Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

giovedì 21 marzo 2013

Considero valore…

L’altro giorno sulla prima pagina della Sueddeutsche Zeitung è apparsa una notizia che i commentatori hanno definito sensazionale: gli elettrodo-mestici sono programmati per rompersi alla fine della garanzia. Perbacco, che straordinaria scoperta.
In Germania il gruppo parlamentare dei Verdi ha commissionato a due ricercatori uno studio volto ad indagare sul ciclo di vita di un campione di oggetti di largo uso e dai risultati emergerebbe che “l’usura pianificata è un fenomeno di massa”. La ricerca, presentata a Berlino e condotta da Stefan Schridde, in collaborazione con Christian Kreiss, professore di economia all’Università di Aalen, ha preso in esame venti tra i prodotti più diffusi in commercio e ha scoperto, tra le altre cose, che sulle stampanti a getto di inchiostro, dopo la stampa di alcune migliaia di pagine, compare l’indicazione di un guasto, pur essendo l’apparecchio perfettamente funzionante; per risuolare le scarpe vengono utilizzati suole di infima qualità, impossibili da distaccare per un eventuale ulteriore sostituzione; le cerniere lampo di giacche e giacconi sono formate da denti a spirale facilmente deteriorabili, così da mandare in pensione capi d’abbigliamento ancora semi-nuovi; e ancora lavatrici che spesso montano resistenze che si arrugginiscono facilmente (alla faccia del Calfort), causando salatissime chiamate del tecnico per la sostituzione. Secondo tale studio, l’opalescenza degli apparecchi sarebbe scientemente pianificata dai produttori attraverso l’utilizzo di materiali di scarsa qualità, o peggio ancora, inserendo appositamente punti deboli nei congegni e nei meccanismi, al fine di ottenere una rapida usura o rottura degli oggetti stessi. Cosa che, in ultima analisi, comporta spese continue per i consumatori, nuova produzione, incremento di utili e profitti per le aziende. La conclusione dei ricercatori è che se tutto questo marchingegno infernale non ci fosse, nelle saccocce dei tedeschi resterebbero oltre cento miliardi di euro all’anno. La Zvei (Associazione dei produttori di elettrodomestici), dal canto suo, ribatte che tutto ciò non solo non corrisponde alla realtà dei fatti, ma che tale sistema di produzione, indurrebbe i clienti insoddisfatti di un determinato prodotto, a cambiare marca. Con grave danno per l’azienda. Ad ogni modo, facendo leva sui risultati di tale studio, i Verdi hanno subito invocato nuove norme sulla riparabilità e la sostituzione dei pezzi di ricambio. Il termine obsolescenza è entrato nel nostro linguaggio da pochi anni e sta a indicare la perdita di valore di un bene causata o dalla sua usura/rottura o dal sopraggiungere del progresso tecnologico che lo rende inadeguato ai tempi. E fin qui tutto normale. Ciò che non è eticamente corretto invece, è forzare questo processo attraverso progettazioni che deliberatamente e arbitrariamente stabiliscano una vita utile limitata del prodotto. Vale a dire costruire male affinché il prodotto si rompa entro un certo periodo. Con tutto ciò che comporta in fatto di spese, accumulo di rifiuti, danni ambientali, spreco di risorse e quant’altro. Nella nostra società nessuno più ripara gli oggetti, nessuno più sostituisce componenti usurati: si butta tutto e si ricompra. Vi si rompe la resistenza del ferro da stiro? Provate un po’ ad aprirlo: vi servirà la fiamma ossidrica. L’imposta della vostra finestra non si chiude più perché si è leggermente imbarcata per l’umidità? Via tutto, si compra una nuova. La batteria del telefonino si è esaurita e non carica più? Lasciate perdere qualsiasi proposito di trovarne una di ricambio: tempo sprecato. Oltretutto la tecnologia odierna galoppa ad un tale ritmo che ciò che ieri era all’avanguardia, domani sarà considerato vecchiume. E di conseguenza il consumatore viene indotto subdolamente a disfarsi continuamente di oggetti perfettamente funzionanti, ma dichiarati fuori moda, superati. Oggi se non possiedi l’ultimo modello dell’I-Phone, se non messaggi con whattapp e non chatti con l’I-Pad sei considerato uno povero “sfigato”.
I sostenitori del progresso e della crescita ad ogni costo sostengono che infondo l’obsolescenza fa girare la ruota della produzione e del consumo a pieno regime, e così facendo genera occupazione e benessere. Già, ma a questo punto ci troviamo di fronte all’assurdo paradosso di dover per forza consumare in funzione della produzione, anche in mancanza di necessità. Perché se smettessimo di consumare, tutto il sistema crollerebbe. Un po’ ciò che sta accadendo con la crisi economica. E ciò sarebbe il male assoluto, naturalmente. Eppure c’è stato un tempo in cui l’umanità viveva poveramente, senza eccessive pretese, tramandandosi oggetti, abiti e beni di varia utilità di generazione in generazione. E tutto sommato non è che stesse poi così male rispetto ad oggi. Quando ero bambino gli abiti che indossavo, spesso erano di mio cugino più grande. E i miei sarebbero andati a mio fratello più piccolo. Il cappottino che diventava troppo piccolo, si allungava con una prolunga di panno sulle maniche. I nostri genitori da adolescenti avevano un solo paio di scarpe: chiuse d’inverno, venivano sapientemente aperte dal calzolaio per trasformarsi in sandali d’estate. D’altra parte il piede cresceva con l’età, e quindi perché sprecare? E quando poi la crescita si arrestava, sotto le suole e sui tacchi venivano applicati i ferretti per evitare che si consumassero. Perché la “roba” doveva durare e il risparmio era considerato un valore. Oggi invece s’invita a spendere, a far girare l’economia. E così abbiamo gli armadi pieni, le scarpiere colme, le credenze stipate all’inverosimile di padelle, pentole e pentolini di ogni forma e dimensione. Tanto che ogni volta che apriamo un’anta ci cade tutto addosso con un fragore orrendo. E poi, dato che in proporzione la merce che si vende oggi costa meno di quella che si vendeva un tempo, ci accaparriamo infinità di oggetti inutili, e spesso di dubbia qualità, che non fanno altro che ingolfarci la vita senza apportarci alcun beneficio. E così viviamo nell’incredibile paradosso che abbiamo tutto eppure ci manca tutto.
Molti anni fa la casa automobilistica Mercedes, che da sempre ha fatto della qualità il suo punto di forza, aveva come slogan una frase vagamente poetica: “La macchina per tutta la vita”. Ed in effetti si trattava di vetture concepite per durare decenni e chi ne comprava una, poteva verosimilmente pensare che quella sarebbe stata davvero la macchina per tutto il resto della sua vita. Oggi invece le automobili anno garanzie a tre anni. Dopo di che, casualmente, si rompe qualcosa. E spesso si tratta di qualcosa di grave, tipo la distribuzione. E dunque gli automobilisti, consci di questo simpatico particolare, un paio di settimane prima della scadenza della garanzia, cambiano l’automobile. Con gran piacere di tutti: in primis dello Stato, che ci guadagna con l’Iva.
Ma anche questo ormai, causa la crisi, si avvia a diventare un ricordo. E così, volenti o nolenti, non ci resta che riscoprire il sapore agrodolce dell’antico. E non è detto che non ci piaccia. “Considero valore quello che domani non varrà più niente, e quello che oggi vale ancora poco” (Erri De Luca, Valore).

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