. Con tutto ciò che ne comporta. Ma è un dato di fatto che ogni persona ha le proprie peculiarità, le proprie caratteristiche, le proprie manie. E sono tutte particolarissime. In fondo è questo il bello dell’Universo, o no? L’unica cosa che possiamo fare dunque, avendo scelto liberamente di vivere in branco e nello specifico, di vivere in coppia, è quello di sceglierci delle persone che siano il meno distanti da noi, con le quali, pur nella costanza delle differenze, ci sia una parvenza di affinità o almeno di compatibilità. È del tutto naturale, direi. È un po’ quello che succede tra amici: gli amici uno se li sceglie, si dice. E su che base si compiono queste scelte? Sul grado di affinità, evidentemente. Nel film Scusate il ritardo Lello Arena interpreta la parte di ragazzo abbandonato dalla fidanzata. Non si dà pace, piange notte e giorno e medita propositi suicidi. Massimo Troisi, l’amico del cuore, cerca di tirarlo su, di infondergli speranza, dice che presto troverà una nuova compagna. Ma questi replica che ciò non potrà avvenire e che se anche si accorgesse di incontrare una persona che per lui potrebbe andar bene, egli la rifiuterà. Troisi gli chiede il perché e questi risponde: «Perché non è facile. Vedi io all’inizio, con lei, mi sembrava brutto dirle che a me non piaceva la salsa con i semi e le pellecchie, e me la mangiavo. Poi, in tre anni, uno parla e si capisce, comunica. All’inizio le scartavo proprio perché non mi piacevano, poi però uno parla, e ci siamo trovati d’accordo. Però c’ho messo tre anni per farle capire che non mi piaceva. Mo’ piglia e mi metto con un’altra e ricomincio tutto d’accapo. Io non ce la faccio». Al che Troisi gli replica: «Scusa Tonino, ma che significa? Tu dovresti migliorare, quest’esperienza ti deve far migliorare. Senza perdere più tre anni, quando trovi una che, su per giù ti può piacere, appena te la presentano, subito “piacere Tonino, non mi piace la salsa con i semi e le pellecchie”. In una volta recuperi tre anni. E fai un passo avanti». Ma Tonino insiste: «Io la pigliavo, la portavo, le facevo mille attenzioni, mille pensieri…, io non capisco che cosa le ho fatto…». E Troisi: «Esatto, è proprio questo Tonino…! Tu eri troppo… “amore…, e dammi un bacio…, e abbracciami…, e se io dovessi morire tu che faresti…”. Tonino, uno si scoccia…! E poi ste cose non si chiedono: o ci stanno o non ci stanno. Tu le chiedevi, e lei te le dava? No. Ecco, vedi: allora dovevi essere tu a lasciare lei. Dovevi dire: “Guarda volevo delle cose che non mi dai, vado da un’altra che me le da”». Quando si dice incompatibilità caratteriale.
Ora uno studio condotto dal Gesis Leibniz Institute for the Social Sciences (Mannheim, Germania) dimostrerebbe che le coppie formate da partner con personalità poco compatibili tra di loro, tenderebbero a separarsi nell’arco di un quinquennio. Analizzando circa cinque mila coppie, per un intero lustro, è emerso che le coppie felicemente sopravvissute durante i cinque anni erano formate da partner tra loro compatibili e che, viceversa, i rapporti finiti male entro i cinque anni erano caratterizzati da persone con personalità poco simili e armoniche. E anzi, cosa ancora più singolare a dirsi, sembrerebbe che il livello di corrispondenza e compatibilità iniziale di coppia, non solo non si è accresciuto nel periodo di convivenza, ma è addirittura diminuito. Come a dire che se due sono poco affini all’inizio, alla fine saranno ancora più lontani e incompatibili l’uno con l’altra. Già, ma come si capisce se due persone potranno essere buoni partner? In fin dei conti, soprattutto nei primi, iniziali momenti, è l’infatuazione che domina le dinamiche relazionali, la mente è obnubilata dalla passione, si prova un’attrazione sentimentale e fisica irresistibile, tale da mettere tutto il resto in secondo piano. Spesso ci si accorge delle evidenti differenze e incompatibilità caratteriali, ma, sull’onda del trasporto, si pensa di riuscire a superare ogni difficoltà. D’altra parte si sa, l’amore è pur sempre una follia. Salvo poi accorgersi di aver sprecato solo del tempo. Ora però, volendo dar un po’ di credito alla scienza, c’è un sistema infallibile per valutare se siamo effettivamente di fronte all’anima gemella oppure no. Gian C. Gonzaga, ricercatore del sito di incontri statunitense eHarmony, ha presentato la sua teoria sulla coppia perfetta nientemeno che al congresso della Society for Personality and Social Psychology, tenutosi a New Orleans qualche giorno fa. E che dice questo esimio scienziato di cotanto speciale? A dargli retta basterebbero duecento domande e un semplice algoritmo matematico per individuare, senza ombra di dubbio, la coppia perfetta. Il ricercatore sostiene che più di mezzo milione di matrimoni, dal 2005 ad oggi, si sarebbero conclusi felicemente grazie a queste duecento domande, un questionario dettagliato basato sugli aspetti caratteriali della persona, dalla litigiosità all’estroversione, dalla spiritualità all’ottimismo. Più simile è il punteggio, ha spiegato l’esperto, tanto più le probabilità che il matrimonio sia felice sono alte. Che meraviglia: un tizio che non voglia andare incontro a travagli e sconfitte sentimentali da ora in poi potrà recarsi presso un’agenzia matrimoniale associata al sito eHarmony, e sottoporsi al test di Gonzaga. Poi gli analisti metteranno tutti i dati in un cervellone elettronico e, in men che non si dica, un bell’algoritmo estrapolerà la partner più indicata. Fantastico. Dopo di che, se proprio siamo dei pignoli insopportabili e vogliamo avere la certezza matematica del risultato, possiamo affidarci allo studio della Brown University, secondo il quale, analizzando l’attività cerebrale di un individuo, mentre osserva la foto del proprio partner, si può dedurre se la coppia è solida o destinata a sfaldarsi entro tre anni. Il tutto in un ambiente asettico, pulito, senza emozioni né implicazioni sentimentali. Che si può desiderare di più dalla vita.
Già, ma a questo punto mi sorge spontanea una domanda: è vita poi questa? Se anche l’amore, che è l’avventura più alta che ci è toccato di vivere in questo fottuto mondo, diventa raziocinio scientifico, se ci priviamo del piacere dell’imponderabile, del caso, se ci chiudiamo la via della sorpresa, della meraviglia, e dunque anche dell’imprevisto, sia anche al massimo della sofferenza, siamo sicuri di essere più vicini alla conquistare della felicità? Non ne sono così convinto. Si dice che la conoscenza renda liberi. Io aggiungerei una piccola postilla: lo stupore ci rende vivi. Lasciatecelo.

giovedì 14 febbraio 2013

Vuoi diventare più intelligente? Fatti una domanda e datti una risposta

Oggi volevo parlarvi di un argomento molto bello e interessante: come si diventa più intelligenti. Che già detta così fa ridere. E perché mai, di grazia, un individuo dovrebbe ambire a diventare più intelligente. Più intelligente di chi? E per che cosa? In realtà l’articolo dal quale avevo preso lo spunto ieri notte, aveva un incipit fuorviante.

Andando ad approfondire il tema trattato, mi sono accorto che la questione era tutt’altra, vale a dire come si rallenta il declino cognitivo del cervello, a prescindere dall’ingravescente aetate. E così, devo ammettere, la curiosità spasmodica e divertita del primo momento è un po’ scemata. Ma si sa, i giornalisti tirano l’acqua al loro mulino, e dunque anche un titolo accattivante, può fare la fortuna o meno di un articolo. Certo che però, “come si diventa più intelligenti”, era proprio una bella questione: già m’immaginavo una sfilza di suggerimenti strabilianti per scalare senza fatica alcuna il famigerato QI (quoziente d’intelligenza) che tanto fa paura agli individui come me, dotati di scarsissime attitudini intellettive, soprattutto se messe in relazioni a rebus, rompicapo, giochi di logica e quant’altro. Leggo su wikipedia: “Persone con QI basso sono a volte inserite in speciali progetti di istruzione”. Ecco perché non mi sottoporrò mai a un test sul mio QI: io nello speciale progetto di istruzione non ci voglio finire. Mica che poi mi sparano anche un bel 220 volt nel cervello. Che poi se proprio dovessimo testare le nostre capacità basterebbe cercare di risolvere il famoso “Quesito di Einstein”, quello che comincia con “ci sono cinque case di cinque colori differenti” e finisce con “chi ha i pesci rossi?”. Einstein sosteneva che il 98% della popolazione mondiale non fosse in grado di risolverlo. Ecco, io l’ho fatto: rientro perfettamente nei 98. A dire il vero non ho neanche tentato di risolverlo, anzi, per dirla tutta, giunto a metà della lista degli indizi, mi è venuto uno sturbo violento che quasi mi tramortiva. Ma questo è davvero un test difficile, ammettiamolo. Volendo vantarmi, potrei raccontare di quando mio cugino risolse il test nel giro di un paio d’ore. Dice, “e che c’entri tu?”. Va be’, è sempre un parente, abbiamo quasi lo stesso sangue nelle vene: me ne deriverà pure un certo vantaggio, o no? Allora ditemi voi, meglio essere cugino di uno che risolve il test di Einstein o è meglio essere cugino di quello che sta dentro al Gabibbo?
Ad ogni modo ci sono anche test più semplici, più abbordabili anche per delle menti meno illuminate. D’altra parte non tutti devono essere per forza dei premi Nobel per la fisica. Sono più o meno gli stessi test a cui vengono sottoposti scimpanzé e orangutan. E se possibile, sono quelli che mi fanno ancora più paura: capirete, un conto è non riuscire a risolvere il test di Einstein - restando in abbondante e rassicurante compagnia - altro è fallire nel test in cui il bonobo riesce brillantemente. Ci sarebbe da appendersi al banano tutta la vita. E temo che andrebbe a finire proprio così. Anche perché, per esempio, quando ho per le mani la Settimana Enigmistica, l’unico gioco d’abilità che mi riesce è quello di unire i punti numerati per far saltare fuori la figura. Che oltretutto risulta anche sempre mezza sbilenca. Ma torniamo al punto di partenza: come si diventa più intelligenti? Recenti studi scientifici suggeriscono alcuni esercizi e abitudini che farebbero del nostro cervello rattrappito un prodigio d’intelligenza. Andiamo a dare un’occhiata: per prima cosa occorre cimentarsi in occupazioni, discipline, interessi nuovi rispetto al solito. Provate con gli origami, il tai chi, un corso di danza, oppure iscrivetevi all’università della terza età. Pare che oltre ad apprendere tante belle nozioni, si facciano anche degli incontri sentimentalmente molto stimolanti. Ma proseguiamo: l’importante è essere curiosi, farsi (e fare) tante domande, continuamente. Anche al costo di rompere i coglioni all’Universo Mondo. “Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”. Ecco, ripetetevi un centinaio di volte al giorno queste domande, anche a voce sostenuta e senza darvi necessariamente una risposta. Se non vi ricoverano prima alla neuro-deliri, aumenterete di molto le vostre capacità intellettive. E ancora: non appena avete un attimo di tempo libero, partite, abbandonate la vostra orrenda città e andatevene in un bel posto. La bellezza della natura è lì per tutti, trasmette energia e allontana le tossine della nostra esistenza. Se poi non avete un centesimo in saccoccia, data la crisi, va bene anche il giardinetto sotto casa. Evitate di sedervi però sulla panchina accanto ad anziani pensionati: sono tra coloro che più si attengono al punto precedente. Altro suggerimento molto completo: mettetevi alla prova, lanciatevi in nuove avventure, cercate di cimentarvi in campi per voi completamente ignoti tipo l’arte, la musica, la culinaria. Compratevi gli acquerelli e imbrattate un po’ di tele; fatevi prestare un flauto dolce dal vicino e soffiateci dentro, fino a beccarvi un esposto per disturbo della quiete pubblica; improvvisatevi master chef e invitate gli amici più stretti ad assaggiare la vostra fantasmagorica pasta al paté d’olive. Vi farete nemica l’umanità, ma quanto sarete più intelligenti…! E per concludere cercate di tenervi sempre informati: divorate libri, riviste, giornali, opuscoli informativi, bugiardini medicinali. Tutto. L’importante è avere materiale su cui riflettere e ragionare. Da qui potrete maturare opinioni, confrontarvi su argomenti, elaborare un vostro pensiero su tutto ciò che vi circonda. Poi scendete alla bocciofila, o al bar sottocasa e aprite un bel dibattito con gli altri ubriaconi. Ne verrà fuori un fantastico simposio. Auguri.
 
E per concludere due parole due sulla Festa di San Valentino. Non starò qui ad ammannirvi con filippiche contro la deriva consumistica, contro la strumentalizzazione dell’amore, sul concetto che i sentimenti vanno dimostrati tutti i giorni e non solo il 14 febbraio, sulla superficialità di una ricorrenza degradata a puro evento folcloristico. No, non è mia intenzione essere così banale. Che ognuno faccia un po’ quel che gli pare. D’altra parte lo diceva anche Sant’Agostino: “Ama e fa ciò che vuoi”. Se proprio ci tenete a spendere capitali in fiori, ristoranti, regali e tutto il resto, liberi di farlo. Ecco, magari se mi è concesso un consiglio, scegliete un giorno diverso da San Valentino, una data che sia tutta vostra, che significhi qualcosa di particolare per voi. Se non altro sarete originali e non vi farete spennare come tacchinelle ripiene. Riallacciandoci invece ad un post precedente, vale a dire ai Rimedi d’amore, ci sentiamo di condividere con grande convinzione ciò che scrive Marcello Veneziani sulla prima de Il Giornale di oggi: “Consiglio l’uso di San Valentino a single, marpioni, trombeur e serial kisser. Stilate per stasera un listino bloccato di candidate fidanzate in ordine d’appeal e mandate loro - a scalare - fiori, regali e biglietti d’amore (in stock si risparmia). Statisticamente, almeno una su dieci, abbocca all’amo, vero sostantivo del verbo amare. Così strumentalizzate voi San Valentino capovolgendone il senso, a beneficio vostro e dell’economia e commercio”.
Diavolo d’un Veneziani, neanche Ovidio arrivava a tanto…!

mercoledì 13 febbraio 2013

“Il sonno della ragione genera mostri”

Nel paese di Arcadia, esisteva un tempo un signore assai buffo e singolare, sempre allegro, la battuta pronta, simpatico e guascone. Un istrione d’avanspettacolo in piena regola. Nella vita aveva avuto grande successo, da borghese piccolo piccolo, era divenuto uno degli uomini più ricchi del Mondo. I maligni sostenevano che quelle fortune fossero frutto di imbrogli e malaffare, perpetrati per decenni a danno del popolo, ma, come si sa, nessuno è disposto ad ammettere facilmente i meriti dell’altro e la mamma degli invidiosi è sempre incinta.
Col passare del tempo questo signore, che a causa delle sue uscite spesso grottesche e strampalate, veniva comunemente chiamato Vanverino, divenne talmente ricco e potente, da condizionare non solo l’economia, ma l’intera vita politica e democratica del suo paese. E sì perché Vanverino, minacciato dalle inchieste giudiziarie di una classe politicizzata di Arconti rancorosi - i più invidiosi tra gli invidiosi - si era visto costretto ad occuparsi della “cosa pubblica” per difendersi (oltreché naturalmente per salvare dal triste destino il paese che egli tanto amava). E strano a dirsi, ma neanche tanto trovandoci nel paese di Arcadia, i cittadini cominciarono a dargli retta, ad acclamarlo e riempire le piazze durante i suoi comizi. Egli prometteva la rivoluzione borghese, l’abbattimento del feroce regime degli Arconti, l’azzeramento delle odiate gabelle, la felicità per tutti. E il popolo gli credeva, anche perché Vanverino era un gran simpaticone e faceva sempre molto ridere con le sue barzellette. E così, a dispetto di tutte le previsioni dei filosofi peripatetici che in quel tempo avevano grande influenza, vinse le elezioni. Vanverino, salvo brevi periodi di interregno - in cui si faticava seriamente a capire chi fosse al governo e chi all’opposizione - dominò da monarca assoluto per quasi vent’anni. Il paese di Arcadia, plasmato a sua immagine e somiglianza, si trasformò radicalmente, abbracciando una nuova e moderna filosofia di vita, nuovi valori, nuovi ideali. Là dove un tempo esisteva una morale basata su onestà, rettitudine, lealtà, fiducia, dignità, onore, tutte virtù nocive e ampiamente superate, come si può facilmente intuire, ora regnava la cultura del successo ad ogni costo, dell’arrivismo, dell’apparire. Tutto ciò che un tempo era considerato scioccamente diritto sacro e inviolabile, si trasformò opportunamente in benigna concessione. Tutte le lotte portate avanti in decenni e forse secoli, a favore dei lavoratori, per l’emancipazione della donna, per i diritti sociali e civili, persero gradualmente di significato e vennero presto giustamente dimenticate. In tutti gli strati della popolazione, dai più colti e benestanti ai meno istruiti e disagiati, si diffuse l’idea che il merito fosse la più grande panzana messa in circolazione dagli sfruttatori del passato. Nelle famiglie i genitori cominciarono a sperare per i figli, non già vuote e insignificanti carriere da avvocati o medici, o ingegneri, ma ribalte teatrali, riflettori mondani, successi di pubblico. Che ci fosse da pagare qualche piccolo pegno d’onore per la scalata alla notorietà, poco contava. L’importante è che si raggiungesse la fama. E così, per molti lustri il paese visse in questo meraviglioso sogno, in questo stato d’incantamento che portava, se non la felicità per tutti, almeno la speranza di divenire un giorno come i tanti idoli che ce l’avevano fatta. Perché in questo meraviglioso sogno, il successo era divenuto la misura di ogni cosa, il valore assoluto, la ragione ultima dell’esistenza, completamente fine a se stesso. Ora avvenne che, dopo molti anni di felice buongoverno - checché ne dicessero i detrattori faziosi e partigiani - si verificò una grave carestia che sconvolse tutto il paese. Nei campi i raccolti cominciarono a scarseggiare, gli artigiani e i bottegai videro diminuire sempre più le commesse, la popolazione si andò impoverendo a vista d’occhio. Ma nonostante ciò, Vanverino continuava a sostenere che la carestia non esistesse e che fosse solo un mezzuccio propagandistico degli Arconti per farlo sfigurare agli occhi del suo popolo. E senza dubbio aveva ragione. Fatto sta che, per una ragione o per l’altra, la gente ce la metteva veramente tutta pur di dar ragione ai disfattisti: alcuni erano talmente entrati nella parte che facevano una gran fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Ad un certo punto Vanverino, messo alle strette dai suoi stessi serventi e maggiordomi, dovette ammettere che la carestia esisteva davvero. E così si presentò in piazza davanti al suo popolo e tra battute, aneddoti, frizzi, lazzi e grandi risate, cominciò a raccontare ai presenti il perché della carestia e il modo in cui Arcadia ne sarebbe uscita se solo si fosse affidata ancora una volta a lui. In fin dei conti egli amava il suo popolo, e poi c’era stata la crisi dell’erario, l’uragano, il terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette. Non era di certo colpa sua lo stato miserando in cui versava ora il paese. Ascoltando quelle parole, a qualcuno tornò in mente la scena di una vecchia, lontana commedia scritta da Menandro - andata persa purtroppo - , in cui un tale, pur di non essere pugnalato a morte dalla fidanzata abbandonata sull’altare un attimo prima di sposarsi, inventa delle scuse fantasmagoriche e incredibili a discolpa del suo comportamento. E così Vanverino, accorgendosi per la prima volta in vita sua che il pubblico non lo seguiva, rumoreggiava e anzi dava segni di disapprovazione, invitò sul palco una dama lì presente, con la quale intendeva fare un bel siparietto per far ridere gli astanti. E com’era suo costume da sempre, cominciò a fissarla con sguardo libidinoso, a fare battute sconce a sfondo sessuale, a lanciare doppi sensi, ammiccamenti, occhiate d’intesa col pubblico. E, di fronte al profondo imbarazzo della sua ospite, rideva, rideva senza ritegno Ma, con sua grande sorpresa, successe una cosa strana, imprevista e imprevedibile. Dalla platea non partì nessun applauso estasiato, nessuna risata fragorosa, nessun segno di gradimento e approvazione. Solo volti severi, sprezzanti e disgustati, in un silenzio irreale. E la cosa era oltremodo singolare e incredibile ai suoi occhi, essendo abituato a folle esaltate, inebriate, osannanti e bendisposte verso i suoi siparietti. Che cos’era mai dunque quel sussulto di dignità? Poi ad un tratto, prima sommessamente, poi sempre più con forza crescente di cascata, si levarono mugugni, borbottii, lamenti, invettive contro il palco. Defilato sul lato lungo della piazza si udì un “vergogna” urlato con timbro baritonale da un tipo atticciato; da sinistra un altro gridò “valle a dire a tua sorelle queste cose…”; da destra un gruppetto di donne esplose in un “come ti permetti, maiale”. Vanverino cercò di minimizzare, sorrise, fece il disinvolto, ma si rese conto che la situazione gli stava sfuggendo dalle mani. Pensò a quel punto di rimediare buttandola sull’ormai classico cavallo di battaglia, quello che da sempre gli aveva garantito il consenso: “Amici, non date retta a questi contestatori politicizzati…”. Ma la folla prese a lanciargli ortaggi e verdure avariate. Ormai tutto era in subbuglio, le schiere rumoreggiavano, si agitavano sempre più violentemente sotto il palco, davano segni di rabbia incontrollabile. Vanverino si rese conto di non avere più scelta, doveva scendere dal palco e scappare, fuggire prima che fosse troppo tardi. «Sciocchi - pensò tra sé e sé, mentre un carro lo portava lontano - , come potrete vivere senza di me…? Che vita triste e senza speranza vi aspetta da ora in poi…, che mondo buio e desolato vi attende. Ho pena, una grande pena per tutti voi, figli miei…».
E così, da quel giorno per gli abitanti di Arcadia nulla fu come prima. La carestia aveva di fatto spazzato via in un colpo solo tutti i sogni, i miraggi e gli incantesimi in cui era vissuto per quel lungo tempo un intero popolo. Ora finalmente le persone si rendevano conto di aver sprecato vent’anni della loro storia correndo dietro alle inutili e deleterie sinfonie di un pifferaio magico. Il giorno dopo ad Arcadia si risvegliarono tutti un po’ più tristi. D’altra parte accade sempre così quando un bel sogno finisce. Non avevano rimpianti tuttavia: aver ritrovato il proprio onore e la propria dignità instillava gocce di orgoglio e fiducia nei loro animi. Da ora in poi non sarebbe stato facile, questo lo sapevano tutti: avevano un paese da ricostruire e neanche un’illusione alla quale affidarsi. Ma erano un grande popolo, fiero, con una grande storia alle spalle. E di questo ne erano coscienti. Il futuro non poteva spaventarli.
E poi dopo mi sono svegliato.