Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

martedì 30 aprile 2013

Bon ton da ufficio: le dieci cosa assolutamente da evitare

Ieri ci siamo occupati dello “stress da lunedì”, oggi, tanto per restare in argomento, discuteremo di galateo da ufficio, o meglio di tutti quei comportamenti che sarebbe più opportuno evitare per arrecare il minor fastidio possibile ai propri colleghi. D’altra parte si sa, la convivenza forzata sul luogo di lavoro spesso è causa di attriti e incomprensioni e quindi ben venga qualcuno che ci chiarisca le idea in questo campo. Per fare ciò ci affidiamo ad una ricerca pubblicata qualche mese fa sul quotidiano britannico Daily Express. Secondo gli studiosi inglesi, la cosa che dà più frustrazione in assoluto in ufficio (57 per cento degli intervistati) è il “noisy eating” (mangiare rumorosamente). Il giornalista inglese usa un’espressione quasi onomatopeica: “colleagues who chewed their food noisily”. Quel “chewed” richiama il termine chewing-gum, la gomma da masticare, e a tutti viene in mente l’immagine di un tizio che “ciancica”, che manda su e giù la mandibola, emettendo dalla bocca sconciamente aperta, sonorità raccapriccianti. Trasponete il tutto sul luogo di lavoro, magari nella sala riunioni trasformata per l’occasione in mensa aziendale, ed avrete un bel quadretto completo. Di questi tempi poi, è diventato assai di moda portarsi il cibo da casa e consumarlo in ufficio. Alcuni addirittura, per espletare questa più che trascurabile attività fisiologica, non abbandonano neanche la propria scrivania. Disseminando peraltro briciole e residui organici ovunque. Un tempo, quando la crisi non aveva ancora stravolto le nostre abitudini, c’era chi si recava al bar, chi alla pizzeria; c’erano poi quelli che in luogo della pausa pranzo (ridotta all’essenzialità di una barretta energetica) si sottoponevano a sedute intensive di tapis roulant, body building, acqua-gym, spinning e altro. Dicevano tutti di sentirsi molto bene al ritorno dalla palestra, ma poi non si capiva perché il portiere dello stabile, quando li vedeva rientrare, non li riconosceva e si impuntava perché gli venisse mostrata la carta d’identità. A dire il vero non è che costui avesse completamente torto: tutti, nessuno escluso, dimostravano vent’anni di più. E per di più erano stanchi e sul lavoro traccheggiavano. Ma come detto, le ristrettezze economiche hanno quasi azzerato queste pratiche sommamente deleterie e così ora ci si ritrova tutti appassionatamente insieme a condividere il cibo. Secondo la ricerca infatti, tre persone su quattro pranzano in ufficio. E da ciò ne derivano ulteriori fastidi: “messy” (disordine, non il giocatore del Barcellona), “not washing up” (mancanza della pulizia dopo aver sporcato) e “smelly food” (cibo maleodorante). A chi in effetti non è mai capitato di sedere accanto al collega con i contenitore di plastica dura, quelli in cui la sera prima sono stati accuratamente ordinati cavoli, broccoletti e legumi vari? In un attimo tutto l’ambiente diviene saturo di odori nauseabondi e quel poco di appetito che ancora ti restava, finisce inevitabilmente nella spazzatura. Insieme alla tua fetida piadina fredda e rinsecchita.
Ma passiamo oltre che di ciò ve n’è già abbastanza. Altro comportamento assai sgradito è il ritardo. Far attendere una o più persone è davvero un’azione poco riguardosa. I ritardatari non sono persone cattive, né provano piacere per ciò che fanno. Di solito si dividono in due categorie: nella prima vi sono coloro che, vivendo costantemente nell’apprensione e nel timore di arrecare disagio a chi li attende, pianificano ogni cosa, nel minimo dettaglio. Poi però saltano sempre fuori degli imprevisti e addio sogni di gloria. C’è qualcosa di assolutamente scientifico nel concatenarsi degli eventi che conducono ad un ritardo. Nella seconda categoria viceversa, ci sono quelli per i quali la puntualità è un concetto misterioso e inafferrabile, antropologicamente assente dalla loro coscienza. In questo caso non c’è speranza alcuna.
Altro atteggiamento sommamente irritante è “non ascoltare o interrompere” i discorsi dei colleghi. In tutto ciò vi è mancanza assoluta di rispetto per l’interlocutore, disinteresse per ciò che pensa e dice, maleducazione, prevaricazione, arroganza. In Puglia per esprimere questo concetto di usa dire: “Meglio essere cornuto che male sentuto”. E ancora, altra cosa spiacevole è il “clicking pens” (aprire e chiudere di continuo le penne a scatto). Chi compie questo gesto – per lo più compulsivo – durante una riunione, manifesta immediatamente nervosismo, insofferenza, fastidio, e di conseguenza provoca un disagio nella persona che gli sta davanti. Quasi sempre il dirigente dell’azienda. Se poi a ciò si associano anche sguardi lanciati a ripetizione verso soffitto e finestre, sospironi e sbadigli malamente celati, vuol dire che la situazione è disperata. A quel punto l’unica cosa da fare è chiedere una piccola interruzione e correre giù al bar per un Fernet.
In fondo alla classifica troviamo le telefonate private e gli sfoghi circa i propri problemi fisici, familiari o esistenziali. Le prime provocano devastanti deficit d’attenzione sul lavoro (talché conviene scendere di nuovo al bar, senza essere visti dal dirigente di cui sopra); i secondi sono ancora peggio, dal momento che la depressione, come ha dimostrato una recente ricerca statunitense, si trasmette da una persona all’altra già dopo tre mesi di “trattamento”. E poi altro che Fernet…!
Ecco, se vogliamo evitare di trasformare l’ambiente di lavoro in una bolgia dantesca, basta seguire qualche piccola regola di buona educazione. Niente di trascendentale: la nostra libertà finisce là dove comincia quella del nostro prossimo. E viceversa.

lunedì 29 aprile 2013

Lunedì senza più stress

Può esserci situazione più deprimente e angosciante di un lunedì mattina umido e uggioso, a tratti bagnato da scrosci di pioggia improvvisi? Quando per di più si è reduci da una domenica funestata da tragiche notizie di cronaca provenienti dalla Capitale, oltreché dalle imperdibili perle di gioia a cui la politica ultimamente ci sta abituando? Gli esperti definiscono questo strano malessere “sindrome del lunedì” e pare che vi incorra la quasi totalità degli esseri viventi presenti sulle terre emerse. I sintomi sono sempre gli stessi, a qualsiasi latitudine: stanchezza fisica e mentale, svogliatezza, apatia, noia, claustrofobia, nervosismo incontrollato, nausea, gastrite ed irritabilità del colon. D’altra parte è da capire: lasciate alle spalle quelle due splendide giornate di libertà – quando non addirittura un qualche salutifero ponte – , ci si ritrova con l’agghiacciante prospettiva di tirare il fine settimana tra lavori mortiferi, clienti feroci e capi-ufficio rompicoglioni. Chi non verrebbe travolto dallo sconforto? Gli esperti, che peraltro nelle tragedie proliferano come i funghi in autunno, forniscono alcuni utili consigli per sopportare tali sciagure. Andiamo ad analizzarne qualcuno. Prima di tutto, proprio perché il fine settimana è breve e assai fugace, occorre sfruttarlo al meglio: bando dunque alla pigrizia e alla fiacchezza, e sotto con le attività che regalano un po’ di “sale”. Una camminata tra i boschi, una pedalata fuori città, un film al cinema. Consigliabili anche mostre e musei (tenuto ovviamente conto dei gusti e delle predisposizioni personali: se per esempio non capite l’arte moderna, evitate…! L’attacco da noia fulminante è sempre dietro l’angolo).
Altro consiglio molto completo è quello di andare a dormire presto la domenica sera (come le galline). Le abbondanti ore di sonno (sempre che non soffriate d’insonnia, naturalmente) vi regaleranno al risveglio uno splendido stato psico-fisico. E ancora, per evitare la frenesia e la concitazione che accompagna da sempre i momenti che precedono l’uscita di casa, meglio levarsi dal letto con un buon anticipo. Evitare assolutamente le sveglie apocalittiche, ma stare alla larga anche da quelle troppo soft, tipo quelle che diffondono sciabordii e sonorità marine, o anche pioggerelline primaverili: sono insidiosissime e garantiscono al cento per cento, la continuazione del sonno e dunque ritardi mostruosi e stress da infartone miocardico.
Altro suggerimento molto prezioso è quello di fare un’abbondante colazione, associata ad un minimo di attività ginnica. Per i cultori del genere, va bene anche una breve sessione di meditazione (si sconsigliano tematiche legate alla crisi economica o alla fame nel mondo).
E veniamo all’aspetto esteriore: un tempo si diceva che il modo migliore per cominciare la giornata era sorridere, o meglio sorridere guardandosi allo specchio. Molti tuttavia già fanno fatica a specchiarsi appena alzati (e come dar loro torto…), figuriamoci se si provano anche a sorridere forzosamente…! Lasciamo stare dunque. Si può però cercare di migliorare il proprio umore prendendosi un po’ cura di se stessi: doccia e barba senza fretta; e poi una soffice crema idratante; il profumo preferito; e ancora, scegliete nell’armadio l’abito che più vi piace o che vi ricordi qualcosa di piacevole. Piccoli gesti che possano regalare un pizzico di benessere. Effimero chiaramente, aggiungo io, ma va bene pur che sia.
Altro consiglio assai utile è quello di rimandare il più lontano possibile le incombenze lavorative più tediose. Se vi riesce confinatele alla giornata di venerdì (del 2023). Oppure, meglio ancora, cercate di scaricarle al collega di scrivania più vicino. Con le dovute maniere, s’intende.
E per terminare, se anche in questa fottuta giornata tutto è andato nel peggiore dei modi, l’importante è essere positivi e pensare che fuori dall’ufficio c’è tutto un mondo che vi aspetta, pronto ad accogliervi a braccia aperte. Per sfruttare al meglio questo suggerimento bisogna essere però molto, ma molto ottimisti. Sennò il giochino non riesce.
Ecco, seguendo questi piccoli accorgimenti – dicono i luminari del settore – l’incubo del lunedì sarà vinto. Completamente. Nel caso tuttavia questo non basti (l’eccezione che conferma la regola, naturalmente), potrebbe trattarsi di un accumulo eccessivo di stress, protratto nel tempo e dunque più difficile da trattare. Il consiglio è quello di prendersi una bella vacanza: quattro o cinque anni dovrebbero bastare. Auguri.

domenica 28 aprile 2013

Anteprima Biciclettata di Rimini

Dalla stazione di Pesaro a Rimini ci sono 50 chilometri circa. Un bell'avvicinamento direi...! Quindi il programmino è: partenza in treno da Mi C.le h.9,20 (regionale con trasporto bici) - Arrivo a Bologna h.12.09. Partenza da Bologna h.12,35 (regionale con trasporto bici) - Arrivo a Pesaro h.14,33. Prendiamo su le bici, e saliamo lungo la splendida panoramica. A Gabicce (circa 20 km da Pesaro) ci fermiamo per uno spuntino. Magari sul porto canale. Poi, senza alcuna fretta, ce ne andiamo a Rimini seguendo il lungomare (Cattolica, Misano Adriatico, Riccione, Miramare, Rivazzurra, Bellariva). Una volta in albergo, giù le bici e subito un bel bagno...! E poi aperitivo, cena e tutto il resto...!
Le date prescelte al momento sono da venerdì 31 maggio a domenica 2 giugno. Salvo previsioni meteo avverse. Nel qual caso si rimanda al fine settimana successivo.

Tanto per avere un'idea...
http://www.youtube.com/watch?v=RtVQZ_1HDZI

venerdì 26 aprile 2013

Una tranquilla giornata di liberazione

E così, mercoledì sera mi ha chiamato Leo: «Uhe…, domani è il 25 aprile…! Facciamo qualcosa?». Lì per lì non sapevo cosa rispondergli, anche perché, date le previsioni meteorologiche inclementi (oh…, adesso ci azzeccano sempre…, li mortacci loro: ndr), non avevo programmato nulla. E nell’attesa che io rispondessi qualcosa, Leo, quasi insofferente alla mia indecisione, ha aggiunto: «Non s’era detto che s’andava al Lago di Garda…?». A quel punto sono uscito all’improvviso dal mio torpore: «Ah già, hai ragione. Che si fa, andiamo? Sento gli altri e poi ti do conferma». Breve giro di telefonate, programma di massima e via libera. A tarda sera, mentre Benigni si congeda dal pubblico declamando gli ultimi versi del XXII Canto dell’Inferno (“…porser li uncini verso li impaniati, ch’eran già cotti dentro de la crosta; e noi lasciammo lor così ‘mpacciati”), mi arriva un messaggio sul telefonino. È Leo: “Ciò (sic) riflettuto bene: preferisco andare in manifestazione. Stammi bene”. Privati del nostro ispiratore ci siamo dati appuntamento a Desenzano del Garda per la mattina seguente. L’idea era di raggiungere Gardone Riviera (con annessa visita al Vittoriale), e poi spostarci verso Salò per una breve escursione sulle colline (Monte San Bartolomeo). A Desenzano però, la sorpresa: non c’è alcuna corriera fino alle 13.30. A quel punto il programma salta e si decide di ripiegare su Sirmione. Giovanna, Elena C. ed io, attraversiamo la cittadina - affollata di manifestanti per la Festa della Liberazione - e c’incamminiamo verso la destinazione seguendo il lungolago. Roberto ed Elena R., ci raggiungeranno in automobile. Sempre che riescano prima a districarsi dal traffico, feroce fin da Bergamo. La passeggiata, si rivela più lunga del previsto (oltre 10 chilometri) e purtroppo si dipana quasi esclusivamente lungo la statale. Sul lungolago infatti, ci sono ville e giardini dei ricchi signori e il passaggio dei pedoni è precluso. La cosa è davvero irritante: possibile che lo Stato non possa e non debba ritagliarsi una minuscola striscia di terra demaniale lungo le sponde, per far passeggiare i propri cittadini? Possibile che la bellezza della natura debba essere preclusa a così tanta parte degli italiani? Ad ogni modo, dopo un paio d’ore di strenuo cammino e una discreta quantità di ostacoli superati non sempre agevolmente (nugoli di moscerini in località lido di Rivoltella, scavalcamento di recinzioni e superamento di argini) arriviamo a Colombare, località che segna l’inizio della penisola di Sirmione. Contatto Roberto per chiedergli a che punto sono. Mi dice che sono all’imbarcadero e che ci aspettano là. Come punto di riferimento mi da il monumento all’aviatore. Stremati arriviamo al Castello di Sirmione. C’è una gran folla, tedeschi e russi in abbondanza. C’è un incredibile via vai di automobili che varcando le mura scaligere, entrano nel centro storico. Mi scopro nuovamente ad arrabbiarmi per quest’orrore: possibile che almeno qui, in questo budello medievale, non si possa fare a meno dell’automobile? Chiedo ad un viglie di questo fantomatico monumento all'aviatore e questi mi fissa come se fossi un marziano appena sceso dalla navicella. Richiamo Roberto: «Oh, noi siamo arrivati al Castello. Dove siete?». «Castello? Quale castello? - risponde Roberto allarmato - Qui non c’è nessun castello…». Come volevasi dimostrare, non ci siamo assolutamente intesi. Roberto ed Elena R. sono ancora a Desenzano. A quel punto, dopo le più che doverose accuse reciproche (“ma non capisci un… beep”; “sei il solito… beep”; “va be’, va be’, fai un po’ come… beep ti pare…”) ci diamo appuntamento per il primo pomeriggio. Ci raggiungeranno col traghetto. Nel frattempo noi tre facciamo un giro per il centro. È ora di pranzo e uno spuntino sarebbe più che lecito e auspicabile. La folla tuttavia è tale che non è umanamente pensabile cercare posto in un ristorante. Ripieghiamo su un gelato maxi, che come si sa, oltre ad essere opzione alquanto economica, è alimento capace di sostituire quasi integralmente un pasto. La dolce gelataia mi chiede quanti gusti desideri. Rispondo: cioccolato bianco, fiordilatte, limone. Mi guarda perplessa e fa: «Tutto monocolore?». E io: «Si, ho deciso. Non sono pronto per un rapporto onesto e maturo…». Al che mi mette in mano un cono mostruoso, pesante non meno di otto etti buoni. Capisco subito di essere di fronte ad un’impresa quasi impossibile e già pavento la possibilità di terminare la vicenda in maniera ignominiosa. Tipo quella volta che Leo se n’andava in giro per Venezia, sbrodolandosi stracciatella e zabaione lungo l’intero avambraccio. Mi metto subito d’impegno, cacciando dalla bocca venti centimetri di lingua ogni due secondi e mezzo. La gente mi guarda inorridita. Ci muoviamo verso la sponda settentrionale del lago. Qui, dopo un’avventurosa attraversata lungo una passerella invasa a tratti dalle onde, ci sediamo in contemplazione delle placide acque. Io sono sempre alle prese con il mio orribile cono. Dai e ridai, alla fine riesco a vincerne le resistenze, non senza peraltro avvertire un senso di nausea e gonfiore da alcolizzato cronico. Dal lido ci inoltriamo verso l’interno e a un di presso (come dice Manzoni), raggiungiamo le Grotte di Catullo. Che per inciso, non sono grotte. Sulla spianata che degrada verso il lago, ci sono centinaia di frondose piante d’ulivo e tutt'intorno si spande un sottile profumo di cedro e limoni. La stanchezza e la necessità di aspettare Roberto ed Elena R., ci inducono al riposo. Un leggero venticello profumato di infiorescenze primaverili ed essenze lacustri a tratti concilia il sonno.
E finalmente il gruppo, al termine di una rincorsa spasmodica, si riunisce. Roberto è rosso in faccia per il sole e sembra un po’ provato dalla fatica; indossa tra l’altro una elegantissima camicia rosa con spalline, stemmini e ghirigori vari. Elena R. invece è loquace e spumeggiante come al solito. A quel punto cominciamo la visita delle Grotte di Catullo. In realtà, come detto, non si tratta di grotte, ma dei resti di un’immensa villa romana risalente al primo secolo a.C. Gli scavi si estendono su una superficie enorme e appaiono maestosi e in alcuni punti, assai ben tenuti. Gli archi, le volte, le strutture murarie sono ciclopiche e dimostrano tutta la grandezza raggiunta da questi nostri antenati. È un luogo meraviglioso, immerso nella quiete degli ulivi e spettatore di vedute montane, ancora imbiancate dalla neve. Ed anche i turisti si uniformano a quest’atmosfera: non uno schiamazzo, non un urlo o voce sostenuta. Pare quasi che qui si entri in punta di piedi. Colpisce pensare che in questo luogo vi abbia soggiornato davvero l’autore di Odi et amo. Chissà quanti carmi avrà composto rimirando questi panorami. E ancor di più stupisce che a quell’epoca una tale bellezza fosse appannaggio di pochissimi.
Si è fatto tardi: Roberto ed Elena R. si trattengono ancora qualche ora qui; noialtri ci affrettiamo verso il battello. Lungo il vialetto che conduce all’imbarcadero ci sono un paio di alberghi a quattro stelle: dalle recinsioni esterne s’intravedono bagnanti immersi in piscine con idromassaggio e acqua riscaldata. Sono i ricchi che si concedono i piaceri legati alla loro condizione di privilegiati. Per tutti gli altri c’è una rincorsa spasmodica verso un posto sul traghetto, pigiati come sardine e speranzosi di riuscire a prendere al volo il treno regionale del ritorno - senza posto a sedere - . Ed è solo grazie al ritardo accumulato da uno di questi, mai così gradito peraltro, che Giovanna ed io riusciamo a prendere la via di casa. Elena C., al contrario, arriverà a casa poco prima di mezzanotte.
Ma che bella giornata di sole/Quanta gente per le strade nuove/Quanti treni alla stazione/Ma per tornare a casa/E la chiamano liberazione/Questa giornata senza morti/Questo profumo di limoni/Giù per le strade”.
Così canta Antonello Venditti. Ed è la giusta chiosa di questa giornata.

mercoledì 24 aprile 2013

Il valore delle cose

Qualche giorno fa ero all’Ipercoop per compere. Come al solito c’era una folla selvaggia e isterica, fatta di persone che si urtavano e si spingevano senza guardarsi neanche in faccia. Un tempo almeno, se qualcuno ti centrava con il carrello, c’era subito una rincorsa di sguardi e, se l’incidente era involontario, ci si scusava; al contrario se la cosa era avvenuta con l’intento di fare male lo sguardo era di sfida e significava: “L’ho fatto a posta: l’hai capito, vero?”. Oggi invece questi scontri più o meno voluti avvengono non più tra persone, ma tra l’individuo ed il suo punch-ball da shopping. Di questi tempi infatti le folle non si recano più ai supermercati con l’intento di fare compere - quello ormai è lo scopo secondario - , ma con l’idea di sfogare la propria carica repressa. Ed il tutto avviene in una escalation di violenza: si parte dalla bellicosa ricerca del parcheggio - sempre pieno anche al mattino - , condita con improperi e tentativi di investimenti ai danni dei pedoni; continua con la corsa all’accaparramento del carrello, con tanto di gomitate, anche ad altezza volto, per saltare la fila; ed infine termina con l’ingresso trionfale tra i corridoi del supermercato, da dove comincia la ricerca del proprio obiettivo punch-ball. Il resto è cosa ben nota. L’altro giorno ero appunto in questo girone di dannati quando sono stato attratto da alcuni banconi sui quali troneggiava un cartello: “Tutto a un euro”. In vendita vi erano oggetti di ogni genere ed utilità, e tutt’intorno si aggiravano come squali famelici, acquirenti elettrizzati che afferravano con rabbia articoli a ritmo continuo, li guardavano con disgusto e poi li ributtavano con disprezzo nella mischia. Il tutto avveniva come se a tali oggetti in ipersaldo fosse stato tolto ogni valore e dignità: come se per il fatto che costassero poco, valessero poco: anzi non valessero proprio niente. Improvvisamente sono stato rapito dalla scena a causa di un clangore roboante. Qualche decina di metri più in là c’era un altro bancone con pentolame vario in vendita. Un altro cartello recitava: “Vendita a peso”. Anche in questo caso c’era una gran folla intorno al bancone, ma a differenza della scena precedente che avveniva per lo più in un silenzio irreale, qui il caos era totale: le persone potenzialmente interessate all’acquisto afferravano tegami, pentole, casseruole, le scrutavano con un misto di scetticismo e disgusto - subodorando eventuali fregature - e le scagliavano nuovamente sul bancone, pronte ad afferrare qualche altro oggetto. Il tutto avveniva in un frastuono metallico agghiacciante: sembrava di essere ad un concerto di un percussionista impazzito. Quando la confusione ha raggiunto il parossismo il direttore del supermarket ha abbandonato la sua postazione di comando, si è avvicinato alla scena ed ha esclamato, un tantino adombrato: «Signore, signore: e che cazzo… ehm scusate, volevo dire e che cavolo. Fate piano, vi prego, ci state sfasciando il negozio». L’intervento ha registrato un’efficacia complessiva di tre minuti netti: dopo di che la battaglia è ripresa più virulenta di prima. A fine giornata si sono contati quattro feriti di cui uno con prognosi riservata. L’arma impropria più utilizzata pare sia stata la padella lionese in ferro.
(Il Cialtrone, 2012).

martedì 23 aprile 2013

Un libro è per sempre

Oggi ricorre la Giornata Mondiale del Libro (e del diritto d’autore, ci tengono a precisare gli organizzatori). Di questi tempi eventi di questo genere ce ne sono talmente tanti, e a scadenze così frequenti, che quasi non ci si fa più caso. Ed anzi, proprio a causa di tale soverchia abbondanza, il sentimento che più spesso s’abbina a tali ricorrenze è l’assuefatta indifferenza, quand’anche non la noia e il fastidio. Giornata della Terra, Giornata del risparmio energetico, Giornata della Lentezza, e poi ancora tutte le feste comandate e quelle laiche, dalla festa della donna a quella dei nonni e chi più ne ha più ne metta. Tale è l’affollamento dell’agenda che ormai si fa gran fatica a trovare una data libera per calendarizzare nuovi fantasmagorici appuntamenti. La Giornata del Libro, tuttavia, evento patrocinato dall’Unesco per promuovere la lettura, “come progresso sociale e culturale dell’Umanità”, ci pare una nobile iniziativa. A maggior ragione tenendo conto che tale prezioso testimone ci giunge direttamente da persona di sangue blu. Il 6 febbraio 1926 infatti, Alfonso XIII, Re di Spagna, facendo propria la Giornata del libro e delle rose, ideata dallo scrittore ed editore catalano Vincent Clavel Andrés (1888-1967), promulgò un decreto con cui veniva istituita in tutta la Spagna la Giornata del libro spagnolo. La data prescelta fu appunto il 23 aprile, festa di San Giorgio, protettore della Catalogna. In questa giornata, in cui tra l’altro si ricorda la morte di Shakespeare e Cervantes, c’è la tradizione che ogni uomo doni una rosa alla propria donna in segno d’amore. Da ciò ne discende il costume dei librai della Catalogna di regalare alle clienti una rosa per ogni libro venduto il 23 aprile. Quanto sarebbe bello importare anche da noi questa tradizione? Un piccolo gesto poetico, in un mare d’indifferenza. A partire da oggi dunque, e in tutta Italia, si svolgeranno diversi eventi per far riscoprire al pubblico il gusto della lettura: si comincia con Il Maggio dei Libri, promosso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, per arrivare al Salone del Libro di Torino.
Ed in effetti, guardando le statistiche c’è un gran bisogno di riavvicinare gli italiani ai libri. Stando ai dati dell’ultimo rapporto del Censis sulla comunicazione, nel nostro paese oltre la metà della popolazione non legge neanche un libro nel corso dell’anno. Ed anche quei pochi che leggono, leggono assai poco: il 45,6 per cento dei lettori non ha letto più di tre libri in dodici mesi, mentre i cosiddetti “lettori forti”, cioè coloro che hanno letto almeno una dozzina di libri nello stesso lasso di tempo, sono il 13,8 per cento del totale. Scendendo più nel dettaglio scopriamo che le donne leggono più degli uomini, soprattutto nella fascia d’età che va dai 15 ai 44 anni; che il numero più alto di lettori si ritrova tra i ragazzi (11-17 anni); che avere genitori appassionati di lettura spinge i figli verso la stessa passione (72 per cento); e che all’inverso, genitori lontani dai libri allontanano i figli dalla lettura (39 per cento). Stupisce poi un dato: una famiglia su dieci dichiara di non possedere alcun libro in casa. Magari hanno tre quattro smart-phone a testa, ma neanche un libro. Splendido. E di fatti, ancora il Censis ci fa sapere che otto italiani su dieci possiedono un telefono cellulare.
Non saprei dire il perché di tanta disaffezione per i libri: forse questi oggetti pesanti e polverosi sono visti ormai come vecchiume intollerabile rispetto alla velocità dei computer e di Internet. Un tempo, quando i professori davano per compito una qualche ricerca, ci si recava nelle biblioteche e passavano interi pomeriggi prima di trovare il volume che poteva andar bene. E poi ore e ore per prendere appunti, per ricopiare intere pagine. Oggi basta un click e saltano fuori milioni d’informazioni dettagliatissime. Ma oltre a ciò, occorre pur confessare che la lettura, per chi non vi è avvezzo, è pur sempre una fatica: bisogna concentrarsi, seguire il filo logico del racconto, dedicarvi tempo preferendovi questa attività ad altre. Quando ero ragazzo ragionavo in questi termini: soprattutto quando frequentavo il ginnasio. Non riuscivo a capire perché diavolo dovessi leggermi quella palla cosmica di Manzoni, piuttosto che andare a giocare a pallone con gli amici. E con gli anni a seguire andò ancora peggio, con quell’altro mattone indigeribile di Dante. Tanto fu l’odio per quelle letture che per molto tempo rimasi lontano dai libri. Col tempo tuttavia, mi sono riavvicinato a questo mondo e ho cercato di recuperare tutto il terreno perduto. Scoprendo peraltro un piacere inimmaginabile in quei lontani anni adolescenziali. In questi giorni per esempio, sto rileggendo I promessi sposi. La cosa è partita come una sfida, per vedere che effetto mi faceva a distanza di venticinque anni. Il volume è lo stesso di allora, e tra le pagine vi sono le annotazioni che scrissi durante quelle pesantissime ore di lezione. Alcune fanno tenerezza, tanto sono ingenue. Altre sono semplici sinonimi esplicativi per parole come “sicurtà”, “antonomasia”, “di mio genio”, “a un di presso”. Chissà come suonavano strane allora? E poi, al termine di ogni capitolo c’è una grossa X ben calcata - come un carcerato che segna il passare del tempo della pena, apponendo un segno sul calendario - , e la scritta “commento”. Quanta fatica e noia saranno costati quei compiti trascinati per mesi e mesi? E oggi invece, che me ne pare di questo romanzo? L’aggettivo che mi sento di spendere, sperando di non essere preso per matto, è: splendido…! Che grave torto si fa a “Don Lisander” obbligando degli adolescenti a leggere questo capolavoro. E non solo a leggere, che come detto è già fatica per chi non v’è avvezzo, ma addirittura studiare. Con compiti a casa, riassunti, commenti, verifiche, temi. Terrificante. Si dice, ma Manzoni è il padre della lingua italiana (così come Dante ne è il nonno, a sto punto) ed è giusto che gli studenti si esercitino sulle sue pagine. D’accordo, ma l’obiezione è sempre la stessa: c’è un tempo per ogni cosa. Lo stesso Manzoni non credo che scrivendo la sua storia pensasse a lettori quattordicenni. E alla stessa maniera, ascoltando Benigni che recita La Divina Commedia, mi scopro oggi a sollevarmi da terra per l’entusiasmo e la meraviglia, mentre al liceo non v’erano che tedio e desiderio d’evasione.
La lettura è uno dei piaceri più alti che può provare l’uomo, perché è il modo più straordinario per compiere un viaggio nell’immaginazione. Perché dunque angariare dei ragazzi con opere fuori dalla loro portata? Perché costringerli a leggere libri che a loro hanno poco da dire in quell’età così acerba? E ancora, perché trascurare tutto il resto del panorama letterario straniero, a partire da quel Don Chisciotte, considerato unanimemente il più bel romanzo di tutti i tempi? Forse in Italia non si legge abbastanza anche perché in pochi sono capaci veramente di trasmettere questa passione. Dei libri non si può fare a meno: un libro è per sempre.

lunedì 22 aprile 2013

Come distruggere la sinistra italiana in tre giorni

E così, dai e ridai, finalmente siamo riusciti ad avere un Presidente della Repubblica. Del come, del quando e del perché ci siamo arrivati è cosa notoria a tutti. D’altra parte uno spettacolo (horror) come quello che è andato in onda in questi giorni non poteva perderselo veramente nessuno.
A partire da giovedì il Parlamento si è riunito in seduta comune presso l’aula di Montecitorio e ha cominciato a ragionare. Un gran bel ragionare bisogna dire…! Il compito di scegliere il nome per l’inquilino del Colle, come da prassi, se l’è arrogato subito il partito che detiene la maggioranza relativa. Cioè il Pd. Dopo un lungo e proficuo dibattito interno, la segreteria, con una lungimiranza veramente sensazionale, se n’è uscita con un nome che è riuscito in un intento apparentemente impossibile, vale a dire quello di scontentare praticamente tutti. Al solo udire il nome di Franco Marini, uomo politico appartenente ad un’era geologica consegnata alla storia (anzi alla preistoria), oltre la metà dei grandi elettori del Partito Democratico presenti al teatro Capranica ha lanciato grida di disapprovazione. E con essi, la quasi totalità dei cittadini italiani, informati immediatamente dalla stampa circa la geniale trovata di Bersani e dei suoi stretti collaboratori. Il perché di questa scelta s’è subito inteso, tanto più leggendo le dichiarazioni di gradimento giunte rapidamente dalle forze d’opposizione. Giovedì mattina, dopo l’interminabile “chiama” e la lunga e monotona litania dello spoglio delle schede – animatasi esclusivamente ai nomi di Raffaello Conte Mascetti o Marini Valeria – , s’è arrivati alla prima, “inimmaginabile” sorpresa: affondamento del candidato Marini. “Caspita, e chi l’avrebbe mai sospettato un risultato del genere?” – avranno pensato gli astuti dirigenti del Pd – “Si d’accordo, c’era un certo qual dissenso tra i parlamentari, ma com’è possibile che la metà di costoro abbiano votato davvero contro il candidato espresso dal partito?”. Eppure così è stato. Nel frattempo fuori da Montecitorio una folla di persone manifestava a favore dell’altro candidato, quello espresso dal Movimento Cinque Stelle, vale a dire Stefano Rodotà, uomo di sinistra da sempre. Provocando peraltro un fastidioso risentimento da parte di alcuni importanti esponenti del Pd: “Ma che vogliono questi…?”. A questo punto, sfumato l’accordo con l’opposizione (chiamato altresì “inciucio”), la dirigenza del Pd ha pensato bene di prendere tempo mandando a vuoto la successiva votazione. In uno stato mentale sempre più confuso e schizofrenico, s’è arrivati alla seconda serata del Capranica. Bersani e i suoi, tramortiti dalla figuraccia del mattino, compiono l’atteso passo e tirano fuori dal cilindro il più classico dei conigliotti: Romano Prodi, acerrimo avversario del Silvio. In altre parole, rispetto al candidato precedente, qui si realizza una repentina sterzata di 180°: niente più accordi con l’opposizione. La platea apprezza e levatasi dalle poltrone, applaude con entusiasmo. Prodi, in Africa per conto dell’Onu, viene avvisato e si attiva immediatamente per far ritorno in Italia. La strategia dunque sarà questa: alla terza votazione, scheda bianca; alla quarta, quando basterà il 50 per cento più uno dei votanti, si voterà in massa Prodi. Perfetto. Che poi sulla carta manchi al candidato ancora qualche voto per arrivare al risultato, poco conta: qualcuno di altro schieramento sicuramente si aggregherà. Ovviamente. E di fatti venerdì pomeriggio nuova convocazione della seduta e nuova grande sorpresa: dallo scrutinio delle schede – lette da una Boldrini sempre più annoiata, e passate di mano ad un Grasso sempre più inutile e sonnacchioso – salta fuori che Prodi non riesce neanche lontanamente ad avvicinarsi alla soglia dei 504 voti necessari per diventare Presidente della Repubblica. Oltre cento deputati e senatori Pd, nonostante l’intenzione favorevole manifestata la sera prima, fanno mancare il loro appoggio al candidato. Prodi viene contattato urgentemente: “Abbiamo scherzato…! Resta pure in Africa…”.
È la notte della sinistra italiana. Tutti accusano tutti, si rinfacciano colpe, si urla al tradimento, si chiede conto alla dirigenza. Dall’altra parte si esulta: l’avversario di sempre è sconfitto, colui che solo è riuscito a battere per ben due volte il Silvio, è finito, cancellato. Fuori dai palazzi la rabbia cresce. Il popolo della sinistra non riesce a capacitarsi di quest’ennesima debacle dei propri rappresentanti e torna ad urlare a gran voce il nome di Rodotà. Non si riesce a capire il perché di questa chiusura. Anche perché nessun esponente del Pd dice una parola su questa candidatura. Alla fine, assediati dagli elettori e dai giornalisti, alcuni cominciano a sbilanciarsi: “Perché no Rodotà? Semplice: perché il suo nome è stato fatto dal Movimento Cinque Stelle”. “Cosa…? – urlano in coro i cittadini – E questa sarebbe la spiegazione? Ma neanche all’Asilo Mariuccia si sentono certe cose…”. Ed infatti, siccome l’affermazione non regge, qualche altro preclaro esponente Pd aggiunge: “Ma no…, Rodotà non si può votare: la gente non lo conosce. Non lo conoscono nemmeno i miei genitori…”. Che chiaramente è una argomentazione davvero molto convincente. Delusione e amarezza raggiungono il massimo livello. Solo nella notte giunge la confessione, ed ha il volto onesto di Giuseppe Civati, detto Pippo: “Rodotà non passerebbe. Se non è passato Prodi, come pensate che possa passare Rodotà? Metà partito guarda a destra…”. Colpo di scena: si squarcia finalmente il sipario. Ecco finalmente materializzarsi davanti agli occhi degli elettori di sinistra la realtà dei fatti.
E così, incassata l’ennesima umiliante sconfitta, Bersani (dimissionario) e i suoi si recano al Quirinale, e sconfortati fino alla disperazione, chiedono a Napolitano il sacrificio di accettare un secondo incarico. Cosa peraltro mai avvenuta in sessantacinque anni di storia repubblicana. E questi, ascoltati tutti gli altri leader di partito – salvo i Cinque Stelle, naturalmente – scoglie favorevolmente l’iniziale riserva. A patto che la sua nuova elezione sia preludio per l’avvio di un successivo Governo di larghe intese. Da tutto ciò ne deriva che sabato 20 aprile, nel tardo pomeriggio, il Parlamento riunito per la sesta votazione, proclama Giorgio Napolitano nuovo Presidente della Repubblica. L’87enne esponente del vecchio PCI, in Parlamento dal 1953, si conferma dunque Capo dello Stato tra gli applausi di giubilo della quasi totalità dell’emiciclo. Al termine del mandato avrà la tenera età di 95 anni. Dai banchi del Pdl i deputati guardano al Silvio come vero vincitore della partita e gli tributano gli onori del grande statista. Bersani invece, capo chino e occhi gonfi di commozione, gusta l’amaro calice della sconfitta.
Fuori da Montecitorio esplode la protesta. L’Italia nelle ultime elezioni ha chiesto il cambiamento? Ecco pronto un bel Napolitano Bis fino al 2020. Gli italiani hanno bocciato il Governo dei Professori e tutta l’ammucchiata che l’ha sostenuto? No problem: a breve un esecutivo di larghe intese, magari con a capo l’ottimo Amato.
Ma come si è giunti a tutto questo? Tutto nasce da un problema mai risolto nel Partito Democratico, ovvero dalla presenza delle diverse anime e correnti presenti al suo interno. E così diametralmente opposte le une alle altre. Riformisti, liberal, Renziani, D’Alemiani, Bersaniani, Veltroniani, Giovani Turchi: questo partito è un insieme raccogliticcio di gruppi di persone che hanno ben poco in comune tra di loro. E lo si è visto nelle votazioni. “Un partito – come dice il Garzanti – è un’associazione di cittadini mirante allo svolgimento di una comune attività politica”. Cosa c’è rimasto di tutto ciò, in un partito incapace perfino di eleggere un proprio rappresentante al Quirinale? Il problema più grave tuttavia, al di là di tutte queste guerre intestine, risiede nella leadership. Bersani ha sbagliato tutto: non ha coinvolto il partito nelle decisioni; ha seguito una linea politica e nel breve volgere di una notte, ha deciso di cambiarla radicalmente; ha ignorato il dissenso tra le sue fila; si è umiliato di fronte ai Cinque Stelle e poi, nel momento di raccogliere il nome di Rodotà, gentilmente offerto dagli stessi su un piatto d’argento, si è girato verso il Silvio. Raramente mi è capitato di osservare un capo alle prese con tanti errori messi in fila uno dietro l’altro. Crozza ha riassunto tutto ciò in una frase: “Ma chi era il consigliere di Bersani: Schettino…?”. E stiamo parlando di un uomo che come ministro aveva fatto un ottimo lavoro. Bersani è un uomo poco comunicativo, senza grossa presenza scenica, sostanzialmente privo di carisma, ma è una persona onesta e perbene. Non si spiegherebbe altrimenti il travaglio interiore dimostrato in questi giorni e ancor più durante l’elezione di Napolitano. Ma a fronte di tutto ciò, l’errore più grosso da lui commesso, sta nel non aver allontanato da se gli avversari. Una volta vinto il congresso, sarebbe stato suo diritto e dovere, fare piazza pulita del dissenso dimostrato verso di lui. Pur nel rispetto delle idee e delle opinioni altrui, un capo non può permettersi di avere una spina conficcata nel fianco, non può consentire che i suoi stessi uomini lo pugnalino alla prima occasione. Non è lecito, ed è proprio c’ho che è avvenuto. Se Bersani fosse stato lungimirante, avrebbe fatto chiarezza all’interno del partito: forse avrebbe perso una fetta di elettorato, ma non sarebbe andato incontro alla sua fine a alla fine rovinosa dell’attuale sinistra. Scrive Machiavelli: “Non è di poca importanza a un Principe la elezione de’ ministri, li quali sono buoni o no, secondo la prudenza del Principe. E la prima coniettura che si fa di un signore, e del cervel suo, è vedere gli uomini che lui ha d’intorno; e quando sono sufficienti e fedeli, sempre si può riputarlo savio, perché ha saputo cognoscergli sufficienti e mantenerseli fedeli. Ma quando siano altrimenti, sempre si può fare non buono giudizio di lui; perché il primo errore che e’ fa, lo fa in questa elezione”. E poco più oltre: “Ma come un Principe possa cognoscere il ministro, ci è questo modo che non falla mai. Quando tu vedi il ministro pensare più a sé, che a te, e che in tutte le azioni vi ricerca l’utile suo, questo tale così fatto mai non fia buon ministro, né mai te ne potrai fidare; perché quello che ha lo Stato di uno in mano, non deve mai pensare a sé, ma al Principe; e non gli ricordare mai cosa, che non appartenga a lui”. Esattamente il contrario di tutto ciò che abbiamo visto in questi giorni.

venerdì 19 aprile 2013

Muore giovane chi è caro agli dei (Menandro)

Quante volte abbiamo sognato di diventare famosi, magari anche solo per quegli esigui quindici minuti di cui parlava Andy Warhol? A chi non farebbe piacere essere stimato, osannato, considerato un faro dell’Umanità? Fama e successo sono le chimere a cui ambiscono più o meno tutti, unico vero modo per eternarsi e sopravvivere a noi stessi e alla marea di anonimato nella quale siamo immersi da sempre. Eppure, stando a quello che sostengono due ricercatori statunitensi, Richard Epstein e Catherine Epstein, incenso e notorietà non farebbero rima con longevità. Lo studio ha preso in esame un migliaio di necrologi pubblicati tra il 2009 e il 2011 sul New York Times, e dai dati emergerebbe che quanto più una persona ha avuto successo, tanto più la sua vita è risultata breve rispetto alla media. In altre parole, quanto più si vive un’esistenza sotto i riflettori della popolarità e del riconoscimento dei propri meriti, tanto più si corre il rischio di “fare le valigie” anzitempo. La ricerca ha catalogato i necrologi in base a sesso, età, attività svolta e causa della morte. E tra le varie categorie di persone “famose”, sono stati presi in esame artisti (attori, cantanti, musicisti, ballerini, scrittori, compositori, pittori) e professionisti (politici, intellettuali, accademici, religiosi ed altri). Nel triennio preso in esame, i decessi degli uomini “famosi” sono stati 813, quelli delle donne “famose” solo 186. Come volevasi dimostrare…! Riguardo alle categorie invece, pare che quanto più un’attività abbia a che fare con la creatività, tanto più si vada incontro ad una morte precoce. Più longevi infatti risultano i docenti universitari, i militari di carriera e i politici. E te pareva: quelli se la sfangano sempre. Le cause di morte più ricorrenti sono riconducibili a incidenti, infezioni come l’HIV e tumori. Questa ricerca non fa che confermare un vecchio e affascinante binomio: “giovinezza e genio”. La creatività è come un fuoco che brucia subito, che divampa con violenza, che esprime precocemente tutte le sue potenzialità e, come un’automobile di grossa cilindrata lanciata a folle velocità, svuota in fretta il serbatoio. Thomas Mann scrive I Buddenbrook a venticinque anni, Mozart muore a 35 anni, Raffaello a 37; Rossini, poco più che ventenne, ha già scritto e rappresentato una decina di opere e a trentasette anni si ritira sostanzialmente dalle scene; Bernini, Mantegna, Leonardo da Vinci e Michelangelo sono dei bambini prodigio, e Torquato Tasso a sette anni dialoga correttamente in latino e greco. E non si tratta solo di un fenomeno legato all’arte: Enrico Fermi a ventun’anni insegna all’Istituto di Fisica della Scuola Normale di Pisa e ha già elaborato importanti teorie sulla meccanica quantistica e sulla fisica atomica; Guglielmo Marconi a ventun’anni ha sostanzialmente inventato la radio, oltre ad aver fatto una miriade di altre scoperte. Qualche anno fa il Professor Flavio Caroli diede alle stampe un libro dal titolo Trentasette - Il mistero del genio adolescente. In questo saggio venivano tratteggiate le vite di dieci grandi artisti morti tutti all’età di trentasette anni (Raffaello, Parmigianino, Valentin de Boulogne, Cantarini, Watteau, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Tancredi, Gnoli, Manai). Caroli si chiede “che cosa sarebbero riusciti a fare questi artisti se avessero continuato a vivere”. Stessa domanda che sorge a tutti noi quando pensiamo ad altri artisti contemporanei, scomparsi prematuramente. Quante meraviglie avrebbe potuto ancora regalarci Fabrizio De Andrè se la morte non ce l’avesse portato via così in fretta? E Massimo Troisi, addormentatosi per sempre in un pomeriggio d’estate, all’età di quarant’uno anni? E ancora Jim Morrison, Janis Joplin, Amy Winehouse; o Modigliani, Boccioni? Tutti congedatisi intorno alla trentina. Quanta bellezza avrebbero regalato ancora all’Umanità? La domanda è più che legittima. Eppure, osservando le biografie di questi personaggi ci rendiamo conto che le loro brevi vite sono state volutamente delle galoppate a briglie sciolte, esistenze sempre al limite, fatte di eccessi, di esagerazioni, sfrenatezze. Genio e sregolatezza, si dice. In ognuno di costoro sembra esserci un fuoco sacro che divora, una costante certezza dell’esiguità della vita, dell’immanenza della fine, della fugacità dei giorni. Ed è per questo che ogni singolo momento è stato vissuto al massimo dell’intensità esistenziale possibile. E così come la vita, anche l’arte per costoro è una straordinaria cavalcata a perdifiato. Contro il tempo. Avrebbero potuto regalarci altri tesori? Forse sì. O forse, proprio perché avevano bruciato le tappe della loro esistenza, non restava loro molto altro da dire. In fin dei conti qualsiasi artista va incontro all’esaurimento della propria vena creativa e d’altra parte il decadimento cognitivo è un destino che attende tutti gli uomini, famosi o non famosi. Ed in ogni caso che vale pensare ad ipotetici capolavori mai realizzati quando possiamo ammirare opere come la Madonna del Cardellino, o ascoltare Crêuza de mä?

giovedì 18 aprile 2013

Le nuove sciuscià

In questi giorni, presso una prestigiosa università milanese, si sta svolgendo una manifestazione sul risparmio, una fiera dedicata al mondo della finanza e degli investimenti speculativi. Ebbene, una delle banche presenti all’iniziativa ha calamitato l’attenzione degli operatori per una trovata a dir poco geniale: presso il proprio stand ha sistemato un piccolo palchetto, due eleganti poltroncine di broccato bianco e, udite udite, ben due splendide ragazze in pantaloni di pelle nera e tacchi a spillo. E cosa fanno queste signorine, oltre ad accogliere i potenziali clienti interessati ai prodotti offerti dalla suddetta banca? È presto detto: armate di guanti, stracci, spazzole e pomate varie, offrono gratuitamente ai signori uomini una veloce lustratina alle loro eleganti calzature. Fantastico, non trovate? Una foto della simpatica trovata è stata messa sul web e in pochi attimi sono piovuti decine di aggraziati commenti: “Il salone del risparmio… dei neuroni”; “Trovo che sia una cosa indegna”; “Quel che non si fa per tirar su un po’ di soldi”; “Umiliante, propongo il boicottaggio della banca”; “Ma no: è lo stand del sadomaso alla fiera Erotica 2013…”; “Anche decenza e rispetto vengono risparmiati?”; “Sarebbe davvero bello sapere chi concepisce idee così originali e di così spiccato buon gusto”; “Siamo in una situazione talmente drammatica che pur di racimolare quattro soldi si accantona la dignità”. E via discorrendo.
In effetti vedere delle donne ridotte in queste condizioni mette addosso davvero una grande tristezza: decenni di battaglie per l’emancipazione femminile, leggi per la parità tra i sessi, lotte per la dignità, l’onore e il riconoscimento dell’importanza del ruolo delle donne nella società, buttati alle ortiche (per non dire di peggio). Siamo d’accordo che ogni lavoro, purché onesto, è legittimo, ma a tutto c’è un limite. Lustrare le scarpe a qualcuno è uno tra i gesti più umilianti che esistano al mondo, oggi come cinquant’anni fa e a qualsiasi latitudine. Non per nulla gli sciuscià erano ragazzini, non già adulti, provenienti tra l’altro dalle classi sociali più misere. Che tale attività oggi sia eseguita da donne - vestite peraltro in maniera spesso provocante - e che i clienti siano uomini, sa di affronto, di disprezzo, di umiliazione. L’indignazione per quest’immagine è stata unanime, e i commenti l’hanno dimostrato. Eppure questa non è affatto una novità: già una quindicina d’anni fa un’importante azienda produttrice di spazzole e spugne per scarpe aveva pensato di disseminare la fiera di Milano di ragazze, rigorosamente in minigonna e tacchi alti, pronte a lustrare le calzature dei visitatori presenti nei padiglioni. Quel giorno ricordo che lavoravo appunto in fiera e venne a trovarmi mio padre. Ebbene anch’egli s’imbatté in una di queste ragazze e senza che quasi se ne accorgesse, costei era già inginocchiata ai suoi piedi per lustrargli le scarpe. Lui si ritrasse quasi scandalizzato, la fece rialzare scuotendo il capo e, prendendole una mano, gliela sfiorò baciandola. E questa: “Ma signore…, questo è il mio lavoro”. Non aggiunse parola: avrebbe sommato umiliazione a umiliazione. Oggi la figura della donna in campo pubblicitario e commerciale ha raggiunto dei livelli miserabili. Il siparietto delle lustrascarpe dell’altro giorno non è che la punta dell’iceberg di un sistema marcio nel midollo, capace di elevare (o meglio abbassare) il corpo femminile a puro trastullo per appetiti pruriginosi. Non c’è reclame, giornale, sito internet o cartellone pubblicitario che non propini belle ragazze esposte come quarti di bue in macelleria. Oltretutto tali affissioni sono spesso causa di spaventosi incidenti sulle strade urbane e soprattutto extraurbane, dovuti alla distrazione degli automobilisti, ipnotizzati dalle curve prosperose delle modelle ritratte. Tra l’altro come si fa a non capire che il continuo proporre nudità, non fa che assuefare anche l’occhio più depravato? Possibile che i pubblicitari non capiscano che l’erotismo viaggia da sempre sul filo del “vedo-non vedo”, e che il piacere della scoperta e dell’immaginazione vale infinitamente di più del senza veli?
Ma tornando a quella triste immagine, qualcuno sostiene che, considerata la crisi economica di questi tempi, occorre adeguarsi e accettare ciò che passa il convento. Già, siamo d’accordo. Ma la crisi quindici anni fa era di là da venire, eppure la donna era fin da allora, e ancor prima, utilizzata per pubblicità assai poco dignitose. E quindi, come la mettiamo? Anche le donne in questo caso hanno le loro buone colpe: certo è molto più attraente guadagnare molti soldi andandosene in giro ben vestite e accompagnate da commenti salaci e sguardi maliziosi, piuttosto che fare le pulizie in un ufficio o assistere una persona anziana non autosufficiente per quattro centesimi. Non si tratta dunque di accettare ciò che passa il convento: qui siamo di fronte ad una crisi che non ha nulla a che fare con l’economia. Questa è una crisi di valori: questo nostro meraviglioso mondo occidentale, il migliore possibile si dice, non ha più un grammo di dignità, non ha più decoro. Non esiste più rispetto per la donna, ma nemmeno per l’uomo. L’antico onore, che un tempo avrebbe considerato osceno farsi pulire le scarpe da una donna, ha lasciato campo al cattivo gusto, all’abiezione morale, all’insensibilità verso il prossimo. Non siamo più una società, ma solo un insieme di individui che vivono sfruttandosi gli uni con gli altri, in una sorta di prostituzione collettiva finalizzata ad un unico, grande scopo: il dio denaro. A questo siamo ridotti. Che il Cielo ci assista.

mercoledì 17 aprile 2013

Del come e del perché cambiare una gomma bucata

Oggi il blog poteva e forse doveva trattare dell’imminente elezione del Capo dello Stato, anche perché ormai mancano due giorni al lieto (si spera) evento e già circolano alcuni nomi di papabili. E sebbene sia risaputo che “chi entra Papa in Conclave, ne esce cardinale”, c’è una buona probabilità che qualcuno di questi divenga davvero il dodicesimo Presidente della Repubblica. Dalle “Quirinalie” del Movimento Cinque Stelle, per esempio, sono emersi personaggi come Milena Gabanelli, Gino Strada, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelski. Gradi novità dunque. Vedremo se il Parlamento riuscirà a cogliere quest’occasione o se, come al solito, la spunterà qualche vecchia cariatide mummificata, capace solo di garantire e rafforzare l’orrore che ci ha travolto fino ad oggi. Ma come vi dicevo, oggi non possiamo occuparci di questi argomenti, dato che un’urgenza maggiore ci spinge. L’altra notte ero di turno in 118 e come ogni volta sono uscito di casa intorno alle 23.30 per prendere servizio a mezzanotte. Appena mi sono avviato con l’automobile ho cominciato a sentire un rumore strano, come un leggero ruggito. L’auto sembrava un po’ frenata e non rispondeva come al solito. In prossimità di alcuni restringimenti stradali poi, mi pareva che il rumore aumentasse. Ad ogni modo il problema non mi sembrava cosa grave e così ho continuato la mia strada. Certo la mente girava, girava a mille alla ricerca di una possibile spiegazione, e tutto ciò a cui riusciva a pensare era la marmitta. Che pure sarebbe stato un bel guaio, naturalmente. Fatto sta che giunto in sede, mi sono completamente dimenticato della faccenda. Il mattino dopo, quando ho smontato alle sette, mi sono rimesso in macchina e ho preso la via di casa. Ed ecco lo stesso rumore della sera prima. Questa volta però ancora più accentuato. Dopo qualche chilometro, con un ritardo a questo punto francamente imbarazzante, mi sono reso conto che si trattava di un problema alla gomma posteriore sinistra. Da quel momento gli altri automobilisti hanno cominciato a “lampeggiarmi il problema”. Il tempo di trovare uno spiazzo per fermarmi ed il copertone aveva esalato gli ultimi respiri. Quando sono sceso dalla vettura, e ho buttato lo sguardo su quella ruota, mi sono spaventato: il (o lo, come dicono i puristi) pneumatico era completamente squarciato ed emanava un odore acre di bruciato. Dopo le opportune ed abbondanti imprecazioni, mi sono messo all’opera. Ho aperto il portellone del bagagliaio, ho tirato giù le innumerevoli cianfrusaglie che da tempo immemore qui hanno trovato dimora, e sono partito alla ricerca degli attrezzi. La chiave per svitare i bulloni l’ho trovata subito, del crick nessuna traccia. Pensa e ripensa, e finalmente mi è venuto in testa di guardare sotto il cofano anteriore. Ed in effetti, nascosto prudentemente in un anfratto recondito, ho scovato il maledetto. Impolverato ed incrostato all’inverosimile l’ho sistemato per terra e ho iniziato a girare la vite che consente la sua estensione. E già qui ho dovuto fare una gran fatica dato che il suo inutilizzo, datato anni, l’aveva reso ostico a qualsiasi concessione. A quel punto ho tirato giù la ruota di scorta (malmessa anche lei…) e mi sono preparato per l’operazione. Con la chiave ho provato a svitare il primo bullone: niente da fare. Ho provato col secondo: stesso risultato. Qualche attimo di riflessione e sono ripartito alla carica, questa volta aiutandomi anche con il piede destro come leva. Tutto vano. Ma perché i gommisti stringono così forte sti bulloni? Possibile che un povero disgraziato non possa sostituirsi una maledetta gomma senza dover impazzire? E soprattutto senza dover chiamare il costoso carro-attrezzi? Non mi restava che cercare aiuto. Ho chiamato un mio amico e questi mi ha raggiunto dopo una ventina di minuto. Munito molto saggiamente di mazzetta da muratore, martello da campeggio, lubrificante spray, stracci e detergente per le mani. E così, dai e ridai, i tenaci bulloni hanno ceduto. Finalmente fiducioso ho preso la ruota di scorta e mi sono avvicinato per la sostituzione di quella danneggiata. Ma solo allora mi sono accorto che il pneumatico era desolatamente sgonfio. E dunque inservibile. Non mi sono perso d’animo: ho caricato la ruota sull’auto del mio amico e mi sono avviato molto velocemente verso il vicino distributore di benzina. Qui, dopo un opportuno rifornimento di benzina, ho chiesto di usare la pistola ad aria compressa per gonfiare il pneumatico. Sembrava tutto risolto, ma come nei più sofisticati thriller, ecco la sorpresa: la gomma perde. Un sibilo sinistro esce da una piccola fenditura di spalla e dunque siamo al punto di partenza. Comunico al mio amico la simpatica notizia e mi precipito verso il gommista, sperando che sia già aperto. Questa volta sono fortunato: tempo mezz’ora e sono sulla via di ritorno. E così, risolti tutti i problemi, sono riuscito finalmente a sostituire la ruota e a tornare a casa. Stravolto.
Ecco dunque cosa c’insegna questa vicenda: prima di tutto che la manutenzione ordinaria dell’attrezzatura di bordo deve essere fatta costantemente. È seccante sì, ma è altresì necessaria. E poi basta poco ed evita un mare di guai. In secondo luogo la ruota di scorta deve essere sempre in buone condizioni: altrimenti, com’è capitato a meno, non è altro che un peso inutile scorazzato in giro per anni. Come terza cosa occorre rendersi conto che i pochi attrezzi presenti sulle nostre automobili sono spesso del tutto insufficienti in caso di emergenza. Se non avessi avuto un martello per vincere la resistenza dei bulloni, non ce l’avrei mai fatta. Mi vengono in mente altre cose, tipo una torcia funzionante (meglio se frontale, così che le mani siano libere), del detergente, una tanichetta d’acqua, degli stracci, un paio di guanti da lavoro, un indumento pesante per coprirvi d’inverno in caso di auto bloccata. Ecco, pensate ad una qualsiasi emergenza nelle diverse stagioni, e qualcosa vi verrà in mente. Perché non accade, ma metti caso che accada almeno abbiamo qualche chance in più di cavarcela da soli. A me per esempio, nonostante abbia la patente da oltre vent’anni, non era mai capitato di forare un pneumatico…!
Se poi proprio non ce la si fa, bon, chiamiamo l’Aci e non se ne parla più. Come fece Furio, il pignolo e pedante protagonista del film Bianco, rosso e Verdone (Italia, 1981): “Magda, vado a chiamare il soccorso Aci”. “Ma Furio, per una gomma”. “Magda, è un nostro diritto chiamare e un loro dovere arrivare: d’accordo?”. Ma nel mentre si allontana per raggiungere la colonnina del soccorso, un play-boy affascinante si ferma ad aiutare la bella Magda. E così, in un baleno la sostituzione è bell’e fatta. Ma quando torna Furio scoppia il pandemonio: “Ma che figura barbina mi fai fare…?”. E così giù di nuovo la gomma sana e su quella buca. Morale? Magda alla prima occasione pianta il marito e se ne va col bel rubacuori. E il tutto per una gomma bucata…!

martedì 16 aprile 2013

Tutto è vanità

Domenica scorsa si sono svolte le prime comunioni. Il Duomo era gremita all’inverosimile, l’altare addobbato a festa e in ogni angolo vi erano vasi e mazzi di fiori. All’inizio, dato lo sfarzo dei presenti, ho creduto che si trattasse di un matrimonio. Poi però, accompagnata da una frizzante musica d’organo, una schiera di adolescenti ha fatto il suo ingresso in chiesa. Si trattava per lo più di ragazzine vestite di bianco candido, suorine dallo sguardo raggiante, a tratti confuso e curioso. I maschi erano due o tre in tutto, e abbigliati alla maniera di uomini in miniatura, apparivano più spauriti e in imbarazzo rispetto alle loro coetanee. Oggi come trent’anni fa, la prima comunione si riceve in terza elementare, all’età di 10-11 anni. Ricordo bene quel giorno, era primavera e c’era un sole delle grandi occasioni. Si trattava di una grande festa, una celebrazione che riguardava tutta la comunità. Anche perché i ragazzini a quell’epoca erano ancora tantissimi. I miei comprarono per me un elegante abito beige, con un giacchino corto chiuso con una cerniera lampo. Doveva costare molto, soprattutto tenendo conto che sarebbe stato usato una sola volta: tipo un matrimonio. Dopo la cerimonia ci furono le foto: in una appaio accanto al mio compagno di classe Daniele, il gigante buono della scuola. Io mostro un sorriso un po’ forzato, lui un’espressione spenta e seccata. Che tremenda costrizione fu tutta quella lunga giornata. Sul piazzale della chiesa altre foto: anche una di gruppo con la maestra Alba Segantini Notarangelo. I miei sono ancora nel pieno della giovinezza, avranno non più di 35 anni. E sono felicissimi. La festa si concluse in un ristorante sul lago di Lecco, se non ricordo male.
E così, domenica scorsa, la chiesa era strapiena di persone mai viste prima. Tutte molto eleganti, si aggiravano con sguardo attento e indaffarato lungo le navate, alla ricerca della miglior sistemazione possibile. Gli uomini tutti sfoggiavano giacca e cravatta, le donne tailleur colorati, scarpe tacco dodici, borsette plissettate. Trucco e parrucco da dive di Hollywood. Per tutta la chiesa poi, si spandevano intense fragranze d’eau de toilette e acqua di colonia, tanto che neanche l’incenso del turibolo poteva coprirle. E più si avvicinava il momento clou dell’inizio della cerimonia, più montava in tutti costoro come un senso di agitazione, una frenesia spasmodica di assistere all’evento. E non soddisfatti della postazione occupata, molti si levavano in piedi e si avviavano con occhio innervato, verso lidi più promettenti. E nel fare ciò, neanche un briciolo di gentilezza e cortesia per il vicino di banco, non un grammo di educazione, ma solo spinte, spallate senza parole o sguardi di scuse, calcetti e piedi schiacciati. In una confusione magmatica, all’improvviso il sacerdote ha preso il microfono e ha esclamato: “Come da accordi presi in precedenza, invito tutti i presenti a spegnere telefonini e fotocamere. Al termine della cerimonia sarete liberi di fare tutte le foto che volete”. Neanche cinque minuti e il primo cellulare ha cominciato a squillare, disturbando peraltro e quindici fotografi assiepati intorno all’altare. In una baraonda sempre più crescente, fatta di chiacchiericci di sottofondo, risatine, borbottamenti e pianti di pargoletti in fasce, la funzione si è trascinata fino alla conclusione. Accompagnata dall’incessante defilé di moda di un’adolescente, abbigliata con un top bianco striminzito e una minigonna talmente corta da mettere in mostra quasi integralmente le sue acerbe natiche.
Assistendo a tutta questa fiera dell’effimero e del cattivo gusto, ho incominciato a interrogarmi su che senso avesse tutto questo. Tutta questa ostentazione di opulenza, quest’eleganza posticcia, questo schiamazzo da Carnevale, c’entrano qualcosa con la religione cattolica, con la fede, la Chiesa? E tutto questo chiasso, questo strepito, questa baldoria sguaiata, ha qualcosa di vagamente riconducibile alla sacralità del rito eucaristico? All’essere cristiani e cattolici? E facendomi queste domande, mi sono accorto, per la prima volta e a malincuore, di dover dare ragione alla mia amica Elettra, da sempre acerrima avversaria dei “credenti ipocriti”, come dice lei, quelli che si riempiono la bocca di parole evangeliche e poi agiscono senza alcun riguardo per la loro fede. Quante volte ci siamo azzuffati su questo argomento, e quante volte io stesso mi sono sentito rivolgere quest’accusa, incapace di replicare alle sue acute stilettate. In questo caso però siamo su un altro piano ancora, qui l’ipocrisia non c’entra affatto. La maggior parte dei presenti non s’era mai vista prima dell’altro giorno in chiesa: al netto di parenti e amici giunti da fuori città, qui siamo in presenza di persone che, pur professandosi credenti, in chiesa non entrano mai, se non appunto in occasione di matrimoni, cresime e comunioni. E forse dei funerali, ma non ne sono sicurissimo. Sono i cosiddetti “credenti non praticanti”, coloro che hanno fiducia in Dio, ma non nella Chiesa (e men che meno nel Vaticano), coloro che amano più la scenografia che non la cerimonia, più la festa fine a se stessa che non l’essenza sacramentale. Persone che ricordano di essere cattoliche solo nelle grandi occasioni, e dietro opportuna richiesta di partecipazione.
Non saprei dire se questo sfogo da borbottone un po’ bigotto sia effetto dell’età avanzante. Fatto sta che più passa il tempo e più mi scopro intollerante e insofferente alla sguaiataggine, al cattivo gusto e all’arroganza della vacuità. Non mi ci ritrovo più in questa società che ha perso qualsiasi senso del decoro, della misura e della dignità. Siamo arrivati perfino ad applaudire ai funerali, sporcando di chiasso e caos la sacralità della morte. Non per niente qualche tempo fa il parroco ha tuonato: “La prossima volta ne prendo a calci qualcuno”.
Mi piacerebbe tornare per un attimo solo a quel giorno di trent’anni fa - quando ragazzino mi avvicinavo anch’io alla prima comunione - e guardare quella chiesa piena, osservare i volti delle persone, ascoltare ciò che dicono o ciò che non dicono. Chissà che scena avrei sotto i miei occhi? Se fosse troppo dissimile da quella vista l’altro giorno vorrebbe dire che sto proprio invecchiando. In caso contrario, sarebbe anche peggio.

lunedì 15 aprile 2013

L’eroe senza medaglie

Venerdì scorso, sull’ammiraglia Rai, e in prima serata, è stato trasmesso un nuovo, fantasmagorico programma, d’intrattenimento: “Eroi di tutti i giorni”. In uno studio da cerimonia hollywoodiana, con tanto di pubblico di prima qualità (non retribuito, probabilmente), luci e riflettori delle grande occasione e scenografia sapientemente curata, sono andati in scena i gesti di coraggio e di eroismo di alcune persone cosiddette “comuni”, premiate per le loro virtù “eroiche”. A consegnare i trofei, sono stati chiamati alcuni personaggi preclari del jet-set, da Massimiliano Rosolino a Martina Colombari, da Ettore Tirabassi (quello del Commissario Rex) a Enzo Iacchetti. Fin da subito, devo essere sincero, sono stato assalito da un forte senso di nausea. C’era il ragazzino tutto azzimato e impomatato che entrava in scena preceduto da un filmato che lo rappresentava come un cherubino sceso dal cielo; e poi c’era la bimbetta salvata dalle acque, esposta come la personificazione stessa del miracolo, e per questo intimorita e spaventata da tutta quella confusione; e poi c’era l’altro “eroe”, quello che vedendo l’amico privo di sensi, parte con un massaggio cardiaco (imparato da autodidatta guardando i telefilm alla televisione: sic) e continua a massaggiare nonostante questi respiri: c’è da meravigliarsi che il poveretto sia sopravvissuto. A questo punto non ce l’ho più fatta ed ho cambiato canale. Scoprendo solo allora che c’era Crozza alle prese con la parodia di Maroni. Spettacolare.
Perché mi ha dato tanto fastidio questo programma? Ma la ragione è molto semplice: elevare a spettacolo un atto di eroismo, o presunto tale, equivale a svilire in radice tutto ciò che c’è di buono in un gesto come questo. Fare qualcosa per il prossimo, anche e soprattutto a rischio della propria incolumità, è forse l’azione più nobile che possa compiere un uomo, ed è nobile e degna di lode, proprio perché è disinteressata, spontanea e priva di calcolo. Che senso ha conferire un trofeo per un gesto d’altruismo? Chi mai potrà essere all’altezza di consegnare un riconoscimento per un atto di eroismo? E poi, perché? Per gloriarsi del bel gesto, per esporre a mo’ di vanto il proprio eroismo? Quando si decide di aiutare qualcuno lo si fa perché è la parte più profonda di noi stessi che ci spinge, è il senso di umanità che ci fa stringere intorno ai nostri simili. Se c’è qualcuno che affoga, gli si tende la mano istintivamente (si trattasse anche del peggior politicante della prima repubblica…), senza pensare a nulla. Spesso senza neanche valutare i rischi per la propria vita. Ed infatti molte volte accade che i soccorritori rimangano vittime a loro volta. Ebbene, tutto ciò, stride in maniera assordante con lo spettacolo che è andato in onda l’altra sera. L’eroe è per definizione un personaggio schivo, lontano dai riflettori, avvolto da un alone di mistero. Non per nulla nell’antichità classica l’eroe era un semidio, un’entità trascendentale che correva in aiuto dell’uomo, ma che ne restava lontano, inafferrabile, indefinibile. Prometeo, Ercole, Achille, erano figure epiche, mitologiche, modelli da seguire ed emulare, eppure irraggiungibili ed ineguagliabili. L’eroe per essere tale dev’essere un’ombra che passa benefica accanto al prossimo e poi si dilegua; dev’essere anonimo, completamente avulso dall’ordinarietà. Anche perché la presenza costante di un eroe nelle nostre vite ci costringerebbe ad un continuo raffronto con noi stessi, con le nostre piccolezze e miserie quotidiane, e alla lunga ci renderebbe antipatico perfino questo simulacro di perfezione. Quando il 10 giugno del 1981 Alfredino Rampi cade nel pozzo artesiano di Vermicino, nessun soccorritore è in grado raggiungerlo: il cunicolo è troppo stretto e nessuno riesce a calarsi laggiù. Angelo Licheri, tipografo sardo di 37 anni, quella sera, come tutti gli italiani, guarda alla televisione quella tragedia e si rende conto che forse, con il suo fisico esile, riuscirà a calarsi laggiù. Non ci pensa un attimo ed esce. E alla moglie che gli chiede dove stesse andando, risponde “a prendere le sigarette”. È quasi mezzanotte quando gli legano una corda alle caviglie, gli sistemano una torcia elettrica sulla fronte e lo calano a testa in giù. Angelo scende fino a sessanta metri di profondità, nell’oscurità più spaventosa. Raggiunge Alfredino, gli parla, gli pulisce la bocca, cerca di afferrargli la mano, ma non vi riesce a causa del fango e dell’angustia del buco. A quel punto, dall’alto, i soccorritori lo tirano su: da che è sceso sono trascorsi 45 minuti (contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione). Angelo è in stato confusionale e scoppia a piangere per la disperazione di non essere riuscito a salvare la vita di quel bambino. Alfredino verrà dichiarato morto il mattino seguente. Angelo Licheri, in seguito a quei drammatici accadimenti, divenne per tutti “l’Eroe di Vermicino”. I media avevano pronti per lui riflettori, trasmissioni televisive, interviste sui giornali, le autorità si preparavano ad insignirlo di medaglie, targhe e titoli onorifici. Ma egli rifiutò sempre tutto, sostenendo di non sentirsi l’eroe di cui tutti parlavano. E così come era entrato in sordina sulla scena, alla stessa maniera se ne tornò nell’anonimato della sua vita di periferia. Senza chiedere nulla, senza ostentare nulla. Da perfetta “persona comune”. Ecco, questo è un eroe.

venerdì 12 aprile 2013

Ricerche, sondaggi e opinioni per un fine settimana da leoni (o da fresconi...)

E per chiudere la settimana ecco pronta una bella lista di news tutta da leccarsi le dita. Partiamo subito con una ricerca condotta dal Centro Studi e documentazione della compagnia assicurativa Direct Line: un italiano su sette dichiara di aver compiuto atti di vandalismo come ritorsione contro qualcuno. Nella maggior parte dei casi si tratta di vendette personali contro ex-fidanzati/e, vicini rumorosi, colleghi rompicoglioni e altri automobilisti che fanno strame del codice della strada e delle buone manieri. E quali sono le parti più “attenzionate” dai vandali? Carrozzeria, specchietti retrovisori e tergicristalli. Buone percentuali anche per vetri e gomme. Ad essere sinceri, anche a me è capitato più di una volta di pensare ad un gesto di questo tipo: quando trovi delle vetture parcheggiare sulle piste ciclabili, oppure in doppia fila o anche sulle strisce pedonali, ti vie sì la voglia di reagire con violenza. Anche perché, a dirla tutta, non sempre si riesce ad avere adeguata tutela da vigili e forze dell’ordine. Una volta, ricordo, mi capitò di parcheggiare in zona Porta Nuova, a Milano. Al mio ritorno trovai un’automobile in doppia fila che ostruiva completamente la mia uscita. Cominciai a suonare il clacson come un dannato, imprecando come un malato di mente del manicomio di Cogoleto. Niente di niente. All’improvviso mi si avvicinò un vigile con il libretto delle contravvenzioni in mano. «Lei sta arrecando disturbo alla cittadinanza…». «Come dice, scusi» - risposi. Non credevo alle mie orecchie. «Con il suo clacson…». Cercai di spiegargli che ero bloccato da mezzora per via di quella macchina in seconda fila. Riuscii a stento ad evitare la multa, ma alla mia richiesta di aiuto per quella triste situazione, il vigile rispose assai opportunamente: «Faccia così, vada a dare un’occhiata nei negozi della via, provi a chiedere di chi è questo suv e vedrà che troverà il suo autista». Ora io non è che pretendessi subito un carro-attrezzi, ci mancherebbe, siamo pur sempre in Italia e i mezzi sono pochi, malridotti e con poca benzina nei serbatoi, ma almeno mi sarei aspettato che quel solerte tutore dell’ordine, così pronto a sanzionarmi per la mia clacsonata, elevasse una contravvenzione per divieto di sosta a quel fottuto fuoristrada. E invece nulla. Davvero mi venne una gran voglia di spaccare qualcosa…!

E passiamo alla notizia numero due. Un recente sondaggio condotto da Infojobs, il portale che si occupa di ricerche di lavoro, afferma che quasi la metà degli intervistati (47,4 per cento) dichiara di avere un buon rapporto con i propri colleghi di lavoro. Un intervistato su tre viceversa sostiene di coltivare buoni rapporti solo con le persone che sentono più vicine, mentre il 18 per cento confessa di avere relazioni formali e puramente professionali. Solo il 2 per cento del campione dichiara di incorrere spesso in litigi o situazioni conflittuali. Bah, che dire: o io mi sono trovato sempre nei posti sbagliati, nel momento sbagliato, o qui c’è qualcuno che non dice tutta la verità. Nella mia carriera lavorativa ho affrontato licenziamenti in tronco, espulsioni, dimissioni con litigate furiose, scazzottate.
Ma andiamo avanti: per un intervistato su due l’amicizia tra colleghi influisce positivamente sul rendimento lavorativo. Ed anche qui ci sarebbe qualcosa da obiettare: come la mettiamo se due amici, all’improvviso, si trovano in disaccordo o in contrasto su una questione di primaria importanza? O nel caso in cui, uno dei due venga promosso e s’instauri un rapporto gerarchico tra loro? E ancora: oltre la metà degli intervistati che ha allacciato amicizie sul luogo di lavoro dichiara che queste si sono poi rivelate esclusivamente “rapporti di interesse”. Caspita. Allora non è poi così sbagliato dire che l’amicizia uno se la sceglie…!

Ed eccoci alla notizia numero tre. Stando ai dati raccolti ed elaborati dalla Temple University di Philadelphia, sembrerebbe che nei quartieri in cui vi è tanto verde pubblico, il tasso di criminalità è più basso rispetto ad altre zone della città. Accipicchia, e noi sciocchi, che abbiamo sempre pensato che nei parchetti e nei giardini comunali si annidassero delinquenti, drogati e spacciatori, nascosti dal fitto della vegetazione. Secondo i ricercatori, il fruire di verde pubblico crea le basi per una convivenza migliore: maggiore interazione sociale, maggior senso di appartenenza, più cura e rispetto per gli spazi pubblici. Da ciò ne deriverebbe una maggior vigilanza, controllo e occupazione dei luoghi comuni da parte dei cittadini e di conseguenza un restringimento degli spazi e delle opportunità per la criminalità. Quanto mi piacerebbe che tutto ciò fosse vero…!

E passiamo ad un nuovo argomento. La Commissione britannica per l’eguaglianza e i diritti umani, ha da poco emanato un documento in cui vi si legge che, il veganesimo e le convinzioni ecologiche sono equiparate alle fedi religiose sul posto di lavoro. E come tali vanno assolutamente rispettate ed anzi promosse. Tale elaborato si poggia su una serie di recenti sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che hanno preso in esame specifiche convinzioni da cui discendono determinati comportamenti e abitudini di appartenenti a religioni diverse. A sto punto, se un vegano decidesse di rifiutare una sedia in pelle (anche non umana), il datore di lavoro sarebbe costretto a fornirgliene una in legno e paglia. Idem nel caso in cui un ecologista si rifiutasse di prendere l’aereo per un appuntamento di lavoro, dato che le emissioni prodotte da tale mezzo di trasporto sono nocive e massicce. Non è dato sapere se il datore di lavoro in questo caso è tenuto o meno a fornire quadrupede e biroccino al dipendente. In ogni caso, fa sapere la Commissione, che tale documento non ha forza di legge, ma intende solo fornire indicazioni e suggerimenti per una migliore convivenza civile. Auguri.

Ed ora occupiamoci di una notizia decisamente più leggera: non indossare il reggiseno o portarlo solo di tanto in tanto non solo non fa cadere i seni, ma anzi aiuta a tenerli su. Ma dai, questa è veramente sensazionale. Eppure si sa che l’effetto gravitazionale, col tempo, tende a portare verso il basso tutto ciò che un tempo si trovava turgidamente in alto. Problema comune non solo alle donne, direi, ma anche agli uomini. Non per niente, da ormai molti decenni, le classiche mutande modello boxer - quelle che lasciavano grande libertà “d’opinione” - sono state sostituite da agghiaccianti slip contenitivi. Per non parlare degli orrendissimi sospensori. Eppure, a sentire alcuni studiosi francesi dell’Ospedale di Besancon, che da quindici anni seguono i casi di 130 donne, i seni privi di sostegno non avrebbero alcuna tendenza a ricadere col passare degli anni. Al contrario invece, lasciarli liberi e in balia degli eventi, li aiuterebbe a restare alti e a mantenersi meglio. Bon, da domani tutte le donne sono invitate a disfarsi di quell’inutile e deleterio indumento intimo. E con l’arrivo dell’estate, via libera al topless cittadino.

E per concludere la notizia balenga: Just Eat, il colosso mondiale della consegna a domicilio, ha realizzato un’indagine per sondare gli usi alternativi che se ne fa della cucina. Dai risultati emergerebbe che per otto italiani su dieci è questa la stanza che più di ogni altra, soprattutto tra gli uomini, accende fantasie e desideri erotici. Il sondaggio ha chiesto ai propri utenti anche quali siano le posizioni preferite per un incontro d’amore in questa nuova alcova del piacere, e questa è la classifica: al primo posto troviamo la posizione dello chef (26,5 per cento) - a quanto pare molto amata dalle donne; sulla piazza d’onore la posizione dell’impastatore (???); sul terzo gradino quella del lavapiatti (???????). In fondo alla classifica la posizione del salumiere, del pizzaiolo, dell’aiuto-cuoco e del fattorino. Chi avesse contezza di qualcosa di tutto ciò è pregato di comunicarlo urgentemente alla redazione. Grazie.

giovedì 11 aprile 2013

La giornata ideale

“Day Reconstruction Method”. È questo il nome che Sebastian Pokutta dell’Università Jacobs de Brema e Christian Kroll, docente alla Georgia Tech statunitense, hanno dato al loro studio volto a classificare le attività della giornata in base alla soddisfazione che offrono. In altre parole è stato chiesto ad un gruppo di persone di immaginare la propria giornata ideale: cosa farebbero, avendone la possibilità, per assaporare pienamente felicità, soddisfazione personale e benessere interiore. I criteri presi in esami dalla ricerca riguardano tutte le maggiori tematiche della vita, dal matrimonio al lavoro, dal successo economico alla sfera affettiva, e sono inquadrati nell’arco temporale delle sedici ore della giornata (escluse dunque le otto ore di sonno). E cosa è saltato fuori da questo meraviglioso gioco dell’assurdo? È presto detto: al primo posto, con ben 106 minuti tondi, si classifica la voce “Intimate relations”, tradotto in maniera assai sbrigativa dai nostri media con la parola “sesso”. Meglio sarebbe restare fedeli al testo e tradurre con “Relazioni intime”. Che ha ben altra valenza e portata. Al secondo posto, con 82 minuti, troviamo la voce “Socializing”. E già qui possiamo fare due conti: ben tre ore della giornata dedicate alla sfera affettiva e relazionale: che meraviglia. A seguire troviamo “Relaxing” (78 minuti), “Eating” (75), “Pray/meditate” (73), “Exercising” (68), “On the phone” (57). Mio Dio, 57 minuti al telefono??? Già…, e non finisce qui: “Shopping” (56), “Watching TV” (55), “Preparing food” (50). Al fondo della classifica, dopo la cura della casa, la cura dei figli, il computer e altro ancora, troviamo… udite udite: “Working”, con la bellezza di 36 minuti. Per avere il massimo del benessere possibile, ad un individuo medio basta poco più di mezzora di lavoro. Caspita, questa sì che è una vera novità. Alla faccia di tutte le affermazioni retoriche che, fin dai tempi di Stakanov, hanno magnificato il lavoro come manifestazione di progresso civile, evoluzione umana, appagamento, soddisfazione, gioia. Ma fatemi il piacere: il lavoro è fatica e questa ricerca non fa che confermare ciò che tutti pensiamo. Da sempre.
In merito a ciò, da qualche giorno il mio amico Alessandro di Roma ha cominciato a scrivermi messaggi di questo tenore: “Ah Luì, e qua bisogna dasse ‘na mossa. Me so rotto de fa’ er poveraccio, de campa’ in una squallida catapecchia de periferia. Vojo vivere in un attico a Piazza de Spagna, avecce la villa al mare e la barca ormeggiata al porticciolo. Dovemo trova’ ‘na soluzione”. Al che ho risposto: “Non saprei, potremmo magari lanciarci nel business dei tombaroli”. E lui: “Daje, non scherzamo…! Ho studiato la situazione, direi che tra i giochi disponibili e che possiamo tentare con maggior fortuna (o forse meglio dire con minor sfortuna) ci sarebbero le varie forme del Lotto, escluso il Superenalotto perché sono soldi quasi certamente buttati. Il calcolo delle probabilità è davvero feroce. Dovremmo giocare un mega-sistemone, e possibilmente trovare un finanziatore. Quel tuo amico maratoneta, come sta messo a quattrini?”. “Non saprei, mo chiedo…!”.
In effetti, chi di noi non ha mai pensato e sperato di fare una grossa vincita e di sistemarsi per tutta la vita? Certo le probabilità di incassare qualche milionata al gioco, come dice giustamente Alessandro, sono veramente pochissime, quasi una chimera. Ci vorrebbe una fortuna sfacciata. Meglio a sto punto sarebbe scoprirsi all’improvviso unici eredi del classico zio d’America. Ma ci pensate, da un giorno all’altro la vita sarebbe stravolta letteralmente: niente più lavoro, niente più ufficio con colleghi rompicoglioni annessi, niente più mutuo, ristrettezze, sacrifici. Solo un’esistenza fatta di agiatezza, relax, niente pensieri, piaceri senza limiti.
Già, ma per avere tutto ciò, cosa sareste disposti a fare? Leggete un po’ quanto segue e meditate… meditate:

«Sa perché c’è tanta delinquenza in giro? Perché non c’è più nessuno che abbia voglia di lavorare, caro ragionier Fantozzi!». Gli diceva Filini in uno di quei terrificanti pomeriggi di aprile, nei quali gli veniva voglia, guardando la primavera fuori, di fare tutto: andare al mare, leggere un libro sotto una magnolia, innamorarsi di una ragazza di 22 anni, giocare a bocce, portare sua figlia al cinema, ma non certo di stare otto ore in quella fogna maledetta. «Be’, in fondo noi non ci dovremmo lamentare – rispose Fantozzi – perché se osserviamo bene la condizione di tutti gli altri, noi siamo forse i più felici o meglio i meno infelici: non abbiamo le responsabilità che hanno i dirigenti, abbiamo la cassa malattia, la mensa, il sabato libero, le ferie pagate e soprattutto lo stipendio assicurato…». «Fame assicurata…! – lo interruppe Filini quasi incazzato – caro il mio illuso, con quello che costa vivere oggi lei ha solo la sicurezza di morire di fame, nessuno a voglia di fare un cazzo, i giovani vogliono tutto e subito, nessuno è disposto a fare sacrifici di nessun tipo» fece una pausa «alle volte mi verrebbe voglia di fare una rapina e mettermi a posto per tutta la vita». Si guardarono negli occhi con una strana intensità, in silenzio per quasi sei minuti poi Filini disse: «Ragioniere e se tentassimo? E metta caso che andasse bene, se l’immagina le soddisfazioni?». Fantozzi aveva la faccia rossa per l’emozioni: «Io come prima cosa andrei su da Colombani senza farmi annunciare, entrerei di colpo e gli cagherei sulla moquette». «Io – disse Filini – entrerei nudo da Semenzara, gli piscerei sulla scrivania e rutterei a pieni polmoni». Si stavano caricando come bestie. «Io – incalzò Fantozzi – andrei su da Catellani con un giornale pieno di merda e gli direi: “Ci sono brutte notizie per lei, legga qui” e glielo strofinerei sulla faccia». «E s’immagina ragioniere, non doversi più svegliare alle sette, asportarsi una basetta con una rasoiata e scaraventarsi in questa fogna!». «Ma invece – incalzò Fantozzi – svegliarsi alle undici, prendere un caffè a letto, leggere la Gazzetta dello Sport in cesso, una lunga, lenta barba in una vasca calda, una camicia croccante e lentamente scendere al bar a giocare a biliardo». «Il pomeriggio – disse Filini che aveva quasi le lacrime agli occhi – una pennichella fino alle sedici e trenta, un bel caffeuccio e poi al cinema». Si guardarono ancora lungamente negli occhi. Poi Filini, rompendo un altro silenzio di sei minuti disse: «Eh, ma se tentassimo sul serio, ma proprio sul serio?».
(Fantozzi contro tutti, Rizzoli 1979).

P.S. Vi risparmio il finale perché è veramente agghiacciante...!

mercoledì 10 aprile 2013

Stanchi della solita routine? Regalatevi un bel rapimento

In questi ultimi tempi c’è capitato di incrociare notizie di tutti i generi, ma quella che andrete a leggere tra breve ha davvero del sensazionale. Qualche tempo fa ci siamo occupati della noia, di questo strano stato d’animo che induce le persone a ricercare sensazioni ed esperienze, anche forti, per uscire dallo stallo esistenziale. Ebbene, dagli Stati Uniti arriva ora una strabiliante novità: l’Extreme Kidnapping (rapimento estremo). Adam Thick, di Detroit, rifacendosi ad un film di successo del 1997, The Game, interpretato da Michael Douglas, ha recentemente fondato un’azienda che organizza rapimenti (finti, s’intende) per individui annoiati e in cerca di emozioni forti. Certo la routine quotidiana è una gran seccatura, questo va da sé, e dunque è giusto sondare nuove frontiere. Che emozione mai ci può essere ancora nella classica serata cittadina, consumata tra happy hour chiassosi, pizzerie gestite da finti napoletani e cinema mortiferi? Nulla, ovviamente. E così, per una cifra che oscilla fra i 500 e i 1.200 dollari, ecco pronto per voi un bel rapimento, condito con il classico repertorio associato a tali eventi: minacce con armi da fuoco, insulti, calcioni sul coccige, sberle sul muso, tirate di capelli, spray al peperoncino negli occhi, morsicature sulle mani. Oltre naturalmente allo scotch biadesivo sulla bocca e alla reggetta in plastica per bloccare i polsi. Che meraviglia: finalmente qualcosa di adrenalinico. Poi, a seconda del pacchetto che si è scelto, si possono avere anche altri tipi di prestazioni: lungo periodo di sequestro, con tanto di amputazione del lobo dell’orecchio per il riscatto; telefonate minatorie ai parenti (anche non avvisati dello scherzo); altri generi di sevizie su richiesta, come fustigazioni, privazioni del sonno, inginocchiatoi con ceci incorporati. Insomma, avendo una buona disponibilità economica c’è veramente da sbizzarrirsi. Si, ma come funziona esattamente la faccenda? Basta saldare il conto e fuori dalla porta di Mr Thick ha inizio il rapimento? Niente affatto: una volta firmato il contratto, ve ne tornerete a casa tranquilli e nulla di male vi capiterà (purtroppo): potranno passare anche mesi prima che si realizzi il lieto evento. D’altra parte le richieste sono tante, e il personale specializzato in questo settore è ancora poco. Poi, in una giornata qualsiasi di novembre, quando il cielo plumbeo e la pioggerellina sottile indurranno alla depressione, ecco la gradita sorpresa: due o tre malviventi a volto coperto vi preleveranno direttamente da casa vostra – di solito nell’androne della portineria, così che poi possiate vantarvi con il vicinato – vi faranno assaggiare il calcio della pistola sul cranio e vi caleranno un pesante cappuccio di panno sulla testa. E da quel momento sarà tutto un divertimento.
Mi direte: “Ma dai, infondo è tutta una finzione…! Come si fa ad entrare veramente nella parte del rapito?”. Giusto: ed è per questo che Mr Thick ha pensato bene di ingaggiare dei veri e propri professionisti, con tanto di fedina penale zeppa di reati contro la persona e il patrimonio. I primi ad essere assunti pare che siano stati gli esodati dell’Anonima Sequestri Sarda, rimasti privi di lavoro a causa della crisi. Gli stipendi tra l’altro sono di tutto rispetto, e pare che al termine del servizio i clienti lascino sempre delle laute mance. D’altra parte il rischio c’è: mettete il caso che un’auto della polizia transiti lungo la strada proprio mentre avviene il finto rapimento? Sapete com’è in America, no: prima sparano e poi chiedono “Chi va là?”. E inoltre può sempre accadere che qualche passante reagisca, che ci sia una reazione della cittadinanza. Non succede…, ma dovesse succedere come spiegare ad un branco di iene inferocite che si tratta di una messinscena? Che poi anche per il cliente i rischi non mancano: a parte le ecchimosi, le ferite sanguinolente e le costole incrinate, effetto voluto ed anzi desiderato ardentemente dal contraente, c’è anche la remota possibilità che in luogo del finto rapimento, ne avvenga uno vero. Se per assurdo una banda di veri sequestratori venisse a conoscenza dell’elenco dei clienti in spasmodica attesa del rapimento, non avrebbe forse la via spianata al delitto? Di certo il rapito non opporrebbe alcun ostacolo all’azione, anzi. Salvo poi, rendersi conto che è tutto vero: “Ok ragazzi, siete stati bravissimi, complimenti. Chi mi riaccompagna a casa ora?”. “Chiudi il becco merdone…”. “Amici, il gioco è bello se dura poco…”. E giù una badilata nella schiena.
Che dire, di fronte a tali notizie non resta che sorridere di meraviglia e incredulità. Eppure, a quanto pare, le richieste di rapimenti a pagamento arrivano ormai da tutto il mondo ed il titolare della Extreme Kidnapping è già considerato un prodigioso business-man. A questo punto verrebbe voglia di emularlo anche in Italia. Magari si potrebbe fare qualcosa di meno impegnativo, così anche i costi scendono. Che so, si potrebbe offrire un servizio che preveda martellate sulle dita a domicilio, oppure tagli con la carta sui polpastrelli, o anche pedate nei testicoli con rincorsa su pubblica piazza. I più esigenti potranno optare per il classico gavettone di piscio, o anche per il dentifricio nelle scarpe. Il tutto per, diciamo, dieci euro a prestazione.
Restiamo in attesa di eventuali soci disposti a condividere questa nuova, filantropica attività. È richiesta una buona padronanza del turpiloquio e una discreta propensione al manrovescio.

http://www.usatoday.com/videos/news/nation/2013/04/08/2063033/

martedì 9 aprile 2013

L’etica del bandito

Quello che mi accingo a scrivere sicuramente a molti non piacerà, ma è esattamente ciò che ho provato e provo di fronte a certe notizie. L’altro giorno sull’autostrada A9, con un’azione degna dei migliori assaltatori paramilitari serbo-croati, un commando di una decina di uomini ha assaltato un furgone portavalori, portando a termine una rapina che il giornali hanno definito da “far west”. Poco dopo le sette di mattina, nel tratto di strada tra Saronno e Turate, si è scatenato letteralmente l’inferno: un camion in fiamme si traversa sulla carreggiata e blocca la circolazione, i banditi disseminano l’asfalto di chiodi a tre punte per forare le gomme dei soccorritori, un altro mezzo pesante chiude la via ai due furgoni blindati. A quel punto arrivano le prime raffiche di kalashnikov, esplose più che altro a scopo intimidatorio. In questi attimi giungono al 118 una serie di chiamate d’emergenza degli automobilisti che vedono il fumo del camion e odono il rumore dei colpi. Le Forze dell’Ordine a questo punto capiscono che si tratta di una rapina. Dalle testimonianze vocali dei presenti si capisce la dinamica e lo stile adottato dai banditi. E non si tratta di una novità: altre rapine si sono svolte in passato con le stesse modalità. A quel punto sulla scena del crimine interviene anche uno stratagemma geniale: i malviventi posizionano sotto uno dei due furgoni un fumogeno, con lo scopo di far credere all’equipaggio che il mezzo sta andando a fuoco. A quel punto i vigilantes aprono il portellone e si consegnano agli aggressori senza che venga loro torto un capello. Da segnalare che il secondo blindato non viene neanche preso in considerazione dagli assaltatori: si scoprirà in seguito, a conferma dell’accuratezza con cui è stato programmato il colpo, che il mezzo è solo una copertura e non contiene alcun valore. Immobilizzati gli uomini di scorta, il commando trasferisce il denaro (10 o addirittura 15 milioni in contanti) e i lingotti d’oro su tre vetture, taglia un pezzo di guard-rail e fugge attraverso una stradina secondaria. Presso un casolare poco distante verranno ritrovate le auto usate per il colpo. Dei banditi, ovviamente, nessuna traccia.
Una rapina perfetta, da manuale, pianificata nei minimi dettagli ed eseguita senza spargimento di sangue. Da ieri è caccia aperta in tutto il Nord Italia.
È dai tempi di Bonnie e Clyde che la stampa porge volentieri i propri servigi per la mitizzazione del bandito. C’è come un compiacimento nel raccontare il crimine, nel trattare la vicenda al pari di un episodio epico. D’altra parte il male ha pur sempre il suo bel fascino: non si spiegherebbe altrimenti il successo di pubblico riscontrato da pellicole come Il Padrino o Gomorra. Ciò che nello specifico conferisce a questa rapina un qualcosa di eroico è l’audacia dimostrata dai banditi, la destrezza, la freddezza, la professionalità. È stato tutto così straordinariamente perfetto che viene quasi voglia di dire “bravi”. Anche perché ad essere rapinato è stato un portavalori che trasportava del denaro presso una banca svizzera. E tutti sappiamo quanta poca stima godano le banche in questo periodo. Viene quasi spontanea l’identificazione con i banditi, si odono a tratti antiche reminescenze adolescenziali, quando si faceva il tifo per Robin Hood. Che pure era un ladro fuorilegge. C’è da dire peraltro che tutta la vicenda viene vista sotto l’occhio tenero e misericordioso dello spettatore solo perché non c’è scappato il morto. Per fortuna. Ben altro sentimento albergherebbe in ognuno di noi se sull’asfalto fosse rimasto un padre di famiglia. Ad ogni modo, in quest’azione criminale non può sfuggire un dettaglio: pur nella ferocia della rapina pulita e asettica, i banditi hanno affrontato a viso aperto un potenziale scontro a fuoco, mettendo in conto la possibilità di restare uccisi loro stessi. Al di là dunque del rischio di una condanna a decenni di galera, questi uomini hanno messo a repentaglio la loro stessa vita. Ed è questo, che in un certo senso, li rende un po’ meno spregevoli di qualunque altro criminale: mettere in gioco la stessa vita conferisce un che di etico a tutta la vicenda. E non può che sorgere immediato il raffronto con tutta la cosiddetta “criminalità dei colletti bianchi”, fatta da loschi tangentisti che brigano sottobanco, da classi dirigenti che delinquono sul filo della legalità, che compiono azioni scellerate fingendosi servitori della democrazia, che devastano la convivenza civile facendosi credere perseguitati politici e martiri della libertà. In costoro non c’è onore, né dignità alcuna. Il loro è un gioco che non contempla né rischio né sconfitta, anche perché le regole sono scritte (e riscritte) a beneficio di loro stessi. Oggi in Italia un corruttore rischia al massimo due anni di reclusione: ovvero, grazie ai benefici di legge, neanche un giorno di galera. Basterebbe questo per rendersi conto della convenienza attuale di delinquere in guanti gialli. Il rapinatore no invece: egli paga tutto, e in contanti.
Molti anni fa mia madre lavorava presso un’amministrazione comunale e tra le altre colleghe ce n’era una sposata con un rapinatore di banche. A quell’epoca costui era in regime di libertà vigilata. Un giorno vennero a casa nostra per un caffè. Mia madre era terrorizzata all’idea di avere un bandito in casa, ma non voleva negare quell’atto di amicizia all’amica. Quello che ci trovammo di fronte era un uomo come tanti altri, forse meglio di altri. Il suo volto aveva un che di franco, sincero, lo sguardo era deciso e vi erano riflessi di fierezza nei suoi atteggiamenti. In lui non c’erano sentimenti di vergogna né di inadeguatezza verso il prossimo. Era una persona educata, cordiale, un uomo che aveva commesso degli errori, ma che stava pagando il suo conto. E lo pagava con grande dignità. E la moglie lo amava follemente, nonostante tutto. Quando andarono via ci rimase addosso un profondo senso di incredulità verso tutta quella vicenda. Ci sembrava impossibile che quella persona così “perbene”, si fosse macchiata di tanti crimini. Eppure era così, e non lo negava. Ecco perché, ai nostri occhi costui conservava comunque una certa rispettabilità. Tutt’altra cosa rispetto a coloro che, pur gradendo la delinquenza, si professano gigli di campo.