Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

mercoledì 31 ottobre 2012

Cialtroni si nasce, non si diventa

Il blog è entrato a conoscenza di alcune intercettazioni telefoniche - sms per l’esattezza - riguardanti un losco figuro che scrive per diletto (suo, non certo di altri…) anche su queste pagine. Si tratta di materiale davvero poco interessante oltreché estremamente volgare. Ve lo mettiamo tuttavia a disposizione per illuminarvi sul tema della deriva morale del nostro disgraziato Paese. Se ne sconsiglia pertanto la lettura ai minori e alle persone impressionabili.

Deluso: «Tutti dopati sti barboni…, che vergogna. Basta, smetto di seguire il ciclismo e mi dedico al curling. Mi piace quello con la scopetta».

Aereo: «Minchia, sto scoreggiando come un grosso mulo da montagna. Quanta tristezza».

Affranto: «Domanda ad Elena: “Ohi, come va tutto bene?”. Risposta: “Non direi…”. E come diceva Mike, “allegria…”».

Intenditore: «Tutto il week-end a bere come un maledetto per il compleanno di Alfio. Stamattina ho pisciato tre litri di prosecco caldissimo. Però di ottima qualità».

Prosaico: «I dottori del far west…, sempre sbronzi. Che poi altro che dottori, sono mezzi veterinari e curano tutti per il cimurro. Quanto sconforto…».

Invidioso: «E perché sei triste? Figurati, ora che sei completo, felice e metti pure su casa…! Allora io cosa dovrei fare, picchiarmi in culo un candelotto e dargli fuoco?».

Meschino: «Oh, Teresina ha scritto su facebook “meglio una persona cattiva che una ignorante”. Cosa cacchio hai combinato ancora?».

Catastrofista: «Contento per te, vecchio mio. Chi l’avrebbe mai detto che la vita sarebbe cambiata così…! Ora però ti manca di moltiplicarti: il tempo scorre e la prostata cresce…».

Infantile: «No, non hai capito…, sono felice del mio alcolismo… alla sera prima di andare a dormire puccio sempre due plasmon nell’Unicum. E la prostata è già un pallone da basket…».

Incontinente: «Non dirlo a me, è già un paio d’anni che mi piscio sulle scarpe…».

Aereo, seconda parte: «Altra prodezza: leggo “Fantozzi contro tutti” in posta. Silenzio da deportati. Per il troppo ridere mi parte un peto modulato. Tutti gli anziani mi guardano male e si lamentano. Poi salta fuori il direttore e fa: “Eschi, eschi per cortesia”. “E la mia raccomandata?”. “Vadi al più vicino mattatoio a spedire la sua roba…”».

Aereo, terza parte: «Ero in macchina e scoreggiavo ridendo. Poi ho visto un distributore e mi sono fermato d’impulso. Quando ho tirato giù il finestrino l’omino della pompa mi ha fissato come fossi Pacciani».

Simpatico come un affossatore: «Oh, Marietta scrive su facebook: “Mal di gola, mal di ossa, mal di testa…, e la cosa più grave è che è lunedì. Morirò entro stasera”. Ma cos’è, vi siete cercati col lanternino?».

Irridente: «Nibali è troppo scarso, non vincerà mai un cazzo: lo vedrei bene in altre specialità…, ha il fisico del lanciatore… di coriandoli…».

Insidioso: «Eh ma cacchio Katy, Andrea è ancora geloso di me? Ma è più retrogrado di un pugliese di Foggia. Ora sono triste: vorrà dire che scolerò anche l’ultimo goccio di Cynar. Non c’è altro da fare».

Abbandonato: «Si si…, ti chiamo la settimana prossima…! Minchia, fai più promesse tu di Marchionne e Silvio messi insieme. Tra l’altro ho chiesto alla Giò quando ci vediamo. Mi ha risposto “vedremo”. Ora sono anche più triste».

Intenditore gentiluomo: «Uhe merdaiolo, quand’è che andiamo a bere un Biancosarti…?».

Simpatico come un esattore di Equitalia: «Oh, lo sai come si chiama il tipo di Francesca, quello di Viterbo? Loris Polvero. Ma dimmi te…! Il secondo cognome sarà Mocio-Vileda, sicuro…!».

Volgare: «Alfonso in Gallura: “Oh Ely, comincia a belare”. Ely: “No Alf, non se ne parla…”».

Ecumenico: «Figurati, è stato un piacere. Saluta Tatiana e…, quando torni a casa dai un bacio ai bimbi e di loro: “Questo ve lo manda… Yanez”».

Scatologico: «Pazzesco…, per sederti sulla cella defecante delle latrine di Milano Centrale 1 euro. Dove andremo a finire???».

Aereo, parte quarta: «Oh, l’Elisabetta mi ha scritto su facebook, dice che sei un essere speciale. Volevo rispondere: “Sì, quando lavora con la parte dove finisce la schiena”. Poi ho lasciato perdere…».

Critico cinematografico: «E’ uscito “On the road”, il film. Ieri sera volevo andarci con una mia amica, ma lei mi ha trascinato a vedere “Tutti i santi giorni”. Credo che non la rivedrò più…».

martedì 30 ottobre 2012

Per ben figurare...

Un tempo, nel mondo contadino soprattutto, la stretta di mano valeva più di un contratto stipulato alla presenza di un notaio. Bastava la parola perché ci si impegnasse reciprocamente, ed il venir meno ad una promessa equivaleva a perdere per sempre la fiducia di tutti: un’onta che spesso rendeva poco dignitoso lo stesso continuare a vivere. Oggi al contrario, non c’è minaccia che tenga, non bastano le ingiunzioni dei più feroci legulei per indurre le parti a rispettare gli accordi. Gli onesti sono considerati dei timidi nella migliore delle ipotesi, e dei fessi completi nella peggiore. Mentre i dritti sono quelli scaltri, quelli che sono capaci di cavarsela sempre e in ogni occasione, anche al costo di infrangere le più elementari leggi di etica, ancor prima delle norme di diritto. Oggi però, invece di trattare del sempre caro tema della deriva morale del nostro disgraziato paese, ci soffermeremo sul gesto della stretta di mano.
In origine porgere la mano significava dimostrare di non essere armato, e quindi di essere disponibile ad un dialogo pacifico, leale. Oggi invece è diventato un rituale d’introduzione, un gesto che apre alla conoscenza tra sconosciuti. Ora uno studio che sarà pubblicato a dicembre sul Journal of Cognitive Neuroscience dimostra in modo scientifico che la stretta di mano è davvero cruciale per la prima impressione tra due individui che non si conoscono. Gli psicologi sostengono che i diversi tipi di stretta che diamo o riceviamo, dipendono dal rapporto che ciascuno intende instaurare con l’altro: c’è chi ha il ruolo dominante e chi, invece, è un tipo sottomesso; c’è chi da una mano fredda e umidiccia - orrore - e chi invece ti porge solo la punta delle dita…, non sia mai che gli ciuli un anello; e poi ancora la mano avvolgente ed “acchiappesca”, quella floscia da relitto umano, quella ondeggiata con foga, manco si stesse pompando acqua da un pozzo artesiano. E così gli esperti, per ben figurare, consigliano una stretta decisa, ma non troppo. Ecco appunto, per ben figurare…! Questi esperti ci dicono sempre come sarebbe meglio comportarsi all’apparenza. Questa faccenda non mi ha mai convinto: perché se la mia indole è quella di dare al posto della mano una seppia morta, dovrei simulare un carattere del tutto diverso, fornendo una stretta schiacciasassi da Franco Fiorito? Dove mi porta questo comportamento? Per non parlare degli ultimi consigli dei sedicenti esperti nell’approcciare un colloquio di lavoro: mai muovere o stritolarsi le mani, mai guardare per aria verso sinistra, mai toccarsi la gola, sbattere le palpebre, guardare di sbieco; mai tenere le labbra serrate (meglio leccarsele forsennatamente), mai deglutire, mai irrigidire la mascella; ridere va bene, ma non troppo (si apparirebbe servili), mai tossicchiare, schiarirsi la voce, sospirare; mai toccarsi la gola, tamburellare con le dita sul tavolo, o giocherellare con qualche altra appendice corporea; toccarsi la cravatta, i capelli (per chi ce l’ha) o ruotare l’anello al dito si può ed è consigliato; mai braccia conserte (segno di chiusura), mai testa china né gambe attaccate alle gambe delle sedie; mai usare oggetti come fossero delle “protesi” dei propri arti (tipo la penna); e poi il busto sempre ben eretto, mai parlare troppo velocemente, mai cantilenare o ripetere inutili intercalare tipo “diciamo”. Ecco, tutto ciò sempre per ben figurare, per dare una buona impressione. E così capita che, dissimulando una spaventosa timidezza, un poveraccio che ha fregato uno psicologo del lavoro, si trova a fare l’intrattenitore su una nave da crociera - . Leggendo questi consigli mi è tornato in mente un episodio di molti anni fa. In quel periodo lavoravo per una società di servizio presso la fiera di Milano ed ero responsabile d’area. Mi occupavo anche di assunzioni. Ogni giorno avevo qualche colloquio e ne vedevo veramente di tutti i colori. Una volta mi capitò un tale di nome Balocco, era un ragazzo sicuro di se, di bella presenza e pochissime parole: ispirava fiducia. Lo presi convinto di aver fatto un affare per la mia società. Alla prima mostra Balocco fu subito inserito tra gli effettivi. Anche grazie alle mie note gli fu affidato, come primo incarico, un compito di rilievo e rappresentanza: doveva essere la prima persona che i visitatori ed espositori incontravano entrando in fiera. Una sorta di biglietto da visita. E così quando la mostra aprì i battenti cominciai il solito giro d’ispezione. Mi accompagnava il mio diretto superiore. Quando giungemmo nei pressi dell’ingresso Giulio Cesare il nostro sguardo fu rapito da un assembramento selvaggio. Ci avvicinammo per cercare di capire di cosa si trattasse. Intorno al nostro Balocco si accalcavano decine, forse centinaia di persone, in cerca d’informazioni. E con grandissimo sgomento ci accorgemmo che il nostro uomo, paonazzo in viso e tartagliando furiosamente, cercava di districarsi in mezzo a quella folla rumoreggiante. Ad un tratto ci parve anche che, nella foga della balbuzie, si fosse staccato un pezzo di lingua a morsi e, dopo averla raccattata in terra, se la fosse messa opportunamente in tasca. Il mio superiore mi guardò di traverso e mi disse: “L’hai assunto tu quello là, vero?”. Abbassai il capo e mi limitai ad annuire come un penitente trappista. Il fatto era - come ci spiegò egli stesso - che in condizioni di calma e tranquillità il poveretto non aveva alcun problema e riusciva a controllare quel suo leggero difetto. In caso contrario la faccenda diventava esplosiva. Provvidi senza perder tempo alla sostituzione: Balocco fu spedito sul tetto del Portello, là dove c’era - oltre ad un sole spietato - un posteggio, un parcheggiatore serbo-croato e pochissimo contatto con il pubblico. Dispiaceva, ma dovevamo pur sopravvivere. Ecco tutto questo per dire che forse avevano ragione i nostri vecchi: “Per conoscere veramente una persona devi mangiare insieme sette anni di sale”.

lunedì 29 ottobre 2012

L'ora legale..., ma ci conviene?

Durante l’ultimo fine settimana è tornata l’ora solare. E’ da quando ho l’età della ragione che questo avvenimento semestrale mi causa profondi sconvolgimenti, associati spesso a feroci extrasistole maligne. “Oddio, bisogna cambiare l’ora…? Le lancette avanti…, le lancette indietro…? Ma quindi si dorme un’ora di più o di meno…, bah e chi può dirlo? Si, d’accordo…, ma la sera farà buio prima o dopo…? E al mattino? Mi sveglierò che c’è già il sole, o saremo precipitati in un crepuscolo post-atomico?”. Ecco, queste domande mi hanno sempre angosciato tremendamente, ed ancora oggi non sono del tutto convinto di aver capito esattamente come funziona tutta la faccenda. Si dice da sempre: “Tutto ciò è necessario perché si risparmia sulla bolletta energetica”.
Giustissimo, in epoca di crisi e di profonda recessione economica, è più che sacrosanto ridurre le spese. Ebbene, sapete quanto abbiamo risparmiato in questo semestre? Ce lo dice Terna: “Durante il periodo di ora legale l’Italia ha risparmiato circa 102 milioni di euro”. 102 milioni di euro? Tutto qui? Sfasamento del sonno, alterazione dei ritmi biologici, preoccupazioni, difficoltà digestive, aerofagia, aggiornamento dei sistemi informatici, sveglie, orologi, termostati…, e tutto questo per questa cifra miserrima? Ma stiamo scherzando? Tanto per dare qualche cifra, pare che le elezioni anticipate in Lombardia costeranno qualcosa come 50 milioni di euro…! Ma poi avete mai provato a fare un giro di notte per il centro di una qualsiasi metropoli? C’è più luce di un mezzogiorno d’agosto. Alcuni indossano perfino gli occhiali da sole. Banche, negozi, uffici, supermercati, non c’è finestra o vetrata che non diffonda una luce violentissima. Che ti viene da chiederti: “Ma a cosa cavolo serve tenere accesi tutti quei neon, quelle lampadine, quei faretti? Ci sarà qualcuno che lavora dentro quei locali?”. La risposta ovviamente è no. L’unica luce perennemente accesa di notte - a buona ragione - era quella di Palazzo Venezia a Roma, durante gli anni della guerra. Pare che dentro ci fosse un omino buffo che non dormiva mai - al massimo riposava - e che, mentre gli italiani ronfavano nei propri letti, vigilava sul sacro suolo patrio. Ecco, a parte questo esempio preclaro della storia, se partissimo da qui con il risparmio energetico? Cioè con lo spegnere le nostre città di notte. Oltretutto potremmo correre seriamente il rischio di accorgerci che lassù, sopra le nostre teste e sopra le nostre vite, esiste una volta blu notte, trapunta di gemme brillanti…! Che poi non riesco neanche a capire il senso di “dormire un’ora in più” alla domenica. Fosse che l’ora solare scattasse tra domenica e lunedì, e che quindi al primo giorno lavorativo effettivamente avessimo un’ora in più da dormircela. Ma la domenica, giornata già consacrata al riposo? A che mi serve la possibilità di restare a letto un’ora in più quando già mi sveglio alle undici. E solo perché c’è da portare fuori il cane a pisciare. L’obiezione è: “E bravo, così sai che macello si creerebbe con il lavoro, considerato che almeno la metà degli italiani ancora non hanno capito se le lancette vanno spostate avanti o indietro…”. Giusto. Ed in effetti, tempo fa, quando lavoravo in fiera (le manifestazioni si accavallavano sempre sulla domenica), si verificavano sempre problemi di questo genere. Nonostante negli uffici fossero affissi manifesti giganti che avvisavano dell’imminenza del cambio dell’ora. Niente da fare, c’era sempre una nutrita pattuglia di refrattari ai cambiamenti…! C’era qualcosa di assolutamente scientifico nei loro errori. Molti, a dire il vero, ne approfittavano biecamente, questo pure è da dire. Ma nella maggior parte dei casi gli sbagli erano del tutto involontari. Ad ogni modo, l’episodio che più ha colpito la mia immaginazione negli anni fu quello che vide protagonista mio padre. Siamo verso la fine degli anni ’70, stazione ferroviaria di Sesto san Giovanni. Presso l’ufficio “piccola-grande velocità” tra gli altri colleghi c’è anche tale Pietro, detto Pietruzzo in antitesi con la sua mole esagerata. Questi era un uomo per bene, gran lavoratore, buono come il pane. Aveva un unico difetto però: era di una voracità agghiacciante. Qualsiasi alimento tra le sue fauci affamate scompariva sempre in pochissimi secondi: non masticava, beveva…! E così con gli anni il povero Pietruzzo cominciò a soffrire di pressione alta, colesterolo alle stelle, trigliceridi fuori controllo. Per farla breve, poco più che quarantenne un ictus devastante lo fulminò senza che neanche se ne potesse accorgere. Tra i colleghi ci fu un cordoglio unanime e profondo, tanto e tale era l’affetto e la stima che nutrivano nei suoi confronti. Furono fissati i funerali. Quella domenica mattina mio padre si vestì di nero totale, e si avviò verso la casa di Pietruzzo, dove era stata allestita la camera ardente. Salì le scale dello stabile ed entrò nell’appartamento: la porta era aperta. Non c’era praticamente nessuno, solo un paio di persone che non conosceva erano sedute e chiacchieravano fitto fitto tra di loro. Cominciò ad insospettirsi e così decise di dare un’occhiata in giro alla ricerca della cassa. Girò tutte le stanze, una per una. Niente di niente. Tornò verso l’ingresso: i due tizi lo guardavano perplessi. Egli li fissava, a tratti abbozzava un’espressione contristata, seguita da un accenno di sorriso che voleva significare: “E già…, sono sempre i migliori che se ne vanno…”. Nessuno parlava però. Mio padre era in preda ad una curiosità lancinante: “Dove sono tutti, dov’è il morto?”. Ad un certo punto ruppe il silenzio: «Scendo un momento solo…, ritorno subito». I due tizi seduti si guardarono in faccia ancora più perplessi e non risposero una parola. A questo punto, scendendo le scale, era nel marasma più completo. Una volta in strada cominciò a dubitare del fatto che fosse proprio quella l’abitazione di Pietruzzo. Poi però pensò a quante volte era andato a trovarlo, quante volte aveva svoltato quell’angolo ed era salito su per quelle scale. No, la casa era quella, non c’erano dubbi. C’era da impazzire. A quel punto pensò anche di aver sbagliato giorno. Fermò per strada un vecchietto e gli chiese a bruciapelo: «Scusi, che giorno è oggi?». E questi, guardandolo come si guarda un malato di mente furioso, gli rispose: «Non me lo ricordo…, abbia pietà…». Si accese una sigaretta e pensò di attendere in strada: prima o poi si sarebbe fatto vivo qualcuno. Trascorse oltre mezzora. A questo punto era davvero un mistero. Ritornò su in casa e questa volta non diede neanche uno sguardo a quei due farabutti. Cominciò una ricerca forsennata in tutte le stanza, ispezionò ogni anfratto, ogni angolo dell’appartamento. Per non lasciare niente d’intentato decise di cercare la cassa anche negli armadi e nei cassetti. Niente, neanche il più piccolo indizio. E così, mentre prono guardava sotto il letto, ultimo disperato tentativo, uno dei due tizi gli si avvicinò e chiese: «Senta giovanotto, ha perso qualcosa?». Al che mio padre gettò la maschera e si qualificò come collega del morto. «Guardi che lei è in leggerissimo ritardo sa… - rispose l’uomo beffardo - . L’hanno portato via più di un’ora fa». Mio padre cadde dalle nuvole: «Ma scusi, il corteo non doveva muoversi alle dieci?». «E lo ha fatto…, puntualissimo». Mio padre guardò l’orologio: segnava le dieci e dodici minuti. Avvicinò l’orecchio al quadrante: il ticchettio c’era. «Senta, abbia pazienza, che ora fa il suo orologio?». «Le undici e un quarto. A quest’ora saranno già al cimitero per la tumulazione». Ringraziò e ridiscese. Non aveva l’automobile e il cimitero era molto distante. Tornando verso casa provava strane sensazioni: era come se si trovasse su una nave che beccheggiava al vento di libeccio. Si tolse quegli abiti scuri e si mise comodo. La moglie cominciò a fargli alcune domande sulla cerimonia. Egli non rispondeva, lo sguardo assente. Poi tutto d’un tratto lei disse: «Ah, per fortuna che ha chiamato mia sorella e mi ha avvisato dell’ora legale…! Dobbiamo rimettere gli orologi». Al che egli aprì la bocca, occhi pallati e sguardo di stupore definitivo. La moglie si accorse di quell’espressione: «Che hai? ». «Niente, niente - rispose lui - la prossima volta cerchiamo di stare più attenti». Ecco, per tutte queste ragioni ritengo che l’ora legale andrebbe definitivamente cancellata.

venerdì 26 ottobre 2012

I sogni muoiono all'alba..​.

A proposito dell'ultimo post, mi è giunta or ora una splendida mail da Salvo. Ve la giro così come mi è arrivata: «... ma pure alle 18,30 di un giovedì pomeriggio. Entro baldanzoso nella nostra aula e la mia bella Caritatina è già seduta, e sta chiaccherando con un'altra del gruppo. Resto un attimo indeciso, la saluto con un cenno del capo ma il posto vicino a lei è troppo defilato nell'angolo, con tutte le sedie ancora vuote a disposizione sarebbe un gesto troppo dichiarato per la mia congenita discrezione... Così mi siedo al solito posto, con un pò di rammarico, sul lato opposto al suo, ma quando la stanza è quasi piena entra un pirla di ritardatario e gli si piazza di fianco. E mentre scorrono gli argomenti del giorno (la Rete e le sue applicazioni) scopro che la fedifraga riserva a lui gli stessi atteggiamenti e gesti avuti con me lunedì.. E lui quant'è arzillo! Interviene nelle discussioni, e fa battute salaci, il tacchino! Così - per vendicarmi del mondo intero - alla domanda "cosa vi trasmette il termine "Rete"?" in totale dissenso con la platea che elenca estasiata i soliti luoghi comuni (la rete che raccoglie, che unisce, che connette, etc." mi sporgo dallo scranno e scandisco con voce ferma "Oggi mi sento negativo, per me la Rete è costrizione, prigionia e mancanza di libertà". Silenzio generale, poi la relatrice mi fissa sorpresa, alza un dito ed esclama "Interessante! Questo è un aspetto da sottoscrivere, da non trascurare affatto!"... L'episodio mi rinfranca, ora guardo alla ninfetta con sicurezza e superiorità, e alla fine esco più allegro di quando ero entrato. E' andata male, ma come dici tu "quel che conta è provare di nuovo quel friccico al cuore..."».

La solitudine accorcia la vita

Un tempo una reclame sosteneva che una telefonata allunga la vita. E probabilmente, al di là della speculazione pubblicitaria di specie, il concetto di base non era del tutto sbagliato. Stando infatti ad uno studio congiunto delle Università dello Utah e della Carolina del Nord, pare proprio che le relazioni umane siano alla base della longevità e del buon vivere. “Gli amici e le persone di supporto possono rendere la vita più facile ogni giorno - sostiene Burt Uchino, coordinatore dello studio - , possono incoraggiare anche le pratiche per avere una migliore salute, come consultare un medico o fare più esercizio. Possono anche aiutare indirettamente, facendoci credere che si ha qualcosa per cui vivere. Avere relazioni sicure e sentirsi amati fa vivere meglio le persone”. I ricercatori, basandosi su 148 studi effettuati in un arco temporale di trent’anni, e che hanno preso in esame più di 300 mila persone, ritengono che una corretta vita relazionale implichi un’aspettativa di vita di 3,7 anni in più rispetto a chi vive una vita solitaria.
Le persone sole, stando a questo studio, avrebbero un tasso di mortalità paragonabile a quello degli alcolisti; mentre allacciare nuove relazioni apporterebbe gli stessi benefici di smettere di fumare. In effetti, basta pensare a quegli uomini anziani che rimangono vedovi dopo una vita passata con la moglie: nella quasi totalità dei casi la loro condizione di vita precipita repentinamente, fino a che non sopraggiunge la morte. Cosa che però non è speculare a parti invertite. In generale, alla morte del marito, la vedova quasi all’istante rifiorisce. Affrancata finalmente da cotanto “rompicoglioni”, ella ricomincia a vivere, a frequentare amiche e amici, pranza e cena all’ora che più l’aggrada, dorme serenamente senza doversi più sorbire ronfate e flatulenze selvagge del defunto. In generale la dipartita del congiunto per la donna è quasi sempre una grande liberazione. Per l’uomo invece, come detto, la faccenda è alquanto più complicata. Tempo fa un mio lontano parente rimase vedovo. La vita coniugale, durata oltre trent’anni, non era stata per niente facile, tutt’altro, ma dopo tutto quel tempo in cui l’esistenza era stata duale, ritrovarsi solo l’aveva messo estremamente a disagio. Tanto e tale era lo sgomento di dover fare conto soltanto su se stesso, che per lungo tempo il pover’uomo rimase come paralizzato. Se entrava in un supermercato girava senza meta e usciva a mani vuote; si vestiva di tutto punto, ma appena in strada non sapeva dove andare; telefonare a qualcuno? Si, ma a chi. I figli? No, i figli hanno la loro vita a cui pensare. E così, giorno dopo giorno, la solitudine lo consumava. Un giorno un’amica della moglie - anch’ella vedova - , impietosita fino alle lacrime per la sorte di quell’uomo disperato, gli fece visita, portandogli un graditissimo regalo: una seppia imbottita, cucinata al forno con tutti gli odori mediterranei. Manicaretto per il quale egli andava letteralmente pazzo. Terminata la visita, mani nelle mani, la donna gli parlò accoratamente: “Gennaro, amico mio…, tu non puoi stare solo…, tu fai la moruta…!”. Volendo intendere che sarebbe morto molto presto se fosse rimasto solo. Gennaro rifletté a lungo su quella frase ed alla fine trasse la sua conclusione: “Le proporrò di sposarmi”. Ovviamente non aveva capito nulla. L’interesse di quella donna era puramente umanitario. E così costei rifiutò cortesemente. Gennaro però non si dette per vinto e cercò nuovi orizzonti. In fin dei conti si trattava pur sempre di sopravvivenza. Quell’estate una famiglia numerosissima di tedeschi di origine italiana prese in affitto una casa accanto alla sua. Egli viveva da tempo in una località balneare. E così prese a scrutare attentamente quella composita famigliola. C’erano giovani donne, uomini, bambini, qualche anziano (ma non troppo). E dunque subito cominciò a fare le associazioni: “Allora, quel bifolco sta con quella ragazza…; quell’altra dev’essere la moglie di quel personaggio insulso…; quello con la testa grossa è il padre della bimba bionda; la rossa… E la rossa, con chi diavolo se l’intende?”. Ecco il trampolino. E così Gennaro, iniziò a dimostrarsi estremamente cortese e disponibile con i forestieri. Il suo intento era entrare nelle grazie del gruppo per poi puntare dritto all’obiettivo. Se non altro per capire se c’era materia sulla quale lavorare. Se al burbero serviva un cacciavite glielo prestava senza che questi glielo chiedesse; se alla giovane mancava del latte per il pargolo, pronti un bel litrozzo alla bisogna. Fatto sta che nel giro di pochi giorni il buon Gennaro venne accolto come uno di famiglia. Col tempo, e per farla breve, il nostro eroe entrò nelle grazie della “rossa”, separata da tempo dal marito e matrona della famiglia. A quel punto lasciò tutto e tutti, senza alcun rimpianto, e si trasferì a Dusseldorf. Qui trovò un ambiente straordinariamente pieno d’affetto e amore, e rifiorì completamente. Nonostante il clima decisamente meno accogliente rispetto alla sua riviera. Oggi Gennaro è un uomo se non felice, almeno contento. Perché in fondo ora c’è qualcuno che fa testimonianza della sua esistenza. E la vita, nonostante tutto, ancora gli sembra degna di essere vissuta. «Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico» (Ermanno Olmi).

giovedì 25 ottobre 2012

Vuoi conquistare una donna? Regala dei fiori.

Uno studio condotto dall’Università della Bretagna del Sud - e pubblicato su Psychology Press - ha scoperto che per convincere una donna a cedere a una proposta galante basta corteggiarla in un giardino, su un balcone, in una serra, anche in un negozio. Purché nei paraggi ci siano dei fiori. Per raggiungere questi mirabolanti risultati, l’equipe di studiosi guidati dallo psicologo Nicolas Gueguen, hanno rinchiuso 46 giovani donne in due sale in cui veniva proiettato un video nel quale un uomo parlava di se. Metà di costoro si trovavano in una saletta adorna di fiori, l’altra metà in una completamente spoglia. La quasi totalità del primo gruppo a domanda rispondeva di trovare l’uomo del video molto attraente. Nel secondo gruppo invece solo la metà delle ragazze rispondevano affermativamente. Ma siccome gli studiosi alle volte sono tignosi, hanno pensato bene di compiere un secondo esperimento: a cinque attori - perlopiù bellocci, s’intende - è stato chiesto di fermare delle giovani per strada, in prossimità di fiorai o altri esercizi commerciali, per proporre loro un appuntamento galante. Ed anche qui il risultato è stato strabiliante.
Come prima cosa occorre rilevare che nessuna delle abbordate ha reagito con uno schiaffone a tutto braccio. Il che è già un gran bel risultato date le premesse. E poi la ricerca ha appurato che i maggiori risultati, in termini “acchiappeschi”, si sono ottenuti, come volevasi dimostrare, davanti ai fiorai. Scarsi invece i successi registrati davanti alle macellerie, alle pescherie e alle botteghe dei ciabattini. Perbacco, verrebbe da commentare. “I fiori sono da sempre associati all’amore, quindi è probabile che ben predispongano la donna” - argomenta Richard Wiseman, psicologo dell’università dell’Hertfordshire, famoso per le sue ricerche sulla scienza dell’attrazione. “E’ lo stesso meccanismo inconscio che scatta quando sentiamo parlare di vecchiaia: automaticamente subito dopo camminiamo più piano. Ma secondo Wiseman la spiegazione, per i fiori, è ancora più complessa: “Profumano, sono belli, mettono di buon umore. E quando ti senti di buon umore sei più creativo, socievole, generoso e predisposto a trovare qualcuno attraente”. In altre parole, volendo generalizzare, l’ambiente e le situazioni condizionano i nostri comportamenti. Per esempio, anni fa il mio amico Andrea C. fu operato per una ciste anale. Quando andai a trovarlo aveva già ripreso a camminare, ma la sua, capirete, era un’andatura non proprio perfetta. Un passo dietro l’altro, incedeva lentissimo, e come se avesse nella parte posteriore delle mutande una trota salmonata. Non ci misi molto, senza accorgermene, a prendere la sua stessa andatura: passeggiavamo braccio sotto braccio lungo il corridoio dei lungo-degenti, ondeggiando come navi al vento, e sostenendoci reciprocamente. Quando poi Andrea, che era ancora mezzo rincoglionito per effetto dell’anestesia, si accorse che la mia era una presa per il..., per i fondelli, mi rimbrottò aspramente. E ci mancò poco che mi mandasse via a badilate. Anche, e soprattutto, perché metà ospedale ci guardava e rideva. Ma tornando ai fiori e a questa esimia ricerca, mi torna in mente un episodio della mia gioventù. In compagnia c’era un tale di nome Alberto. Era davvero un personaggio, amava i Beatles e un po’ anche i Rolling Stones, andava in giro con una Bentley del ‘63, vestiva alla moda inglese. Insomma, era un vero dandy. Un periodo si mise in testa di conquistare il cuore di Flora, una ragazza di qualche anno più giovane di lui. I due si frequentarono per un periodo grazie alle uscite di gruppo. Flora a dire il vero non aveva grande interesse verso di lui, ben altri erano i suoi obiettivi. Ad ogni modo, sapete com’è l’animo umano - soprattutto quello maschile - ad Alberto bastava uno sguardo, una pacca sulla mano, un sorriso per girare ore e ore di lungometraggi nella sua testolina. E così, un bel giorno, Alberto si armò di buone intenzioni e scese in strada. Aveva indossato la sua camicia più croccante, scarpe di cuoio inglese finemente lavorate, Acqua di Colonia a litri. Si fermò dal fioraio all’angolo e cominciò ad aggirarsi spaesato tra gigli e violette. Il bottegaio si offrì di aiutarlo proponendogli diverse soluzioni. Niente, non c’era niente che lo soddisfaceva. Dopo circa novanta minuti abbondanti finalmente la porta del fioraio si aprì: ciò che ne sortì era qualcosa di molto prossimo ad una serra ambulante. Un’enorme massa di inflorescenze adorne di rose rosse scarlatte - gambo lungo - lo ricoprivano completamente e ad ogni passo il disgraziato rischiava di schiantarsi al suolo. Non ci volle molto perché i passanti si accorgessero di quello strano fenomeno. Qualcuno cominciò a seguirlo per la curiosità. In breve una folla di perdigiorno e sfaccendati si mise alle sue calcagna. Alberto si era accorto di tutto ma faceva finta di niente. La notizia si sparse a macchia d’olio per la città e così anche noi, suoi amici più stretti, ci precipitammo alla processione. La scena era veramente agghiacciante. Come Dio volle, Alberto riuscì a raggiungere l’abitazione di Flora e citofonò. Lei si affacciò e vide quella gran folla intorno a tutta quella verzura. Pensò subito con gran sgomento che si trattasse di una cerimonia funebre. Poi però vide Ghigo, Marco, Tommaso e altri che si schiantavano dalle risate poco discosti dalla ressa. Al che realizzò. C’era da vergognarsi da qui a Ferragosto del 2020. Aprì il portone e disse a Alberto di salire. Questi fece una fatica oscena, non solo ad entrare tra le strette porte a vetri, ma anche a tenere fuori quei farabutti che gli stavano alle calcagna. Dovette agire con molta risolutezza, non risparmiando calci e sputi tra gli occhi. A quel punto, visto che in ascensore non ci entrava, fece tutto a scale, fino al sesto piano. Già al terzo però sentiva delle strane voci..., voci angelicate che parlavano di luoghi in cui scorrevano fiumi di latte e miele. Quando giunse al pianerottolo giusto Flora lo stava aspettando davanti alla porta d’ingresso: aveva le braccia incrociate e lo sguardo severo. Provarono a far entrare in casa quel bosco spinoso, ma non ci fu verso. E quindi venne deposto fuori casa. Flora commento: “A quello..., ci pensiamo dopo...”. Ad ogni modo Alberto fu fatto accomodare in salotto, e davanti ad una tazzina di caffè semifredda, ascoltò attentissimo le parole di Flora. Non aveva capito letteralmente un cazzo. Fu congedato dopo pochi minuti, accompagnato dalle solite parole di rito: “Sono molto lusingata...”; “Mi fa molto piacere che tu abbia pensato a me...”; “Sarei ben felice di accettare la tua proposta se...”. Insomma, per farla breve, un randellata mostruosa tra capo e collo. Ridiscese in strada velocemente. La folla si era diradata e solo gli amici restavano ad attenderlo. Scrutando il suo volto affranto, non gli dissero neanche una parola ed anzi lo presero sottobraccio e si avviarono verso il solito bar. Dal balcone Flora gli gridò: “Alberto, e il tuo mazzolino di rose?”. Al che questi rispose sottovoce: “Ma va a dar via i ciap, stronza”.

mercoledì 24 ottobre 2012

Il Paese degli "irresponsabili"

Un paio di giorni fa il Tribunale dell'Aquila ha emesso la sentenza di condanna nel processo che vedeva alla sbarra i presunti responsabili delle morti causate dal terremoto, che ha colpito l’Abruzzo nell’aprile 2009. Era una decisione molto attesa, non solo ovviamente dai familiari delle vittime, ma anche dall’opinione pubblica. Oggi - a bocce ferme - si leggono i commenti dei personaggi più svariati su tutti i giornali, commenti estremamente critici nei confronti del giudizio. Si fa veramente fatica a trovarne uno, non dico a favore, ma neanche possibilista. I dubbi? Banditi completamente. Ci sono i soliti “Soloni”, sapientoni tuttologi, che sproloquiano di qualsiasi argomento, da come si cucina la pajata in umido alla teoria della relatività. Non possono mancare poi i politici, le autorità di ogni ordine e grado e le istituzioni (che però insistono - molto opportunamente - sulla necessità di abbassare i toni). Mancano fino ad ora all’appello le opinioni dei calciatori e delle veline. L’Italia tutta è in trepidante attesa. E cosa dicono nella sostanza tutti costoro? Semplice: la scienza non si processa. Qualcuno ha paragonato la sentenza dell’Aquila niente meno che ai processi della Santa Inquisizione, quelli che condannarono Giordano Bruno e Galileo Galilei. Certo messa così, la faccenda si presta a facili interpretazioni e distorsioni. “Nessuno può prevedere l’arrivo di un terremoto”.
Ovvio. Questa è stata la difesa degli esimi studiosi. In realtà la sentenza si basa proprio su questo argomento: dato che la scienza non è in grado di prevedere un terremoto, e soprattutto l’entità dello stesso, perché alla vigilia dell’evento, le autorità, basandosi su ben due comunicati diramati dalla Protezione Civile, hanno rassicurato la popolazione, a tal punto da convincerla a tornare nelle proprie abitazioni? Ecco, è per questa ragione che sono state irrogate le condanne, non perché gli scienziati non siano stati in grado di prevedere il terremoto. Come posso dire a qualcuno “stai bel tranquillo che non succede niente” se non sono in grado di prevedere ciò che accadrà. Che faccio, tiro a indovinare? Confido nella buona sorte? Accendo qualche cero alla Madonna di Loreto. Il Fatto Quotidiano riporta un’intercettazione telefonica di Guido Bertolaso, allora responsabile della Protezione Civile, in cui si legge: “Li faccio venire all’Aquila o da te - parla con Daniela Stati, assessore regionale abruzzese alla Protezione civile - o in Prefettura, decidete voi, a me non frega niente, di modo che è più un’operazione mediatica, hai capito? Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti diranno: è una situazione normale, sono fenomeni che si verificano, meglio che ci siano 100 scosse di 4 scala Richter piuttosto che il silenzio, perché 100 scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa, quella che fa male”. Ecco, l’idea era quella di tranquillizzare la popolazione, di rassicurare, di placare i mass media. Su quali basi scientifiche? Bah…, mistero della fede. A quel punto avrei accettato di più che il comunicato avesse detto: "Sentite un po', qua non vi possiamo dire niente di certo. Dunque arrangiatevi". Se non altro ognuno avrebbe agito secondo il proprio discernimento. Leggendo di questi argomenti mi è sorta spontanea una considerazione: sull’Italia grava e graverà per sempre, tra le tante disgrazie, una condannata sopra ad ogni altra: la sciagura del “Capo in fuga”. Presidenti, comandanti, generali, tenenti, sottotenenti, mezzi-marescialli, responsabili (o meglio irresponsabili) che non solo non accettano le proprie responsabilità e quindi ne pagano le conseguenze. Ma soprattutto che le negano a priori e posteriori, e si mettono in fuga da esse. Crolla il regime fascista, firmiamo l’armistizio e i tedeschi s’incazzano? Bon, il Re se la da a gambe levate. Si ribalta la nave? Il comandante s’infila come un topo di fogna nella prima scialuppa. Lo Stato affonda sotto una valanga di debiti? Colpa della crisi del 2008 e un po’ anche di quella del ‘29. Viene giù il mondo intero e restano sotto le macerie centinaia di persone? E che volete da me, non sono mica il Mago Otelman. Ecco, è questo quello che indigna: il fatto che allo scempio, al disastro non corrisponda mai un responsabile. Come si può sopportare tutto questo, come può una persona continuare a vivere la propria esistenza, sapendo che in base ad un proprio gesto, parola, o altro, molte persona hanno perso la loro vita. Persone che quella notte si sono messe il pigiama, e si sono infilate nei loro letti, perché lo Stato vigilava sulla loro incolumità…! Per molto meno ci sono persone che ritengono poco dignitoso continuare a vivere e quindi si aprono il ventre con una katana. A noi basterebbe che qualcuno, una volta tanto, dicesse: “Ok, l’ho fatta grossa. Chiedo scusa a tutti e mi ritiro”. Ma per fare ciò non dovremmo essere il Paese che siamo. Viva l’Italia. leggi l’articolo su Il Fatto Quotidiano

martedì 23 ottobre 2012

La caduta degli dei

E così, alla fine di un lungo iter processuale, la giustizia sportiva ha emesso la sua sentenza: l'Unione ciclistica internazionale (UCI) ha deciso di uniformarsi alle decisioni dell'Usada - l'agenzia antidoping statunitense - e dunque Lance Armstrong, il più grande corridore dell'ultimo ventennio, e sicuramente uno dei più forti della storia, perderà non solo i sette successi al Tour de France, ma tutti i titoli conquistati in carriera dal 1998. Ed è probabile che gli venga chiesta anche la restituzione di tutti i premi, economici e non. Una vera damnatio memoriae. A dire il vero l'ombra del doping era stata avanzata in diverse circostanze, e per gran parte della sua lunga carriera, ma mai si era raggiunta la certezza che quei risultati sportivi fossero effetto di un tale frutto avvelenato. Ora tutto è cancellato, tutto è perduto, l'onore sopra ogni cosa. Questa vicenda mi fa pensare al mio avvicinamento al ciclismo. In fondo ci si avvicina ad uno sport soprattutto perché ci facciamo travolgere dal mito del campione, dell'eroe osannato, faro dell'Umanità. Siamo alla fine degli anni 90' e il mio collega - e amico - Marco, che in gioventù era stato un discreto sprinter, aveva coinvolto me ed altri in questo sport. Alcuni acquistarono una bicicletta nuova, altri riattarono quella di un qualche parente, e via sui pedali.
Le nostre erano uscite per lo più domenicali su per i colle brianzoli. Uscite da pensionati verrebbe da dire. Verrebbe da dire per chi non conosce i pensionati che vanno a correre sulle due ruote. Ci volle poco per capire che quella categoria di veterani andava trattata con molto, ma molto rispetto. Un giorno partii spocchioso e baldanzoso, confidando nella freschezza della mia gioventù, ma già al quindicesimo chilometro stramaledivo me, la bicicletta e tutti quei dannati vegliardi che filavano via sul filo dei quaranta all'ora. Giunsi a casa strisciando su gomiti e ginocchia, sfiancato. Per settimane lasciai la bicicletta appesa al chiodo, meditando di darmi al curling (nel ruolo del portatore di scopetta mi ci vedevo benissimo). Poi col tempo ripresi a correre. Quando a maggio giungeva il Giro d'Italia dalle nostre parti, si decideva di andare a seguire una tappa. Di solito la più impegnativa. E così in quel lontano 1999 Marco ed io optammo per la tappa del Mortirolo. Il campionissimo del momento era Marco Pantani. Qualche mese prima avevo avuto il privilegio di conoscerlo personalmente, presso la fiera di Milano, in occasione dell'Eicma, il salone della bicicletta. Egli veniva dai trionfi dell'anno prima, dalle vittorie al Giro e al Tour. Era all'apice della carriera, osannato e venerato come un semidio. La società per la quale lavoravo si occupava anche di sicurezza e così quel giorno venne organizzato un servizio di scorta per lui. Avrebbe visitato alcuni stand della fiera, tenuto una conferenza, stretto mani, firmato autografi, ma in quella calca di visitatori-tifosi era necessario un minimo di servizio d'ordine. L'entusiasmo che ci accompagnò per tutta la sua permanenza in fiera fu incredibile, la confusione totale. Durammo fatica a contenere tutta quella massa di persone che spingevano per toccare Pantani, per stringergli la mano, per farsi fotografare insieme a lui. Egli si aggirava spaesato, lo sguardo come assente, distaccato. Non c'erano lampi di gioia nei suoi occhi, nè di afflizione o tristezza. Sembrava che la sua mente fosse altrove, lontana. Le ultime parole che pronunciò dal palco della Gazzetta dello Sport furono quelle di risposta alla domanda del giornalista che gli chiedeva quale vittoria di tappa avrebbe desiderato per il prossimo Giro. Ed egli rispose: "Il Mortirolo". Un boato di tifosi accompagnò la sua uscita dal padiglione. E così in quel maggio del '99 Marco ed io salimmo in mattinata verso la vetta di quel passo, transitando da Tirano e poi su da Mazzo di Valtellina. La corsa sarebbe passata nel primo pomeriggio e noi lì avremmo atteso i ciclisti. Fu una delle fatiche più immani della mia vita. Le pendenze erano talmente impegnative e costanti che lasciavano totalmente senza fiato. Giunti a metà salita, vale a dire intorno al sesto chilometro ci fermammo. Era il punto più infame di quella lunga e strettissima striscia d'asfalto che puntava verso il cielo, e qui i ciclisti avrebbero dovuto dare il meglio di loro stessi per prevalere sugli avversari. Ci accampammo a bordo strada e cominciammo a pregustarci lo spettacolo che sicuramente Pantani avrebbe offerto senza risparmiarsi. Intorno a mezzogiorno ci sintonizzammo su Radio-Corsa e solo allora scoprimmo che Pantani era stato fermato alla partenza per ematocrito fuori limite massimo. Fu una delusione che lasciò sgomenti, affranti e senza parole. E così perso il campione ci restarono Gotti, Heras e alcuni altri comprimari e portaborracce. I corridori furono preceduti dalle moto apripista e in brevissimo tempo furono da noi. I primi salivano come se non facessero fatica, solo una smorfia appena accennata di sofferenza e una sudorazione preoccupante facevano intuire l’enorme sforzo a cui si sottoponevano. Gli ultimi invece, opportunamente lontani dalle telecamere, non solo non rifiutavano le spinte dei tifosi, ma anzi le incoraggiavano. Il mio amico Marco, a rischio di un infarto, ne accompagnò una mezza dozzina spingendoli per cinquanta-sessanta metri. Per me invece c’era ancora la delusione, uno sconforto amarissimo che mi inchiodava sul mio pezzettino d’asfalto. Senza il mio idolo mi allontanai col tempo dal ciclismo. Sulla scia di Pantani – cui non fu mai riconosciuto peraltro l’uso di doping per via diretta, ma solo per deduzione – ci furono altri ciclisti travolti da scandali: Basso, Di Luca, Contador più recentemente e tanti altri. Non ci si riusciva ad affezionare ad un campione che subito veniva smascherato il suo imbroglio. Ed ora siamo qui a fare i conti con Armstrong. Parafrasando il Qoelet verrebbe da dire: “Tutto è vanità”. O meglio ancora nella traduzione di Erri De Luca: “Tutto è spreco”. Già, spreco inutile. Tanto affannarsi, tanta fatica, clamore, paginate di giornali, altari, incenso, ribalte mediatiche…, e tutto questo per arrivare dove? Per arrivare alle parole pronunciate da Pat McQuaid, presidente dell’Uci: "Lance Armstrong non ha posto nel ciclismo. Merita di essere dimenticato". Dimenticato dice McQuaid, cancellato dalla memoria: in fondo questo è proprio ciò che più temono i campioni (ma non solo loro, mi verrebbe da dire), ciò contro cui si battono con le loro gesta. Eternare nel tempo il loro nome, per essere sempre vivi. Tutto questo, prima ancora che indignare, fa sorgere una grande tristezza. Perché in fondo tutto ciò, non è che metafora dei nostri tempi, vale a dire la ricerca del successo ad ogni costo, anche facendo ricorso ai mezzi più spregiudicati e truffaldini: sembra di leggere in chiave attuale, tutti gli scandali che stanno travolgendo la nostra società. Mi piace concludere con l’articolo che Giorgio Bocca scrisse alla morte di Pantani, l’ultimo eroe tragico della mia gioventù: “Nella dolente cerimonia si aprono abissi di ipocrisia e una valanga di sragionamenti a pera su quel rapporto ambiguo, ma travolgente fra il campione e la folla. Un rapporto in verità molto semplice, che appartiene alla fisica più che ai venerandi sentimenti dell'amicizia e dell'amore, cioè il ricordo indelebile di quell'ometto che buttava sulla strada la bandana piratesca, si rizzava sui pedali e, come un passero leggero, infilava la muta dei concorrenti e spariva sulle curve dei colli alpini o pirenaici. Uno che volava come tutti vorrebbero” (La Repubblica, 17 febbraio 2004).

lunedì 22 ottobre 2012

Può esserci amicizia tra uomo e donna?

Antico, annoso problema sul quale da sempre dibattono filosofi, sociologi, psicologi, pranoterapisti, cialtroni e fattucchiere, senza giungere ad una conclusione. Oscar Wilde diceva "fra uomo e donna non può esserci amicizia. Vi può essere passione, ostilità, adorazione, amore, ma non amicizia". Ma egli era amante della provocazione, oltre che un tantino misogino, e dunque lo metterei da parte. Scrivo queste riflessioni, non perché solo ora sia giunto ad una conclusione, ma perché una persona con la quale intrattengo uno scambio epistolare quotidiano ed assai piacevole, mi ha messo di fronte, per l’ennesima volta, a questo dilemma. E così, quelle poche certezze che mi ero conquistato a duro prezzo negli anni, sono di nuovo diventati dilemmi amletici. Per avere le idee più chiare (voi mi direte, ma non hai proprio un cavolo da fare? Rispondo volentieri: non avendo hobby devo pur tirare fine serata…), durante il w-e ho fatto una breve ricerca su internet, soprattutto sui blog d’opinione: e la sorpresa è stata sbalorditiva. Alla domanda delle domande la quasi totalità degli internauti, non solo risponde in maniera affermativa, ma dimostrava anche un entusiasmo sfrenato nell’esaltare la potenza, bellezza, spiritualità, sublimità, e chi più ne ha più ne metta, di questo sentimento. Non un briciolo di dubbio, neanche semplicemente abbozzato. L’amicizia tra uomo è donna non solo può esistere, ma è anche tra i sentimenti più forti che esistano nell’intero cosmo. Alla fine, dopo il decimo blog, ho chiuso tutto e me ne sono andato a leggere Maurizio Milani. D’altra parte lo shampoo l’avevo fatto, il Biancosarti già bevuto…, non c’era altro da fare.
Stamane però, aprendo internet, ho trovato un’altra mail della persona di cui all’inizio del ragionamento - molto completo - . E così, dopo aver pensato di archiviare la faccenda, o se non altro rimandare ad altro momento più propizio, sono nuovamente qui a ragionare. O meglio sragiona. A questo punto non potendo vivere nel dubbio, mi si ripropone la domanda. Tempo fa pensavo, senza mezzi termini, che l’amicizia uomo-donna fosse una contraddizione in termini. Ma il mio passato affonda le radici in una cultura - prudentemente parlando - totalitaria. E quindi lo lascerei da parte. Oggi invece, opportunamente riconvertito su posizioni più moderate, ho un’opinione diversa: la mia tesi sostanziale, maturata dopo anni e anni di riflessione ragionata, è che l’amicizia tra uomo e donna possa sì esistere, ma solo e soltanto nella circostanza data che tra i due (o per lo meno in uno dei due) non sussista alcuna attrazione reciproca di tipo fisico. Mi spiego: se in luogo dell’amicizia, o anche come substrato, si innescano dinamiche che hanno a che fare con l’attrazione sessuale, queste ultime prevalgono inevitabilmente sul sentimento dell’amicizia. E così, nella migliore delle ipotesi, si rischia di rovinare il rapporto, se pure questo c’è mai stato in questi termini. E quand’anche, con uno sforzo immane, si arrivasse al compromesso di riconoscere sì l’attrazione (“è proprio una strafica…, ma siamo solo amici”), ma al contempo di dare a questo rapporto il nome di amicizia, beh mi spiace dirlo, ma la prima cosa che mi viene in mente è: ipocrisia. D’altra parte anche Shakespeare sosteneva: “L’amicizia è fedele in tutto, tranne che nei servigi e nelle faccende d’amore”. Così come quei rapporti sentimentali esauriti, nei quali si sostiene che estinto l’amore sopraggiunge l’amicizia. E che amicizia…! Come diavolo è possibile, mi sono sempre chiesto, sostenere una tesi del genere. D’accordo che siamo tutti diversi, ognuno è fatto al proprio modo, tutto giustissimo. Ma com’è possibile degradare l’amore, che è un sentimento totalizzante, al rango di amicizia, sentimento completamente differente, che si gioca su dinamiche del tutto diverse dall’amore. Ritorna sempre quella parola: ipocrisia. Che poi occorrerebbe prima di tutto intendersi sul cosa s’intenda per amicizia: comune modo di sentire e vedere la vita, stessi interessi, cameratismo, goliardia, condivisione di passioni, opinioni, affinità elettive. Cos’è l’amicizia? Forse la vera domanda è questa. La maggior parte delle definizioni che ho trovato dicono ciò che non è: la descrivono partendo dal negare tutto ciò che non è amicizia. Altre dicono ciò che fa, come si manifesta. Nessuna però la descrive nella sua essenza. Max Jacob così scrive: “Le amicizie non sono spiegabili e non bisogna spiegarle se non si vuole ucciderle”. Già, forse è proprio questo il senso: l’amicizia è qualcosa d’irrazionale, non spiegabile. A me basta pensare a quest’immagine: un sentiero, due persone con lo zaino, un mondo da scoprire. Tutto il resto è divagazione. E voi come la pensate?

venerdì 19 ottobre 2012

Il primo volo non si scorda mai

Il Daily Telegraph ha stilato la classifica degli otto aeroporti più pericolosi del mondo. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di striscioline d'asfalto - spesso sforacchiate da talpe agguerrite e nutrie pelososissime - collocate su spiagge, declivi di montagna, oppure al centro di dedali di strade e viadotti trafficatissimi. C'è da prendere paura solo a parlarne. Il primo in classifica tra gli aeroporti più spaventevoli e pericolosi al mondo è il Princess Juliana Airport sull’isola di San Martin nei Caraibi. E' talmente vicino alla spiaggia che spesso alle bagnanti non serve neanche andare dalla parrucchiera per la messa in piega. Il secondo classificato invece pare che sia quello sull'isola di Saba, nelle Antille olandesi: la pista è cortissima, e alla fine di essa c'è uno strapiombo di diverse centinaia di metri. Il pilota, per forza di cose, è un fatalista totale, e quando arriva alla fine delle comunicazione ai passeggeri aggiunge: "Ah, se volete fumare..., fumate pure..., tanto se deve succedere... succede". Il terzo in ordine di spavento è l’aeroporto di Courchevel in Francia: la pista è annegata tra le montagne e in forte pendenza. Qui ai passeggeri vengono distribuiti alla partenza coroncine di rosario e poi s'intonano litanie collettive. Borbottate sottovoce o cantate a squarciagola va sempre bene.
A seguire ci sono gli aeroporti di San Barthélemy (Caraibi), Gibilterra, dell'isola di Barra in Scozia, Tenzing Hillary in Nepal, Funchal di Santa Cruz a Madeira. Chiunque abbia affrontato uno solo di questi ottovolanti, e ne possa raccontare, pare che abbia cambiato radicalmente il proprio modo di vedere la vita. L'85% di costoro si sono rinchiusi in convento. Il 10% ha devoluto tutti i suoi beni pro anima solvendo. Il restante 5% farfuglia frasi incomprensibili all'angolo delle strade. E i parenti quando passano fanno finta di non riconoscerli. Ecco, a parte gli scherzi, la paura di volare è davvero una delle angosce più difficili da superare. Il senso d'impotenza che alcuni avvertono quando ci si chiude dentro quel sigaro d'acciaio con le ali è davvero inquietante. Ci si accorge pienamente di questa apprensione solo e soltanto quando si comincia a "ballare". E da qui alla motilità intestinale più selvaggia è un attimo. E questo in barba a tutte le statistiche che ci dicono di quanto l'aereoplano sia il mezzo di trasporto più sicuro al mondo. Qualche tempo fa scrissi un breve racconto riguardo alla mia prima esperienza su un volo di linea. E' contenuta ne "Il Cialtrone" e questo nè è l'incipit: «Quando ero bambino mio padre decise di farmi un grande regalo in occasione del mio compleanno: "Che ne dici figliolo se andassimo al campo volo di Bresso e ci facessimo un giretto in aeroplano?". Io fui entusiasta e volli andare di corsa al mio primo volo. Il pilota era un ragazzo biondo, simpatico e aveva una valigetta da James Bond ed io mi chiedevo a cosa diavolo gli servisse. "Coraggio giovanotto - disse pimpante - andiamo a fare un giretto". Mi sedetti accanto a lui nell’abitacolo ed in breve eravamo in volo. L’esperienza era forte, ma divertente. Ad un tratto il biondino - che poi seppi essere stato nell’aeronautica militare, nonché ad un pelo dall’entrare nella pattuglia delle Frecce Tricolore - cominciò a fare circonvoluzioni da acrobata: saliva in verticale e poi giù in picchiata; e poi ancora il giro della morte; e per concludere finse di perdere i sensi aggiungendo “prendi tu i comandi, non mi sento bene”. Fu il panico totale e per poco non mi pisciai nei calzoni. Per fortuna lo scherzo durò poco. Quando scesi dall’aereo ero quasi in trance tanto che ancora oggi non ricordo quasi più nulla di quell’esperienza. So semplicemente che da quel giorno in poi preferii usare altri mezzi di trasporto. Arriva un momento però nella vita in cui è obbligatorio affrontare le proprie angosce. E ciò per me avvenne durante la gita aziendale a Valencia. Fino ad allora ero sempre riuscito ad evitare di volare, spesso accampando scuse assurde con familiari ed amici. Questa volta però non c’era scampo: troppo lontana la Spagna per trascorrervi un fine settimana...».

giovedì 18 ottobre 2012

Perché non si riesce a buttare via niente

«L’aut-aut tra avere ed essere non è un’alternativa che si imponga al comune buon senso. Sembrerebbe che l'avere costituisca una normale funzione della nostra esistenza, nel senso che, per vivere, dobbiamo avere oggetti. Inoltre, dobbiamo avere cose per poterne godere. In una cultura nella quale la meta suprema sia l'avere - e anzi l'avere sempre più - e in cui sia possibile parlare di qualcuno come una persona che “vale un milione di dollari”, come può esserci un’alternativa tra avere ed essere? Si direbbe, al contrario, che l'essenza vera dell’essere sia l’avere; che, se uno non ha nulla, non è nulla». Questo è l’incipit di Avere o essere scritto da Erich Fromm. E dunque, essere o avere? Partendo da questa domanda Randy O. Frost e Gail Steketee, clinici tra i massimi esperti in “disposofobia” (accumulo compulsivo) hanno pubblicato da qualche giorno Tengo tutto - Perché non si riesce a buttare via niente (Centro Studi Erickson editore). In effetti, basta dare un’occhiata nelle nostre case per rendersi conto che viviamo praticamente soffocati dagli oggetti. Abbiamo talmente tante cose per le mani che gli astuti designer hanno pensato bene di inventare un altro oggetto per liberarci appunto del superfluo: lo “svuota-tasche”. Dove diavolo lo metto questo? Ma sì, c’è lo svuota-tasche. E giù che si accumula altra robaccia. Ovviamente si tratta di oggetti che nella maggior parte dei casi non ci servono affatto. Merce acquistata senza pensarci, compulsivamente appunto, “perché può sempre essere utile”. Provate ad aprire con occhio distaccato i nostri armadi? Onesti però, basta con le ormai logore frasi fatte, soprattutto femminili, “Oddio, non ho nulla da mettermi”. Non ci crede più nessuno. E i nostri cassetti? Quelli più a portata di mano? Cercate qualcosa di specifico dentro questi ricettacoli di ciarpame? Non ci riuscirete, neanche con un microscopio elettronico. E le magliette da cinque euro, made in China?
Ma si, ne prendo qualcuna in più, tanto a questo prezzo…! E già, fa niente poi che alla prima sudata una dermatite stile “Fuoco di Sant’Antonio” ci fa grattare il culo fino all’Epifania. Siamo ormai immersi così inconsapevolmente in questo sistema consumistico, che non ci rendiamo più neanche conto di quello che facciamo, come viviamo. Siamo arrivati al punto che se non hai, non sei nessuno. Ci identifichiamo, senza accorgercene, con le cose che possediamo. E se dunque posseggo tante cose importanti e costose, sono una persona degna di stima. Terzani sosteneva che l’India non sarebbe mai stata stravolta dal sistema capitalistico-materialista, perché, a differenza dei paesi occidentali, aveva ancora il culto del povero. Questo lo scrisse molti anni fa. Voglio augurarmi che ciò sia ancora vero. Ricordo che da bambino accompagnavo mia madre al mini-market vicino a casa. Passando davanti ad una farmacia, venivo sempre rapito da un’autobotte dei pompieri in legno esposta in vetrina. Ma costava molti soldi, troppi per il portafogli di mia madre. E così, in cambio della promessa di essere buono, ricevevo la garanzia che da lì a breve avrei potuto avere quell’autobotte. Dopo un tempo che a me parve infinito, finalmente ricevetti questo regalo. E fu una gioia immensa, perché quel sogno era durato tanto, e l’aspettativa della felicità era cresciuta con forza dentro di me. Anzi, diciamola tutta, la vera gioia di quel regalo risiedeva tutta nell’attesa, nella speranza, nell’immaginare che prima o poi avrei posseduto quella meraviglia. E’ un po’ il concetto del “Sabato del villaggio”. Ovviamente poi, nel giro di qualche giorno l’autobotte divenne uno oggetto qualunque. Quasi privo di importanza. Ad ogni modo, restava l’idea forte di aver meritato qualcosa e non di averla ottenuta senza impegno e sacrificio. Ecco, bisognerebbe tornare un po’ a quei tempi. Ad ogni modo, se proprio devo essere sincero, anch’io sono malato di “disposofobia”. La mia malattia sono i libri. Ne ho a centinaia, sono ovunque e un giorno o l’altro mi soffocheranno nel sonno, lo so. Ma proprio non ne riesco a fare a meno. Direte, ma perché non ti iscrivi ad una biblioteca, così finito di leggere un volume lo riconsegni. E sì, bravi. E che malato sarei allora. La mia è una mania d’accumulo, una gelosia che non mi consente nemmeno di prestare un libro. Se per esempio, qualcuno a cui tengo mi chiede in prestito un volume, io prendo tempo, e piuttosto che darglielo vado in libreria e glielo compro. Roba da matti, vero. Ad ogni modo se è vera la nefasta teoria dell’identificazione oggetti posseduti-persona, preferisco un libro, piuttosto che un’automobile. Se non altro non ho problemi di parcheggio (salvo esaurimento mensole).

mercoledì 17 ottobre 2012

Alla festa di un amico

E così, tornati dalle vacanze d’agosto, Lorenzo ed io decidemmo di andare a trovare Alessandra e Simona al Lago di Como. Percorremmo tutta la ciclovia dell’Adda in bicicletta e, dopo un’ottantina di chilometri, giungemmo a destinazione. Fu un bel fine settimana, passato di giorno in sella e di sera con le gambe sotto il tavolo. Quasi sempre sbronzi. La domenica pomeriggio salutammo le nostre amiche sul molo d’imbarco di Menaggio. Le ultime parole di Alessandra furono: «Oh ragazzi, ricordatevi che il secondo week end di ottobre dobbiamo andare su da Alfio per il suo compleanno. Ci tiene molto, mi raccomando».
Passarono un paio di settimane: «Oh Lu - era Alessandra al telefono - allora ho sentito Alfio, dice che è tutto confermato. Partiamo con la mia auto venerdì nel primo pomeriggio e alle diciannove siamo a Palmanova. Aperitivo in piazza - a base di Aperol-Spritz naturalmente - e via subito verso Grado per cenetta in riva al mare». L’entusiasmo di Alessandra era veramente incontrollabile. Nelle sue parole vi erano ancora echi di quella gioia e allegria che aveva contraddistinto la vacanza in bicicletta trascorsa con Alfio un paio di mesi prima in Sardegna. Mi feci travolgere dal suo entusiasmo: «Oh Ale, ma alla fine quanti saremo alla festa?». «Dunque, se confermano tutti saremo un centinaio…». «Un centinaio…? Porca pupazza, incredibile…! Ma questo non è un compleanno, questo è un matrimonio». «Eh sì Lu, Alfio ci tiene proprio a questa cosa: per i suoi quarant’anni era da un pezzo che aveva in testa di fare qualcosa di importante. Ci saranno amici d’infanzia, di viaggio, ex-fidanzate - cosa che sinceramente mi secca alquanto… - , parenti e affini vari. Si comincia a bere dalle diciotto…! Prevedo una lunga nottata…». continua a leggere il racconto

Il capo ci sorride? Dimostra che siamo insignificanti

Qualche tempo fa parlavo con un amico che lavorava per un'azienda del settore manufatturiero. Faceva l'operaio e si occupava di stampaggio. Sul luogo di lavoro c'era una rigida separazione, quasi un'apartheid, tra ceto impiegatizio e operaio, che arrivava non solo a dividere fisicamente gli spazi operativi e ricreativi, ma finanche la zona parcheggio. Gli impiegati mettevano l'auto sotto le tettoie riparate, gli operai nello spiazzo all'aperto.
E guai se per caso uno di quest'ultima categoria si azzardava, anche per sbaglio, a parcheggiare tra le auto degli impiegati, rischiava una multa salata - oltrechè una cazziata mostruosa - da decurtarsi sulla busta paga. Quando ad esempio un'impiegata era costretta, per forza maggiore, a fare una comunicazione verbale ad un operaio, entrava nel capannone con la stessa prudenze di un agente segreto del Mossad nel cuore del souk di Teheran. Neanche si trattasse della gabbia dei leoni. A dire il vero, in quell'ambiente-fornace non si poteva dire che ci fossero proprio dei gigli di campo, questo è vero. La comparsa di una donna, anche se di bruttezza rara, scatenava feroci istinti beluini, rincorse di sguardi lascivi e concupiscenti, mezze frasi di rara oscenità, e in qualche caso anche ululati raccapriccianti. Ed infatti la disgraziata incaricata della comunicazione prima di entrare nell'arena, allacciava tutti i bottoni possibili, si "insciarpava" anche al mese d'agosto, e teneva costantemente lo sguardo basso. Ciò non dimeno ogni volta era un putiferio. Un giorno questo mio amico s'invaghi di una di queste sventurate - che chiameremo per comodità Romina - , ma non sapeva come fare per conquistarla. Chiese consiglio ad un collega anziano, che aveva fama di gran tombeur de femme e questi gli disse molto opportunamente: "Scrivile un bel bigliettino e lascialo nella cassetta della posta interna". E così fece. La trovata non sortì effetto. Scrisse un nuovo bigliettino, e poi ancora uno. Niente di niente. Un bel giorno Romina transitò a passo svelto per l'officina ed egli non si fece sfuggire l'occasione. "Perché non rispondi ai miei bigliettini? Eh, forza..., dire...". Romina lo guardò terrorizzata e poi gli rispose: "Ma tu lo sai che io sono fidanzata?". "Questo lo so" rispose lui con occhio innervato da paranoico. "E sai anche che tra due settimane mi sposo?". "So anche questo - rispose d'impulso - e con questo?". "Va beh - concluse Romina scrollando le spalle - , allora amici come prima...". E se ne andò senza salutare. "Amici come prima? - disse ll mio amico risentito - Ma che cazzo dice: non siamo mai stati amici". Dopo un paio di giorni giunse un sovrintendente da fuori. Si chiamava Oldani e tutti lo chiamavano "Signor Oldani" con molta referenza. Vestiva in giacca e cravatta e camminava come se lievitasse sull'aria. Quando si trovava in officina c'era un silenzio di vetro e tutti gli operai erano assai intimoriti.
E se Romina doveva riferirgli qualcosa si recava da lui, senza guardare in faccia nessuno, cominciando a sorridergli la lontano: "Buongiorno signor Oldani...". Per gli operai nemmeno uno sguardo. Oldani era stato chiamato per rendere più efficiente il lavoro d'azienda e non lesinava incontri con le maestranze. Quando un operaio con rispetto quasi ossequioso desiderava dirgli qualcosa riguardo al lavoro, Oldani lo fissava con sguardo serafico, sorridente, come se stesse ascoltando un tenerissimo bimbo di scuola materna. E se la cosa all'inizio poteva apparire gradevole, alla lunga quell'atteggiamento eccessivamente magnanimo e benedicente, si tramutò in fastidio: pareva di assistere all'incontro dell'uomo bianco con il "buon selvaggio". E così in officina cominciò a serpeggiare il malumore. L'unico che rimase senza un'apparente opinione fu il mio vecchio amico. O meglio, un'idea se l'era fatta eccome, e ne parlò con il solito collega esperto. "Sai com'è, ogni volta che Oldani entra in officina..., mi guarda fisso". E questi senza pensarci gli rispose: "Prova a scrivere un bigliettino anche a lui...". L'altro giorno su La Stampa ho letto un articolo che riprendeva uno studio presentato al New Orleans Neuroscience 2012, il meeting annuale della Society for Neuroscience. Da tale ricerca emergerebbe che il sorriso dei "potenti", viene sfoderato soltanto in presenza delle più “insignificanti” persone normali, i sottoposti e così via. E così, riflettendo su questo argomento, mi è venuto in mente che i sagaci operai dell'officina erano giunti a tale conclusione molto prima di questo esimio Dottor Evan Carr, autore dell'importante studio. Viva l'ignoranza...! leggi l’articolo

martedì 16 ottobre 2012

Sei un bevitore abituale? Allora rischi. Anzi no.

Certe volte proprio non riesco a seguire il mondo della ricerca. Certo il progresso degli studi e l'affinamento delle tecniche di ricerca e analisi consentono di aggiornare costantemente le conoscenze dei più svariati campi del sapere. Però leggendo i giornali ci si imbatte quasi ogni giorno in studi che affermano e smentiscono costantemente alcune "verità" date quasi per acquisite. E da ciò ne deriva una confusione magmatica che incrina le più elementari certezze sulle quali basiamo i nostri comportamenti. La dieta vegetariana (o meglio ancora vegana) fa bene o male? Il lunedì leggiamo che è un toccasana eccezionale, ma non facciamo a tempo ad arrivare a fine settimana che salta fuori un superesperto di chiara fama che afferma tutto il contrario.
L'attività sportiva sostenuta aiuta a rimanere "giovani"? A si, certamente dice un esimio primario di medicina dello sport; ma non scherziamo, replica il fisioterapista-osteopata, stressare l'organismo non fa che accorciare le aspettative di vita: niente è più salutare di una sana camminata. Il vaccino anti-influenzale? Non ne parliamo. La mucca-pazza, c'è ancora pericolo? Il buco nell'ozono, che fine ha fatto? La corrente del Golfo? Si può sapere una volta per tutte che cacchio di direzione intende seguire, e se dobbiamo prepararci a vivere sottoterra come le talpe? E poi la domanda delle domande: le mezze stagioni esistono ancora, oppure no? E così nel mare magnum della confusione l'altro giorno ho letto sul Corriere della Sera l'ennesimo dossier che metteva a confronto-scontro studi contraddittori (per usare un eufemismo) sull'effetto che provoca l'assunzione di alcol. Un argomento che, come potete immaginare, mi sta molto a cuore. Alcune ricerche (quelle che più mi piacciono) sostengono che un uso moderato di vino preserva dalle malattie cardiocircolatorie. Altre, al contrario, sostengono l'esatto opposto. Ma io a queste ultime sinceramente credo molto, ma molto poco. Ad ogni modo di certo non mi farò mancare la mia buona dose di vinello giornaliero. Siamo seri, se ci priviamo anche di questo..., che ci resta nella vita...! Ecco come comincia l'articolo del Corriere: "Bere un po' di vino fa bene o fa male? Domanda delicata ma necessaria, vista la mole di ricerche spesso contraddittorie sul tema: durante l'ultimo congresso della Società Italiana di Prevenzione Cardiovascolare, ad esempio, è stato presentato uno studio italiano secondo cui anche un consumo moderato di alcol potrebbe avere effetti negativi sul cuore di persone con fattori di rischio cardiovascolare; nello stesso periodo sull’European Heart Journal è uscita una ricerca Usa che, al contrario, dimostra come chi sopravvive a un infarto e beve un pochino di vino con regolarità abbia una mortalità più bassa continua a leggere

lunedì 15 ottobre 2012

La pubblicità "anima" del commercio...!

Venerdì pomeriggio ero in metropolitana diretto a Piazzale Lotto, dove avevo appuntamento con Alessandra e Simona. Ci attendeva il viaggio verso il Friuli per la festa di compleanno di Alfio. A breve il resoconto dettagliato dell’esperienza. Ebbene, ad un certo punto, quasi volessi cercare una via d’uscita dalla confusione e dalla calca della folla, ho cominciato a guardarmi intorno e a leggere i cartelli pubblicitari. E ad un tratto lo sguardo si è posato su quello di cui in foto. Ho creduto dapprima che si trattasse di uno scherzo e quindi mi sono lasciato andare ad un sorriso che, con i secondi, è divenuto una risata. Una risata molto sommessa naturalmente, date le occhiate severe che mi si puntavano addosso. E sì, purtroppo una persona non è libera di farsi una bella e sana risata senza che chi gli sta intorno non lo prenda per un malato di mente da internare al manicomio navale di Cogoleto. E così ho letto e riletto quel cartello, non credendo ai miei occhi. “Stanchi della solita agenzia funebre?”. E già, in fondo tutti i giorni vi abbiamo a che fare, al mattino dal panettiere e al pomeriggio all’agenzia funebre. Ovvio. “Chiama per un preventivo gratuito”. Ma si, già dovevo passare al Mercatone per cambiare la sala da pranzo, mi faccio fare anche il preventivo per il funerale e non se ne parla più. D’altra parte ti danno anche il tavolinetto col registro firme e l’assistente di conforto. All inclusive.
Veramente incredibile il punto a cui siamo arrivati. Forse il pubblicitario che ha realizzato questi slogan ha inteso dare un senso d'ilarità alla faccenda. In tal caso potrebbe essere anche simpatica ed originale come comunicazione. Ma se così non fosse invece? Cambierebbe comunque poco. Chi guarda con interesse a questo cartello - mi sono detto alla fine - , a meno che non sia un potenziale suicida, di quelli che amano programmare tutto, lo fa evidentemente perché ha qualche parente, affine o conoscente in procinto di defungere. Certo anche la pubblicità che fa business sulla morte può essere in un certo senso utile, nonostante possa apparire di cattivo gusto. Ma poi ho anche pensato a tutte le persone malate, che sono obbligate a prendere i mezzi pubblici. Tutti coloro che non vedono speranze per la loro sofferenza, che hanno la consapevolezza della fine imminente, - o anche semplicemente che attraversano un momento psicologicamente difficile - come si sentiranno leggendo del supermarket del funerale? È pur vero, come scrive Cicerone che non c’è uomo, per quanto vecchio e malandato, che non pensi di poter vivere almeno un anno ancora, però ricordargli che quel tragico evento è pur sempre presente e dietro l’angolo, è veramente terrificante. La nostra società poi, ha talmente poca dimestichezza con la morte, che è riuscita quasi del tutto ad esorcizzarla. E’ scomparsa completamente dal nostro orizzonte, non ci si pensa e non se ne parla più: è un tabù assoluto. Nessuna generazione nella storia dell’Umanità ha mai avuto tanta paura della morte come la nostra. Anche e soprattutto perché ci siamo allontanati dalla Natura, e da tutto ciò che comporta il concetto di seme-frutto-seme (occorre che ci sia la morte del seme perché si abbia la vita). E poi, a fronte di tutto questo terrore della morte, compaiono queste pubblicità. Che ovviamente non riguardano noi che leggiamo…, ma altri. Sempre gli altri. Perché in fondo é proprio l’incertezza che ci permette di vivere, che ci rende tollerabile la vita. E quindi meglio ridere di quel cartello. Perché ridere, come ci insegnava Tiziano Terzani, è il miglior antidoto contro la morte e tutti i suoi speculatori.

venerdì 12 ottobre 2012

L'uomo del destino

Ebbene si, lo ammetto. Ieri mattina, tra l’arresto di un assessore e l’avviso di garanzia ad un consigliere - ormai notizie all’ordine del giorno - , sono stato costantemente attento alla nuotata di Beppe Grillo nello stretto di Messina. Ogni due minuti, scosso da un impulso compulsivo, mi collegavo al sito del Corriere della Sera e vedevo a che punto era. Parte, non parte, il tempo avverso, le correnti…, era tutta un’attesa spasmodica di sapere se il leader del Movimento Cinque Stelle si sarebbe cimentato o meno nella traversata di quei tre chilometri che separano la Calabria dalla Sicilia. Dalle immagini si vedeva una folla di persone con ombrelli e mantelline anti-pioggia che vagava in cerca del “comico” genovese, tutti curiosi - qualcuno in ansia - per quel difficile cimento. Alcuni gli sconsigliavano di tentare, altri lo incitavano…, c’era un clima di attesa incantata, come se stesse per assistere ad uno spettacolo periglioso in cui il beniamino rischia, se non altro l’onore. E così attendevo anch’io, pronto ad entusiasmarmi per il bel gesto dell’eroe. E poi, tutto d’un tratto, eccolo partire tra le urla d’incitamento degli spettatori. Bracciata dopo bracciata Grillo si è allontanato al largo, verso le coste siciliane. Ed io sempre lì dietro il pc a seguirlo, con gli occhi sgranati e le labbra semiaperte.
Sulle barche che gli facevano da scorta c’erano molte persone che gli gridavano consigli, lo incoraggiavano, gli davano ragguagli sulla rotta e le distanze. Il tutto in un crescendo di patos. L’arrivo dall’altra parte dello stretto è stato accolto con urla di gioia da parte di una folla festante. Grillo, toltosi occhialini e pinne, ha fatto il segno della vittoria. E io, come al solito di fronte a questi gesti forti e un po’ retorici, mi sono quasi commosso. Mi direte, ma questa è una dichiarazione di voto. Ebbene sì, lo confesso. Non avrei motivo di nascondermi. Alle prossime elezioni di primavera - e che arrivino il prima possibile aggiungo - il mio voto andrà al Movimento Cinque Stelle. Dopo lunga riflessione e confronto con alcuni amici, espertissimi di cose politiche, mi sono convinto in questo senso. Non disperderò più la mia preferenza su un partito che purtroppo, a dispetto delle mille battaglie per la legalità, non riesce a guadagnare voti. Ed oltretutto continua a scegliere inopinatamente persone che si rivelano degli emeriti farabutti. Occorre dare più forza possibile al nuovo, bisogna cambiare davvero quest’orrendissima classe dirigente, ci vogliono facce nuove, persone svincolate dalle vecchie logiche di partito. In fondo siamo una democrazia…, è giusto che ci sia un ricambio. Gli ultimi sondaggi, ammesso e non concesso che le proiezioni abbiano un’attendibilità data l’enorme quantità di indecisi, danno i “grillini” al 18%. Questo vuol dire, in termini concreti, portare in Parlamento tra gli 80 e i 100 deputati solo alla Camera. Ma che prezzo può avere togliere la sedia dal culo a 100 vecchi arnesi della politica, di quelli che si sono spalmati dalla notte dei tempi uno strato di bostik sulle terga e si sono alloggiati in seduta permanente. Ecco, non fosse che per questo, il mio voto sarà per Grillo, l’ennesimo “Uomo del destino”. Tanto peggio di così…! Auguri.

giovedì 11 ottobre 2012

Il cestino e la società civile

In una società civile il cestino non dovrebbe esistere...” (A.Jacomelli). Ieri pomeriggio, tornato a casa, ho preso la bicicletta e sono andato a fare una bella sgambata nel Parco del fiume Serio che si trova a pochi chilometri da casa mia. All’interno del parco ci sono alcune piste sterrate che seguono il corso del fiume e in diversi punti hanno attrezzato aree di sosta, zone d’avvistamento animali ed altro. Il tutto per rendere più fruibile alle persone la bellezza del parco medesimo. Ebbene ieri me ne andavo felicemente cullato dalle sonorità delle placide acque e dal profumo del bosco già carico di umidità autunnale, quando mi sono imbattuto nell’oggetto di cui in foto. Da lontano all’inizio ho visto solo il coperchio rosso: capirete, in un bosco la presenza di un oggetto così innaturalmente colorato non può che saltare all’occhio. Poi mi sono avvicinato e ho scoperto che si trattava di un cestino per la spazzatura. Orrore a dirsi, un raccoglitore di rifiuti nel fitto di un bosco, lontano dalla civiltà, lontano dalle tratte della nettezza urbana, lontano dagli uomini e dal loro consumismo irrazionale. In un luogo in cui sarebbe - o meglio dovrebbe essere - scontato non gettare alcun rifiuto per terra, qualcuno ha reputato necessario collocarvi un cestino. Evidentemente siamo arrivati al punto di pensare che non possa esistere un’area pic-nic, senza l’immancabile presenza del cestino per i rifiuti.
Avete mai dato un’occhiata al volto dei passeggeri che nei treni cercano disperatamente il portarifiuti? Sono angosciati, pronti a fare il diavolo a quattro col controllore pur di liberare le loro mani da quell’osceno fardello. E non trovandolo, o peggio scoprendolo ricolmo di ogni delizia, sono afferrati dalla voglia di aprire il finestrino e scaraventare il tutto fuori con molta rabbia, modello Fantozzi. Si trattengono non già per un ultimo residuo senso di civismo, ma solo e soltanto per non fare la figura dei vandali maleducati al cospetto degli altri passeggeri (la metà dei quali peraltro hanno i piedi sui sedili). In fondo - pensano molto opportunamente - far finta di scordarsi il rifiuto sotto il sedile è decisamente meno rischioso. E puta caso qualcuno li richiami all’ultimo c’è sempre pronta la risposta: “Come dice scusi? A no guardi, non è roba mia”. Ed ecco quindi il motivo del cestino nel bosco. Tornerò spesso in questo luogo e ne documenterò la storia. Fino a ieri si trattava di un piccolo angolo di paradiso, nascosto, anonimo, ci si passava davanti quasi per caso e senza accorgersi della sua esistenza nel contesto del parco. Da oggi è zona di sosta, affidata alla progredita civiltà…! E per quell’oggetto prezioso dal cappello rosso, che regala un tocco di classe al tutto, anche una robusta catena d’acciaio temperato per scoraggiare i malintenzionati. D’altra parte capirete, leggendo le pagine di cronaca giudiziaria di questi giorni, non c’è granché da fidarsi. Come diceva Antonio De Curtis, in arte Totò, “la prudentia non è mai troppo”. Viva l’Italia.

mercoledì 10 ottobre 2012

On the road

«Così in America quando il sole va giù e io siedo sul vecchio diroccato molo sul fiume a guardare i lunghi, lunghissimi cieli sopra il New Jersey e avverto tutta quella terra nuda che si svolge in un’unica incredibile enorme massa fino alla West Coast, e tutta quella strada che va, e tutte le persone che sognano nell'immensità di essa, e so che nell’Iowa a quell’ora di certo i bambini stanno piangendo nella terra in cui lasciano piangere i bambini, e che stanotte usciranno le stelle, e non sapete che Dio è l’Orsa Maggiore?
E la stella della sera deve stare tramontando e spargendo il suo fioco scintillio sulla prateria, il che avviene proprio prima dell’arrivo della notte completa che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge i picchi e rimbocca le ultime spiagge, e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventare vecchi, allora penso a Dean Moriarty, penso persino al vecchio Dean Moriarty, il padre che mai trovammo, penso a Dean Moriarty». Così termina On the road, il capolavoro di Jack Kerouac, divenuto il manifesto della Beat Generation. Il romanzo, scritto sotto forma di episodi, è ambientato alla fine degli anni ’40 e descrive i giovani del movimento culturale della Beat Generation, in viaggio - in autostop, in auto e in autobus - su tutto il territorio americano. Un viaggio alla riscoperta dei grandi orizzonti, dei grandi spazi della frontiera, come novelli pionieri, in fuga da un modello consumistico che giorno dopo giorno si rivela fasullo e inconsistente. Una lettura quasi obbligata per tutti coloro che come noi amano viaggiare. Domani nelle sale italiane uscirà la trasposizione cinematografica del libro di Kerouac. Tra gli attori principali Kristen Stewart, Sam Riley, Garrett Hedlund, la bravissima Kirsten Dunst, Viggo Mortensen (Il Signore degli Anelli, Appaloosa). Unica avvertenza: non andate al cinema se prima non avete letto il libro. Buona visione. guarda il trailer

martedì 9 ottobre 2012

Il verde perduto delle nostre città

Quando ero piccolo, diciamo in quarta o quinta elementare, tornando a casa da scuola vidi una squadra di operai intenti alla manutenzione degli alberi della via in cui abitavo. Brandivano enormi seghe elettriche e potavano rami e rametti in un rumore assordante. Nell'aria si spandeva un pungente odore di legna bruciata e, nei riflessi della luce solare, volava polvere di segatura. Vedendo quella scena apocalittica, ed essendo già allora un ferocissimo ambientalista, cominciai a sibilare bestemmie atroci all'indirizzo di quella gentaglia che stava tagliando le "mie" piante. Sicuramente - nella mia mente - avevano in progetto di spianare tutto e farci un parcheggio in cemento armato.
Una vecchina udendo le mie imprecazioni cominciò a borbottare litanie e a segnarsi forsennatamente. Entrato in casa poi continuai le mie tremendissime lamentazioni con mamma e papà, e questi mi fecero capire che quei signori non avenano nessuna intenzione di abbattere gli alberi. Li stavano semplicemente potando. Non ne fui per niente persuaso ed anzi, mi armai della mia cerbottana - con i bussolotti con punta d'ago, induriti con la colla vinilica - e mi appostai a pochi metri dai potatori: se solo c'avessero provato gli avrei ridotto il di dietro un colabrodo. Per loro fortuna avevano ragione i miei genitori. Domenica su La Repubblica c'era un articolo che raccontava di quanto verde stiano perdendo le nostre città a causa di malattie, nuovi posti auto e fondi insufficienti. Una città senza alberi è una città più triste, più grigia, meno accogliente ed armoniosa. Ed anche meno sonora. Il rumore del vento tra le foglie è quanto di più bello ci sia in una città strangolata dal traffico...! Senza parlare poi del cinguettio degli uccelli. Possiamo farne a meno in questi tempi di crisi? O volete toglierci anche questi...? "Sempre meno alberi nelle città italiane. Gli abbattimenti aumentano vertiginosamente, le ripiantumazioni sono invece insufficienti, complice anche il profondo rosso delle casse comunali. A Roma, negli ultimi due anni, sono stati sradicati 6.647 esemplari, appena 2.198 sono stati sostituiti. A Palermo, il punteruolo rosso ha decimato 10mila palme, sono solo duemila quelle piantate. Un parassita del legno ha aggredito betulle, aceri, platani e pruni a Milano: 133 gli abbattimenti, la promessa è di seminarne altri. Promesse, appunto. Ma intanto l'Italia butta via il patrimonio arboreo delle sue città continua a leggere l’articolo di Repubblica

lunedì 8 ottobre 2012

Referendum articolo 18

"Nella mia azienda grazie a queste belle leggi liberiste di Monti, Fornero & Co. hanno licenziato tre persone (di oltre quarant'anni di età e di notevole anzianità di servizio). Non era bastato Mister B. e il suo circo. Cosa sta diventando il mondo del lavoro, cosa diventerà questo paese? Cosa si può fare d'altro per informare (se già non sono informate...) le persone che conosciamo e spingerle a firmare per abolire le modifiche Fornero/Monti all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori?" (Fabio B.) Questa è la mail che mi è giunta ieri dal nostro amico Fabio. E' uno straziante urlo di dolore..., un dramma che si sta consumando sulla pelle dei lavoratori, persone come noi che si svegliano tutte le mattine della loro vita, si alzano, fanno colazione, vanno a lavorare, hanno sogni, speranze, aspettative, spesso un mutuo da pagare...! Quando accadono queste cose ci sembrano sempre lontanissime, che non ci riguardino. Effetto probabilmente della televisione dicono i sociologi: se possiamo assistere a questi drammi comodamente seduti a tavola durante la cena, in fondo nella nostra mente diventano un po' come delle fiction televisive...! Chi potrebbe restare indifferente se ce l'avesse davanti a se in carne ed ossa queste persone, se ne sentisse il sangue che scorre nelle vene, la rabbia, la disperazione, le lacrime. Il fatto è che ormai abbiamo fatto l'abitudine a tutto, non ci sconvolge più nulla. Siamo sostanzialmente indifferenti verso il prossimo. Però su una cosa dobbiamo per forza ragionare, se non altro per mera convenienza: prima o poi questi drammi potrebbero coinvolgere anche noi che siamo seduti comodamente al di qua dello schermo. E quando, Dio non voglia, fossimo noi i protagonisti di quelle riprese televisive, cosa ne penseremmo degli italiani che si lasciano scolare addosso tutto questo orrore senza fiatare? Per cercare di fermare questa deriva pericolosa sono stati depositati in Cassazione i due quesiti dei referendum per abolire le modifiche apportate da Elsa Fornero all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e "per ripristinare - dicono gli organizzatori - i diritti minimi e universali previsti dal contratto nazionale di lavoro, cancellati dal governo Berlusconi con l’art.8 del decreto legge n.138 del 2011 (in altre parole questi referendum mirano a ripristinare il diritto di non essere licenziati senza giusta causa e vogliono abolire la delega che cancella i contratti nazionali che rende i cittadini più deboli e ricattabili)". Fanno parte del comitato promotore l’ Idv, Sel, Rc, i Verdi, Pdci, la Fiom – Cgil, i giuristi Pier Giovanni Alleva e Umberto Romagnoli. Le firme cominceranno a essere raccolte il 12 ottobre.

venerdì 5 ottobre 2012

Appello all'editoria italiana

Amici carissimi, oggi segnaliamo un grave episodio di incuria letteraria. Nel nostro costante studio sociologico e semiologico della fenomenologia "Maurizio Milani", ci siamo imbattuti - con ritardo direi imperdonabile - nella bibliografia del suddetto: i primi due volumi pubblicati dall'esimio maestro risalgono alla metà degli anni '90 e si intitolano rispettivamente "Animale da fosso" (Bompiani, 1994) e "Un uomo da badile" (Dalai Editore, 1996). E fin qui tutto bene. Anzi male. Il dramma purtroppo si consuma ai nostri giorni. Ebbene sì, orrore a dirsi, questi due immortali trattati non sono più in commercio...! Corre l'obbligo qui di ricordare che già in quegli anni lontani tutte le tematiche del Milani erano state sviluppate e direi trattate in maniera completa.
Con i lavori successivi poi l'autore non ha fatto altro che approfondire argomenti e capitoli che promanano da sempre dalla sua filosofia di vita. Sarebbe utile, anzi direi indispensabile, che il mondo letterario non lasciasse svanire queste due opere incommensurabili, magistrali, perché già in quegli scritti giovanili si manifestava in tutta la sua potenza la straordinaria visione del mondo del Milani. Abbandonarli agli archivi polverosi di un qualche sottoscala sarebbe non solo poco accorto, ma anche un delitto, una perdita irrimediabile per tutta l'Umanità. Ed è per questo che dalle pagine di questo blog lanciamo un appello a tutto il mondo dell'editoria nazionale (e non) affinché queste parole definitive e intramontabili trovino ancora spazio sulla carta da libro, affichè le nuove generazioni possano abbeverarsi a questa sorgente di saggezza. Di seguito un breve estratto della biografia del Milani: «Maurizio Milani: vita di un uomo da badile 1961: nasce con in mano la prostata di un cane. 1962: viene venduto dai genitori alla CGIL di Pavia. 1965: sta allungato per tutto l'anno su un divano dentro la Camera del Lavoro di Voghera; mangia molti sfarinati per cui il suo peso aumenta di trenta chili. 1967: va in giro a vantarsi di essere il bambino più pesante d'Italia: novantun chili. 1969: si denuda davanti alla sua maestra... senza motivo. 1970: con altri orfani, va in colonia; per tutto il soggiorno non si lava e prende i pidocchi inguinali (650. 000 unità). 1970: viene disinfestato come un toro dall'ufficio d'igiene di Forlì, si vanta anche di questo. 1973: senza chiedere compenso va a cantare ai funerali. 1974: si allunga su un antico divano, ci rimane fisso e diventa ancora più pesante. 1983: pur avendo la fidanzata, si fa tatuare sul corpo il nome di una ragazza appena conosciuta in treno. Il giorno dopo si pente ma ormai non può più cancellarlo. 1986: minaccia una gravidanza isterica nell'ufficio del Sindaco. 1990: esercita la professione di «mastro latrinaio» nella sede centrale dei Civici Cessi Città di Milano (anno di fondazione 1805). Un pomeriggio si spaventa e scappa lasciando sguarnito il presidio fognario. 1991: si fidanza in casa con una brava ragazza; la illude per cinque anni, poi quando hanno già comprato la mobilia l'abbandona come un'asina. 1996: minaccia di far causa alla Baldini Castoldi Dalai editore se gli pubblica questo libro».

giovedì 4 ottobre 2012

San Francesco, auguri.

Oggi il calendario festeggia San Francesco d'Assisi. Il blog intende rendere omaggio a questo grande personaggio della nostra storia con un brano tratto dal racconto "Due strani pellegrini", contenuto nel libro Sulle orme di Francesco. Si tratta della descrizione dell'arrivo ad Assisi dopo una settimana di cammino.
«Discesi la collina degli ulivi fino a che non mi trovai su una strada asfaltata; nei pressi di una rotonda vi era un’imponente statua bronzea di Padre Pio, attorniata da piante e fiori. Attraversai il Ponte dei Galli e risalii per circa un chilometro. L’ingresso da Porta San Giacomo mi introdusse alla città. Da uno stretto vicoletto si vedeva a breve distanza la spianata sulla quale sorgeva la Basilica Superiore. Rallentai il passo: il viaggio stava per finire e non sapevo ancora se ne fossi felice o meno. Giunsi ai piedi della Basilica che erano appena passate le nove. Deposi lo zaino e chiamai Davide: saremmo andati da San Francesco insieme. Davide mi raggiunse dopo pochi minuti. Fui lieto di ritrovarlo: il suo sacrificio aveva permesso a me di realizzare quel sogno. Entrammo nella Basilica Superiore e con lo sguardo gonfio di meraviglia ammirammo gli affreschi di Giotto e Cimabue. Scendemmo poi alla Basilica Inferiore. Un frate imponente stava arringando in tedesco una comitiva. Pensai che la tomba si Francesco fosse lì, da qualche parte. La cercai freneticamente fino a che non lessi un cartello che indirizzava verso la cripta. Scesi le scalette impacciato dallo zaino, il cuore picchiava forte. Una cancellata aperta immetteva nella cripta, illuminata da fievoli candele. Davanti a noi un altare con sei lumini ed un tabernacolo; alle sue spalle, da una finestra aperta nella roccia, il pilastro in cui erano conservati i resti di San Francesco. Eravamo arrivati. Mi sedetti su di una panca e per alcuni minuti contemplai quel luogo avvolto da ombre, silenzio e profumi d’incenso: si respirava un fortissimo senso del sacro. Provai sensazioni d’alta quota, come se intorno a me si aprissero vuoti di vertigini dei quali non s’intuivano i confini. Pensieri e ricordi tumultuosi, provenienti da tempi e luoghi lontani affioravano alla mente, senza un ordine, senza logica […].
Davide si sedette accanto a me, facendomi riemergere da quelle profondità. Asciugai discretamente le lacrime che avevano rigato il mio volto: non volevo che se n’accorgesse. Ancora una volta la figura di Francesco emergeva a tutto tondo dalla leggenda, sconvolgendo il trascorrere ordinato delle cose della vita. In quella roccia si trovavano realmente le spoglie mortali di quell’uomo straordinario che aveva cambiato la storia dell’umanità. Mi alzai ed avvicinandomi all’altare mi accorsi che a far corona al pilastro vi erano ai lati della cripta quattro nicchie protette da inferriate: su ognuna di esse vi erano delle targhe con i nomi dei frati più vicini a San Francesco: Ruffino, Leone, Angelo, Masseo. La memoria corse ai Fioretti, letti non molto tempo prima in preparazione del viaggio. Passai davanti ad ognuna delle inferriate: mi fermai davanti a quella di Ruffino, il più tenero e candido dei fratelli di Francesco, e poi ancora davanti a quella di Leone, “pecorella di Dio”. I ricordi delle loro gesta, della loro semplicità, delle loro opere riecheggiavano nella mia testa. Non riuscii a trattenere la commozione. Le parole scritte sulle pagine di quel libro erano davanti a me, Francesco e la sua famiglia riposavano insieme, come insieme avevano trascorso la loro esistenza terrena, lasciando un messaggio portentoso per l’eternità».