Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 29 marzo 2013

Il biologico è una bufala: torniamo ai mercatini rionali

Biologico sì, biologico no. Da anni ormai ci si interroga su questo annoso problema: frutta e verdura, meglio con o senza pesticidi? Domanda retorica all’apparenza. È ovvio che messa in questi termini chiunque preferirebbe evitare la pera o la banana con l’additivo chimico sopra. Naturalmente. Peccato che poi, quando si arriva alla cassa col carrello pieno di prodotti biologici, e si legge l’importo dello scontrino, viene un’irresistibile desiderio di scappare verso le colline. In effetti i costi delle produzioni biologiche non sono gli stessi che si registrano per le coltivazioni classiche e quindi, quando frutta e verdura arrivano sui banconi della grande distribuzione, i prezzi sono decisamente alti. A fronte di tale differenza economica però, si dice, sapore e qualità sono ineguagliabili. Qualche anno fa il mio amico Enrico mi convinse con la forza ad andare con lui ad acquistare del vino da un coltivatore diretto dell’Oltrepo Pavese. Nella sua vigna evitava di usare qualsiasi tipo di prodotto chimico e la sua produzione era conosciuta in tutta la Lomellina. Nella cantina c’erano una dozzina di tini e botti, colme di grignolino e nebbiolo, e l’aria spessa sapeva di frutta marcita e muffa. Il mio amico - un ubriacone da competizione - non stava nella pelle dalla felicità e non vedeva l’ora di suggere un po’ di quel prezioso nettare. Il contadino spillò prima un mezzo bicchiere da una botte e subito dopo da un’altra. E li passò a Enrico, e questi avvicinò prima l’uno e poi l’altro alle labbra. Aveva un’espressione paradisiaca dipinta sul volto e m’invitava ad assaggiare. Presi uno dei due bicchieri e tirai giù una sorsata: acqua fresca e niente più. «Be’, che ne dici?». Rimasi in silenzio e con un’espressione piuttosto scettica. Mi passò l’altro bicchiere: «Questo è strepitoso». Lo sputai in terra, tanto era l’orrore che avevano provato le mie papille gustative. Andò a finire che Enrico si portò a casa due damigiane da trenta e quaranta litri e a me restò la certezza che per gustare un buon vino ci vogliono per forza dentro i solfiti e tutto il resto.
Qualche giorno fa sul Washington Post è apparso un articolo sullo scetticismo degli scienziati americani davanti al boom dei prodotti organici. Nella sostanza sembra che incrociando i molti dati raccolti negli ultimi tempi, non ci sarebbero evidenze scientifiche, né prove schiaccianti che possano affermare che il cibo organico sia meglio dell’altro. C’è si minor probabilità di trovare tracce di pesticida nel biologico, ma nella realtà è assai raro trovare prodotti non biologici in cui vi siano valori sopra la soglia di rischio. E tra l’altro, come confermano recenti studi dell’Università di Stanford, anche dal punto di vista dei valori nutrizionali, non sembra che ci siano grosse differenze tra le due tipologie. E dunque, tutta questa voglia di naturale, altro non sarebbe che l’effetto di una portentosa campagna mediatica per spingere verso consumi più costosi, ma non necessariamente più salutari. Se proprio ci si vuol preoccupare di qualcosa, affermano i nutrizionisti, meglio sarebbe educare ad una sana alimentazione gli adolescenti. Perché infondo, il vero nemico da combattere è l’obesità.
Quando ero bambino, accompagnavo mia madre a fare compere. Non si andava al supermercato che una volta al mese, per la spesa grossa. Il resto veniva acquistato nei negozietti vicino a casa. C’erano un’infinità di botteghe oggi scomparse: c’era la merciaia, il ciabattino, il riparatore di apparecchi elettrici, il macellaio, il lattaio. Il fruttivendolo per esempio, era un signore siciliano di mezza età. Parlava con una pesante inflessione dialettale e quando qualche massaia gli chiedeva zucchine, cetrioli o banane, egli rispondeva sempre: «Quanto gliene do? Un chilometro?». E se la rideva sotto i baffi. Per me, nonostante la portentosa motilità intestinale di cui soffriva, era quasi uno di famiglia.
E quando andavo giù dai miei nonni, c’era l’usanza di far la spesa al mercato della piazzetta. I coltivatori delle campagne riempivano questo luogo con un’infinità di banconi e bancarelle per vendere i prodotti della loro terra e ogni giorno, da secoli, si rinnovava la festa dell’abbondanza a poco costo, condita con urla e strilli dei venditori per attirare la clientela. E la cittadinanza conosceva uno per uno quei personaggi, sapeva perfettamente che tipo di merce vendevano, di che qualità, a quale costo. C’era una rapporto di profonda umanità che legava quella comunità. Quanto mi affascinava quello spettacolo e quanta differenza c’era tra questo mercato e quello a cui ero abituato su al nord, dove il silenzio dominava incontrastato. Mia nonna poi aveva il suo macellaio di fiducia, e solo da costui si fidava di acquistare la carne. Ogni due o tre giorni gli faceva visita e da sempre si ripeteva la stessa identica manfrina: «Buongiorno, Tonino». «Buongiorno a voi signora. Che vi do oggi?». «Mezzo chilo, Tonino». Al che costui sollevava lo sguardo al cielo e diceva: «Mezzo chilo di cosa, signora?». E lei beffarda: «Come di cosa? Di carne…! È ovvio». A quel punto il macellaio cercava un po’ di umana solidarietà negli altri clienti e diceva: «Lo so di carne…, non vendo mica le nespole del Giappone. Voglio sapere che tipo di carne vi serve: per pizzaiola, da fare ai ferri…». Al che lei gli indicava la carne di vitella e la faccenda si chiudeva.
Quando torno a quei ricordi, mi assale sempre una grande nostalgia: era un’epoca in cui le persone usavano ancora guardarsi in faccia e parlarsi. Adesso invece va di moda l’ipermercato, il centro commerciale, gli scaffali con i prodotti impacchettati seguendo le più scrupolose norme igieniche-sanitarie. Ognuno riempie il suo fottuto carrello indossando guanti di plastica e senza aprire bocca. E con le casse automatiche inoltre, non si corre più neanche il rischio di dover sorridere alla cassiera. Altro che pesticidi: questo è il vero orrore.

giovedì 28 marzo 2013

Rubatemi tutto, ma non l’auto

Non so se siete mai stati vittime di un furto d’auto. A me è capitato, e si tratta di un’esperienza davvero poco, ma molto poco piacevole. In Italia ogni giorno vengono rubate oltre trecento vetture, una ogni cinque minuti. Lo rivela il “Dossier annuale sui Furti d’Auto 2012” elaborato da LoJack Italia su dati del Ministero degli Interni. Nel 2012 sono state 115.451 le vetture rubate nel Belpaese, e in Europa, - secondo il rapporto - ci collochiamo al secondo posto per tasso di furti di veicoli. Ecco, avete visto? Sempre lì a lamentarci di essere costantemente in fondo a tutte le classifiche. Ora finalmente anche noi possiamo vantarci di qualcosa al bar. E di tutti questi furti, solo il 43 per cento si risolve con il ritrovamento e la restituzione al proprietario. Delle restanti 66 mila vetture si perdono completamente le tracce. Ed il trend pare che sia in costante crescita. Certo non è che si possa imputare alle Forze dell’Ordine questo stato di cose, tutt’altro. Data la crisi e l’enorme debito pubblico che grava sulle casse dello Stato è già tanto che qualche volante riesca ancora ad uscire dalle autorimesse. Che poi, ad essere sinceri, il furto di auto è pur sempre un reato minore rispetto ad altre ben più gravi fattispecie delittuose e quindi è ovvio che le poche risorse disponibili vengano impiegate per scopi più importanti. Nel film Il Grande Lebowsky a Drugo, il protagonista, rubano l’automobile e lui molto correttamente sporge denuncia. Dopo qualche giorno un funzionario di polizia lo chiama perché la vettura è stata rinvenuta ed egli si precipita a recuperarla. Purtroppo per lui però, c’è una sgradita sorpresa: l’automobile è in pessime condizioni e appena prova ad entrare nell’abitacolo si accorge che c’è un odore inconfondibile: «Oh cazzo, che cos’è questa puzza di merda?». E l’agente: «Ah sì, è probabile che un barbone ci abbia dormito dentro, o forse l’ha usata come gabinetto e dopo se n’è andato». Al che Drugo ribatte: «Senta amico, voi pensate di ritrovarli i ladri, o forse siete in possesso di qualche indizio…». A quel punto il poliziotto lo fissa con un’espressione beffarda e gli risponde: «Indizio? Certo, come no: controllerò con i ragazzi della scientifica giù al laboratorio. Abbiamo altri quattro detective impegnati sul caso: stiamo facendo i turni». E poi scoppia a ridere in faccia al povero Drugo.
Tra le automobili più rubate in Italia nel 2012, primeggia il marchio Fiat: 11 mila Panda, 10 mila Punto, 6 mila 500. Si conferma dunque la preferenza dei ladri per le vetture più vendute a livello nazionale, utilitarie e citycar, smembrate per il mercato nero dei ricambi o spedite oltremare sulle rotte internazionali dei traffici di auto.
Alcuni anni fa, quando ancora lavoravo presso la Fiera di Milano, mi recavo spesso a San Donato Milanese per prendere la metropolitana. L’automobile, una Fiat Uno Fire, la parcheggiavo in una via poco distante. Un triste giorno, dopo una lunga giornata lavorativa, non la trovai più. Fu strana quella sensazione, come di stordimento. Percorsi a più riprese tutta la via, avanti e indietro, sperando di ritrovarla. All’inizio presi a darmi del “coglione” perché ritenevo di aver dimenticato il luogo esatto dove avevo parcheggiato. Poi però mi fermai un attimo e mi misi a ragionare, a ricostruire ciò che avevo fatto al mattino, dove mi ero fermato. E i pensieri, che in un primo momento si confondevano e si sovrapponevano precipitandomi nel caos mentale, cominciarono a dipanarsi. Non c’era ombra di dubbio: l’automobile non c’era più: scomparsa. Pensai subito ad un furto, anche se la speranza che si trattasse di una rimozione forzata non mi abbandonava. Chiamai mio fratello e lo pregai di venirmi a recuperare. Nel frattempo già mi lasciavo andare allo sconforto per tutta la trafila burocratica che mi attendeva. Poi all’improvviso ecco un miraggio: un’auto dei Carabinieri. E rallegrandomi pensai: “Chi dice che le Forze dell’Ordine non ci sono mai quando servono, dice il falso”. E così le corsi incontro e la fermai. «Buongiorno brigadiere - dissi trafelato - ho un piccolo problema». «Mi dica - rispose il militare - , se possiamo aiutarla…». Non saprei dire esattamente cosa volessi da loro, magari una parola di conforto, un interessamento alla mia vicenda umana. Pensavo, tra me e me, che forse avrei potuto dar loro il numero di targa della mia vettura, il modello, il colore. Forse c’era una possibilità che i ladri fossero ancora nei paraggi. «Senta, io ho parcheggiato la mia automobile qui stamattina. E ora non c’è più…!». I Carabinieri si guardarono in faccia e fecero una smorfia come per dire “ci risiamo”. E aggiunsi: «Non è per caso che qui c’è una zona di rimozione forzata e che magari la mia macchina è stata portata via?». Al che il brigadiere scosse leggermente il capo e disse: «No, nessuna rimozione. L’hanno rubata». Quella sentenza arrivò come una fucilata. A quel punto ero sul punto di dare loro qualche ragguaglio sulla mia automobile, quando il capo-equipaggio mi precedette: «Si però, ormai è tardi. Per la denuncia venga domani mattina. Con calma…». Rimasi si sale.
La macchina fu ritrovata qualche giorno dopo in un campo. Giaceva sospesa desolatamente su quattro pile di mattoni. Erano state asportate le ruote, gli specchietti, l’autoradio, i parasole, la cappelliera e i tappetini. All’appello mancavano anche tutte le audiocassette, tranne quelle di Gigi D'Alessio. Fu un vero dolore vederla ridotta in quelle condizioni. Per fortuna però non ci avevano cagato dentro.

mercoledì 27 marzo 2013

Dica trentatre...

L'altro giorno ho accompagnato un amico ad una visita da un ortopedico. Sono ormai molti mesi che avverte un dolore al ginocchio sinistro e non può fare neanche dieci minuti di cammino che il fastidio si trasforma in dolore lancinante. E così, finalmente, si è deciso a consultare un esperto. Lo studio del luminare si trova nella bergamasca e la segretaria come riferimento stradale ci ha detto: "Siamo sopra al fioraio". Abbiamo girato a vuoto per un bel pezzo, anche perché l'unico negozio che si vedeva nella via era un gigantesco sexy shop a diciotto vetrine. A quel punto, dopo lungo tentennamento, abbiamo parcheggiato l'auto e siamo scesi con l'intenzione di chiedere informazioni. Ovviamente ci siamo prima guardati attorno: mica che c'era nei paraggi qualche conoscente che poi andava subito a riferire...! Ed è solo allora che ci siamo accorti della presenza di un minuscolo, discreto negozietto di fiori sul retro del caseggiato. Il mio amico mi ha fissato e con una smorfia sottile ha detto: «Certo non è bello dire "ho lo studio sopra al sexy shop". C'è da capirlo...». E così siamo saliti al primo piano e ci siamo accomodati. Dopo una mezzoretta di attesa la porta del gabinetto medico si è aperta e ne è sortito un nano claudicante. Ci ha sorriso e noi di rimando. Al che, per rincuorare il mio amico ho detto: «Quelli sì che sono problemi seri...». Lui non l'ha presa molto bene e ha risposto: «Cosa intendi dire? Guarda che a me il ginocchio fa male davvero, sai…». Al che mi sono limitato a frullare una mano in aria...! Sempre con l'intento di sollevargli il morale. Dopo qualche attimo siamo stati chiamati dal dottore e ci siamo accomodati su due splendide poltrone in sky-finta pelle.
«Chi è il paziente?».
«Sono io, dottore» - ha risposto il mio amico atteggiando una faccia molto sofferente.
«Bene, tolga i calzoni e si sdrai sul lettino».
«Fa male qui? Fa male qua? Se tocco qui, sente qualcosa?».
«No, no...! Ecco, un pochino lì, ma non troppo».
Finita la visita il mio amico si è rivestito e si è riseduto sulla poltrona. A quel punto il medico gli ha chiesto: «Che lavoro fa lei?».
«L’autista, dottore».
«Autista di camion?».
«No, tassista».
«Ah, quindi non è che salta giù dalla cabina…?».
«No, assolutamente».
A quel punto ho voluto dare il mio prezioso contributo alla causa: «Qualche volta salta giù dal pero, ma non credo che centri col dolore…».
«No, direi proprio di no…».
All'uscita dallo studio il mio amico non sembrava molto soddifatto né della diagnosi né della cura. E in più ha aggiunto: «La prossima volta se eviti di parlare, magari è meglio. Grazie».

martedì 26 marzo 2013

Chiudi quel fottuto telefono…

Vi è mai capitato in treno di avere per le mani un libro che vi appassiona oltremisura, poniamo caso Anna Karenina, e all’improvviso il telefonino del vostro vicino comincia a squillare? Situazione piuttosto usuale di questi tempi, purtroppo. Ecco, vi basteranno pochi attimi per capire che avete bel e finito di leggere. Il perché è fin troppo ovvio: le insulse idiozie che promaneranno dalla bocca del vostro vicino, non faranno altro che disturbarvi, confondervi e farvi perdere il filo. Al che voi tornate al capoverso precedente e rileggete integralmente il paragrafo. Niente da fare, le parole vi scoleranno addosso come acqua fresca. E dire che si tratta di Tolstoj, mica dell’autobiografia di Giacomo Poretti. A quel punto sollevate lo sguardo dal volume e lo puntate dritto in faccia al molestatore telefonico. Non c’è niente di buono nella vostra espressione, e lui lo sa. Tant’è che per farsi parzialmente scusare, comincia a gesticolare, a lanciarvi delle occhiate d’intesa, delle smorfie che mimano profonda seccatura. Il tutto per farvi capire che, se fosse per lui, quella conversazione terminerebbe all’istante. Anzi, non sarebbe mai e poi mai cominciata. E così il farabutto, avendo guadagnato un briciolo di empatia da voi, si lascia andare e continua imperterrito a parlare con l’altro mentecatto dall’altra parte del cavo. Anche per trequarti d’ora consecutivi. E a voi non resta che sperare nel sopraggiungere di una galleria che interrompa quella dannata conversazione. O magari anche in un fulmine che incenerisca l’apparecchio e il suo fetido utilizzatore.
Un recente studio dell’Università di San Diego, in California – dipartimento di psicologia – ha dimostrato che niente più delle ciance telefoniche altrui mette alla prova la nostra concentrazione. Soprattutto quando al nostro orecchio arriva solo una parte del dialogo. Tanto e tale è il disturbo che ne deriva da questa conversazione telefonica, che la vittima è costretta a interrompere immediatamente l’attività che sta svolgendo. Secondo i ricercatori ciò deriverebbe dall’impossibilità del nostro cervello di seguire due pensieri contemporaneamente: o si legge o si ascolta. Il fastidio che si prova in questi momenti è talmente forte che, al confronto, lo stridio del coltello e della forchetta sfregati contro il vetro, o il rumore del gesso e delle unghie sulla lavagna, sono nulla.
L’invadenza dei cellulari ha ormai raggiunto dei livelli insopportabili, e non si tratta più di buone o cattive maniere. Qui siamo entrati nel campo del patologico. Un tempo almeno esistevano dei luoghi in cui non c’era campo, dove la linea non arrivava, e dunque gli apparecchi erano muti. Oggi invece, la copertura è quasi totale, perfino nei tunnel della metropolitana. E così, oltre a trovarti pigiato e spintonato all’interno dei vagoni, ora sei anche accerchiato da decine di malati di mente che urlano dentro i microfoni dei loro apparecchi per farsi udire nel frastuono della corsa del treno. Un girone dantesco. E non è solo in metropolitana che si verifica questa sciagura. Ovunque ti giri c’è qualcuno che parla al telefono: al ristorante, al cinema, al supermercato, in coda alla posta, in banca. E ognuno di costoro sente forte la necessità di far sapere a tutto il genere umano i suoi fottutissimi affari. E intanto la rabbia monta, e l’intolleranza verso il prossimo galoppa. Persino tra Capi di Governo. Qualche tempo fa un tale, invitato ad un importante vertice europeo, fece attendere un tempo infinito il Cancelliere del paese ospitante, perché doveva terminare la sua conversazione con non si sa chi. Una scena raccapricciante: il primo che parla e gesticola fissando un punto indefinito in lontananza, e il secondo che, braccia conserte e viso rabbuiato, attende nervosamente che la conversazione abbia fine. In altri tempi un simile affronto avrebbe provocato senza dubbio conseguenze belliche.
Domenica scorsa la Chiesa ha celebrato Le Palme, vale a dire l’arrivo del Messia a Gerusalemme. Nel Duomo c’era una folla incredibile e la messa era officiata dal Vescovo. In un silenzio assoluto, tre sacerdoti hanno letto Passione e Morte di Nostro Signore, dal Vangelo di Luca. È stato un momento molto suggestivo, quasi d’estasi. L’ultima cena, la predizione del rinnegamento di Pietro, il Getsèmani. In un crescendo di patos spirituale, tutti i fedeli ascoltavano senza un fiato. E ancora Pilato, la via dolorosa, la crocifissione. E infine la chiusa drammatica: «Il velo del tempio si squarciò a metà. E Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito”. Detto questo spirò». Ed è proprio in quel preciso attimo che… drinnnn! Come volevasi dimostrare. E sì, il telefono di una signora impellicciata ha inizia a squillare maledettamente, tra i borbottii rancorosi dei fedeli. Metà dei quali, peraltro, aveva il cellulare acceso. E dunque tale signora, con assoluta calma e noncuranza, ha aperto la borsetta, ha cercato il cellulare, indossato gli occhiali e letto sul disk-play il nome del chiamate. Poi ha piegato vistosamente le labbra in una smorfia di indifferenza e con un lieve tocco sulla tastiera ha buttato giù la chiamata. E quindi, come niente fosse ha riattaccato “Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra…”. Che meraviglia.
http://www.webmd.com/balance/news/20130313/hate-other-peoples-cellphone-calls-youre-not-alone

lunedì 25 marzo 2013

Che tormento sti occhiali...

Quando molti anni fa feci il concorso per entrare come sott’ufficiale nell’Arma dei Carabinieri, ero sicuro di me, fiero della mia giovinezza e della mia prestanza atletica. Da ragazzo ero stato un buon centometrista e lo sviluppo fisico piuttosto precoce mi aveva regalato la stima e l’invidia dei miei coetanei. Ricordo che una volta il mio professore di educazione fisica mi disse: “Se continui così, da grande sarai un toro”. Poi però, come spesso accade, le promesse non furono del tutto mantenute. Purtroppo. Se non fossi il cartesiano puro che sono, potrei dare la colpa a quelle parole avventate. Poco male però: l’importante è accontentarsi. E se l’accontentarsi è poca cosa, allora basta voltarsi e guardare quanti sono alle nostre spalle, quanti sono dietro di noi, in condizioni ben peggiori. L’arma tuttavia è pericolosamente infida. La consiglio esclusivamente a chi pensa di trovare effettivamente qualcuno nell’atto di voltarsi. In caso contrario, guardate ben davanti a voi e datevi all’immaginazione. E così quel giorno, dopo aver superato brillantemente le prove scritte, fui convocato per le visite mediche. E fu allora che mi venne riscontrato un leggero difetto di miopia. Poca cosa allora, eppure sufficiente a farmi dichiarare non idoneo. Fu una delle delusioni più grandi della mia vita e mi ci vollero molti mesi per superarla. È da allora che ho cominciato a portare gli occhiali. A dire la verità solo per guidare e per guardare la televisione. L’oculista mi aveva consigliato di tenerli su sempre, ma io mi sono sempre rifiutato. Un po’ perché, come si sa, “gli occhiali invecchiano”; un po’ perché li ho sempre vissuti come un handicap fisico, come una dimostrazione di debolezza. Lo so, è un ragionamento stupido, ma non è che per forza dobbiamo essere sempre razionali.
Ci sono persone invece che adorano portare gli occhiali, amano quell’aspetto da intellettuali illuminati di sinistra che le lenti conferiscono. Fa niente che poi bestemmiano come carrettieri. Per me invece è stata una tortura fin dall’inizio. Il primo paio me lo persi dopo una settimana. Il secondo finì tragicamente schiacciato dalle ruote della mia automobile. Il terzo cadde giù da una scarpata di montagna durante un’escursione. Il mio ottico in quel periodo fece affari d’oro e quando mi vide per l’ennesima volta varcare la soglia del suo negozio, mi fece un grosso complimento: “Se avessi tutti clienti come te, tempo due anni e mi ritirerei dagli affari…!”.
Gli occhiali da sempre sono stati associati all’idea dello studio, della cultura, della sapienza. Il “quattrocchi” a scuola era il secchione, il primo della classe, colui che, a fronte della sopportazione di quella tortura, godeva della nomea di genio. Non sempre, ovviamente. E infatti ricordo che tra i banchi vi era assai di frequente qualche occhialuto piuttosto scarso. Andrea Lolaico, per esempio, nonostante portasse due portentosi culi di bottiglia da miope sul naso, era di un’ignoranza mostruosa. E sono certo che non avesse mai aperto un libro in vita sua. E quindi centrava assai poco quel difetto visivo con l’affaticamento della vista da studio. Recentemente uno studio condotto su oltre 45 mila abitanti di Europa e Asia, e pubblicato sulla rivista Nature genetics, ha dimostrato che la miopia, sebbene influenzata dagli stili di vita (aumento di tempo trascorso dai bambini in spazi chiusi, studiando, giocando al pc o guardando la tv), ha anche una forte componente genetica. La patologia, che colpisce circa una persona su tre nel mondo occidentale e fino all’80 per cento in Asia, sarebbe legata dunque alla presenza di 26 particolari geni, responsabili della supercrescita del bulbo oculare, origine della miopia. In altre parole, chi è predisposto geneticamente alla miopia, potrebbe anche fare l’eremita su una montagna, potrebbe anche non leggere mai un solo rigo o guardare un film alla televisione, prima o poi comincerà a vederci male da lontano. Non c’è scampo. Quando molti anni fa, venne fuori la notizia che in Russia risolvevano la miopia con il laser, cominciai a sperare che prima o poi tale tecnica arrivasse anche in Italia. E infatti col tempo anche da noi cominciarono ad aprire centri oculistici di questo genere. M’informai immediatamente, ma fui subito bloccato dalla lettura di alcuni particolari operatori: “Assottigliamento della superficie della cornea per modificare la forma e lo spessore della lente corneale; un laser taglia un piccolo lembo di cornea creando una finestra al di sotto della quale l’oculista lavora per correggere il difetto”. Mi prese il panico e lasciai perdere. Poi un giorno un amico mi disse: “Ma scusa, perché non provi le lenti a contatto”. Già, le lenti a contatto, perché non c’avevo pensato prima? Tornai da quel farabutto del mio ottico e gli dissi che intendevo acquistare immediatamente due belle lenti a contatto. Questi mi fece capire che erano necessarie alcune prove e che non tutti erano predisposti per quel genere di lente. E così mi portò nel retrobottega per un primo tentativo. Osservando la facilità con la quale il mio amico metteva e toglieva le lenti, pensai che fosse una sciocchezza. E invece, già appena vidi l’ottico avvicinare le sue dita grassocce al mio occhio, cominciai a sudare come un maratoneta. “Stai fermo - diceva il poveretto - basta un secondo e te le metto su”. Ma le palpebre non ne volevano sapere, continuavano a sbattere furiosamente. Provai da me, ma non ottenni grossi risultati. Sentire un corpo estraneo a contatto con la superficie dell’occhio mi dava una sensazione terribilmente sgradevole angosciante. Ad un tratto l’ottico provò a forzare la cosa: non fu una grande idea. Mi alzai di scatto dalla sedia e, afferrandolo per il bavero, lo attaccai al muro. Ero sul punto di gonfiarlo di botte, ma mi trattenni. Da allora decisi di tenermi la mia stramaledetta miopia. Ora però salta fuori l’ennesima notizia sul laser per la correzione dei difetti visivi. Pare che sia in funzione presso il Centro oculistico dell’Istituto clinico Humanitas. Paolo Vinciguerra, a guida dell’équipe di ricerca, ha spiegato: “Con le tecniche laser utilizzate finora la superficie della cornea veniva scolpita e ne usciva sì modificata, ma stravolta. Oggi, la luce laser tamburella sulla cornea, modificandola con precisione sub-micrometrica e lasciandola identica a una forma fisiologica. Così si risparmia tessuto corneale e l’intervento dura meno di 60 secondi”.
Bah, chissà che non sia la volta buona.

http://www.tgcom24.mediaset.it/salute/articoli/1087627/super-laser-salva-la-vista-in-un-minuto.shtml
http://www.tgcom24.mediaset.it/salute/articoli/1081448/scoperti-26-geni-che-causano-la-miopia.shtml

venerdì 22 marzo 2013

“I dolori del giovane Walter”

In questi ultimi anni il genere umano ha dovuto sopportare grandi prove e sofferenze di ogni tipo: dalla spaventosa crisi economica alla perdita del senso ultimo della vita, dalla scomparsa dei valori etici e morali allo smarrimento di qualsiasi speranza e fiducia nel futuro. Eppure, tutto ciò è nulla di fronte alla tragedia che ci accingiamo a raccontarvi. Tra il 2002 e il 2010 ben 17.616 uomini nei soli Stati Uniti d’America si sono incastrati con il pene nella zip dei propri calzoni. Orrore, pianto e stridore di denti: sol chi l’ha provato può capire cosa significhi tale sciagura. Un momento di distrazione, la fretta maledetta di espletare, l’eccessiva confidenza con la propria “bottega”, ed ecco che all’improvviso l’innocua e comodissima cerniera lampo si trasforma nella più atroce delle tagliole. A rivelarlo è uno studio del dipartimento di Medicina della University of California, raccapricciante già dal titolo: “Zip-related genital injuries”. Pubblicato sulla rivista scientifica British Journal of Urology, questo lavoro ha evidenziato che la zip è la prima causa di ferite all’apparato genitale tra i maschi, e data l’imponente incidenza di tali eventi sulla popolazione maschile, gli autori hanno suggerito vivamente a medici e personale sanitario di approfondire molto accuratamente tutte le tecniche possibili di “disincastramento fallico”. Il consiglio più immediato che viene dai luminari è prestare molta attenzione ai propri preziosi “gingilli”, curarli e coccolarli con delicatezza, riservando sempre l’accortezza di preservarli con un paio di mutande linde di bucato. E già, perché pare che la maggior parte di coloro che devono ricorrere al pronto soccorso per la ferale artigliata, sono privi di indumenti intimi, e quei pochi che ne indossano, lasciano assai a desiderare in fatto di igiene e decoro personale. Ma come si fa, mi domando, ad andare a spasso con tutta l’attrezzatura in balìa degli eventi? Alle volte non ci si capacita della scostumatezza dei nostri tempi. Ad ogni modo, qualora si dovesse incorrere in questo incidente del c…avolo, gli esperti suggeriscono di provare a liberarsi tirando il cursore della cerniera con un movimento rapido nella direzione da cui proveniva. Come potete immaginare la faccenda sarà tutt’altro che piacevole per quei tre o quattro centimetri di pelle delicatissima, questo è evidente, ma pare che questa sia la tecnica più efficace per liberarsi di qui maledetti, affilatissimi dentini metallici. In caso di sanguinamento poi, applicare pomata antisettica e fasciatura sterile. Se tuttavia l’operazione non riesce, il consiglio é di recarsi al più vicino pronto soccorso, dove, superato l’iniziale momento di sconvolgente ilarità, il personale medico provvederà a risolvere la pratica utilizzando speciali cesoie da giardiniere.
Il primo prototipo di moderna cerniera lampo fu inventato dall’ingegner Gideon Sundback, americano di origine svedese, nel 1912, e deriva dal perfezionamento del lavoro svolto da Elias Howe, l’inventore della macchina per cucire. Il brevetto fu registrato nel 1917 e nel giro di due decenni la sorte dei bottoni fu segnata. La prima applicazione della cosiddetta zip avvenne sui vestiti per bambini, permettendo così ai più piccoli di ottenere l’indipendenza nell’atto di vestirsi. Coloro che però pensarono ad applicare l’invenzione ai pantaloni per uomini, furono gli stilisti francesi nel 1937. Quindi stiamo parlando di una diffusione di massa relativamente recente. Molti anni fa, quando mia zia Teresa appena ventenne si trasferì a Milano, si ritrovò come vicina di casa una famiglia di veneti, marito, moglie e due figli piccoli. Lui era un impiegato depresso, lei una casalinga altezzosa e scorbutica. Teresa era poco più che una ragazzina a quell’epoca, e proveniva da una città di provincia del Meridione: quella dirimpettaia settentrionale, apparentemente molto evoluta e disinibita, rappresentava per lei quasi un modello da imitare. E dunque, per ottenere la stima e l’amicizia di cotanta donna, mia zia spesso le dava un qualche assaggio delle prelibatezze da lei cucinate. Un giorno le diede un pezzo di sformato e la veneta, ringraziandola, le disse che l’avrebbero assaporato alla sera, lei e il suo caro maritino. La mattina dopo Teresa incontrò la vicina sul pianerottolo e le chiese come avessero trovato lo sformato. “Guarda Teresa, l’ho fatto volare nella pattumiera…” fu la risposta. Ma Teresa non se la prese più di tanto ed anzi terminò la breve conversazione dicendo: “Ma si, infondo non era un granché. So fare di meglio. Ora però scappo, devo andare in merceria per comprare una cerniera”. Al che la veneta la squadrò esterrefatta: “Ma Teresa, cos’è la cerniera?”. E lei: “Ma si, la cerniera dei pantaloni. S’è rotta e la cambio…”. E la veneta: “Ma si chiama lampo, Terera…!”. Se ancora alla fine degli anni ’60 non ci si metteva d’accordo sul nome da dare a questo aggeggio, vuol dire che il suo uso era forse ancora abbastanza marginale. D’altra parte i bottoni furono inventati nel medioevo, e fino ad oggi non hanno mai dato alcun problema alle pubenda maschili. La cerniera lampo invece è subdola e, quando meno te l’aspetti, è capace di darti dei grandi dispiaceri. Nei casi gravi, come abbiamo visto, si può dover ricorrere anche all’ospedale. In linea di massima si tratta di piccoli interventi, piccole medicazioni. Per fortuna. Ma se puta caso fosse necessario un’operazione più complessa, magari anche di chirurgia plastica, le nostre strutture sanitarie, sarebbero attrezzate? Me lo sono chiesto con una certa angoscia. Quando si entra in questi delicati ragionamenti, ci si fa coinvolgere purtroppo in maniera totale. E così ho fatto una ricerca e mi sono imbattuto nel recente studio dell’Aicpe, l’Associazione italiana di chirurgia plastica estetica. I dati della ricerca però riguardavano esclusivamente il ricorso alla chirurgia plastica intima femminile. Che tra l’altro dal 2011 al 2012 è cresciuta del 24 per cento (per la maggiore, pare che vadano gli interventi di labioplastica - ovvero per ridurre le piccole o anche le grandi labbra - ; la vaginoplastica - per restringere la vagina - e le iniezioni di acido ialuronico o grasso per ridare tono a grandi labbra che abbiano perso volume e turgore). Si, ma per gli uomini invece, esiste una chirurgia plastica intima? Certo che c’è ed è anche un settore in forte crescita. Un paio d’anni fa l’Isaps, Società Internazionale di chirurgia plastico-estetica, pubblicò i dati riguardanti gli interventi di “falloplastica” nel Mondo. L’Italia si era classificata al primo posto con quasi due mila operazioni. E non si tratta purtroppo di interventi resisi necessari a causa delle feroci cerniere lampo, quanto piuttosto la volontà di appagare l’insaziabile narcisismo maschile. Si, avete capito bene: si chiede l’intervento del chirurgo per poter sfoggiare un’attrezzatura del piacere degna del miglio attore hard. E oltretutto pare che non sia più la lunghezza il vero tormento degli uomini, ma il diametro, come conferma il professore Riccardo Vaccari, uno dei massimi esperti italiani in chirurgia andrologica: “Quasi tutti chiedono un intervento abbinato all’aumento della circonferenza”.
Stando alle ultime statistiche, pare che gli interventi di “falloplastica” seguano ormai ad un’incollatura quelli per il trapianto di capelli. E quanto costa un’operazione di questo genere? Dai tremila euro in su: a seconda di che tipo di aggeggio si voglia installare, naturalmente. Poi ci sono gli optional, i trattamenti specifici, gli “aiutini” farmacologici di rinforzo, ed il prezzo sale. Ecco, se l’argomento vi appassiona, potete chiedere un preventivo gratuito a Maurizio e Roberto Viel, due chirurghi di origine italiana che operano a Londra, in Harley Street. Viaggiano sulla media di 200 “falloplastiche” all’anno e pare che i clienti siano molto soddisfatti del risultato. Se poi la cifra vi sembra eccessiva, potete rivolgervi al mercato low cost nordafricano: pare che a Casablanca e Rabat, operino circa un centinaio di ottimi chirurghi plastici. Specificate bene però, e a più riprese, che tipo d’intervento desiderate. In questi casi è meglio non dare niente per scontato. Ricordate, perdere tutto è un attimo e tornare indietro è sempre una sconfitta.

giovedì 21 marzo 2013

Considero valore…

L’altro giorno sulla prima pagina della Sueddeutsche Zeitung è apparsa una notizia che i commentatori hanno definito sensazionale: gli elettrodo-mestici sono programmati per rompersi alla fine della garanzia. Perbacco, che straordinaria scoperta.
In Germania il gruppo parlamentare dei Verdi ha commissionato a due ricercatori uno studio volto ad indagare sul ciclo di vita di un campione di oggetti di largo uso e dai risultati emergerebbe che “l’usura pianificata è un fenomeno di massa”. La ricerca, presentata a Berlino e condotta da Stefan Schridde, in collaborazione con Christian Kreiss, professore di economia all’Università di Aalen, ha preso in esame venti tra i prodotti più diffusi in commercio e ha scoperto, tra le altre cose, che sulle stampanti a getto di inchiostro, dopo la stampa di alcune migliaia di pagine, compare l’indicazione di un guasto, pur essendo l’apparecchio perfettamente funzionante; per risuolare le scarpe vengono utilizzati suole di infima qualità, impossibili da distaccare per un eventuale ulteriore sostituzione; le cerniere lampo di giacche e giacconi sono formate da denti a spirale facilmente deteriorabili, così da mandare in pensione capi d’abbigliamento ancora semi-nuovi; e ancora lavatrici che spesso montano resistenze che si arrugginiscono facilmente (alla faccia del Calfort), causando salatissime chiamate del tecnico per la sostituzione. Secondo tale studio, l’opalescenza degli apparecchi sarebbe scientemente pianificata dai produttori attraverso l’utilizzo di materiali di scarsa qualità, o peggio ancora, inserendo appositamente punti deboli nei congegni e nei meccanismi, al fine di ottenere una rapida usura o rottura degli oggetti stessi. Cosa che, in ultima analisi, comporta spese continue per i consumatori, nuova produzione, incremento di utili e profitti per le aziende. La conclusione dei ricercatori è che se tutto questo marchingegno infernale non ci fosse, nelle saccocce dei tedeschi resterebbero oltre cento miliardi di euro all’anno. La Zvei (Associazione dei produttori di elettrodomestici), dal canto suo, ribatte che tutto ciò non solo non corrisponde alla realtà dei fatti, ma che tale sistema di produzione, indurrebbe i clienti insoddisfatti di un determinato prodotto, a cambiare marca. Con grave danno per l’azienda. Ad ogni modo, facendo leva sui risultati di tale studio, i Verdi hanno subito invocato nuove norme sulla riparabilità e la sostituzione dei pezzi di ricambio. Il termine obsolescenza è entrato nel nostro linguaggio da pochi anni e sta a indicare la perdita di valore di un bene causata o dalla sua usura/rottura o dal sopraggiungere del progresso tecnologico che lo rende inadeguato ai tempi. E fin qui tutto normale. Ciò che non è eticamente corretto invece, è forzare questo processo attraverso progettazioni che deliberatamente e arbitrariamente stabiliscano una vita utile limitata del prodotto. Vale a dire costruire male affinché il prodotto si rompa entro un certo periodo. Con tutto ciò che comporta in fatto di spese, accumulo di rifiuti, danni ambientali, spreco di risorse e quant’altro. Nella nostra società nessuno più ripara gli oggetti, nessuno più sostituisce componenti usurati: si butta tutto e si ricompra. Vi si rompe la resistenza del ferro da stiro? Provate un po’ ad aprirlo: vi servirà la fiamma ossidrica. L’imposta della vostra finestra non si chiude più perché si è leggermente imbarcata per l’umidità? Via tutto, si compra una nuova. La batteria del telefonino si è esaurita e non carica più? Lasciate perdere qualsiasi proposito di trovarne una di ricambio: tempo sprecato. Oltretutto la tecnologia odierna galoppa ad un tale ritmo che ciò che ieri era all’avanguardia, domani sarà considerato vecchiume. E di conseguenza il consumatore viene indotto subdolamente a disfarsi continuamente di oggetti perfettamente funzionanti, ma dichiarati fuori moda, superati. Oggi se non possiedi l’ultimo modello dell’I-Phone, se non messaggi con whattapp e non chatti con l’I-Pad sei considerato uno povero “sfigato”.
I sostenitori del progresso e della crescita ad ogni costo sostengono che infondo l’obsolescenza fa girare la ruota della produzione e del consumo a pieno regime, e così facendo genera occupazione e benessere. Già, ma a questo punto ci troviamo di fronte all’assurdo paradosso di dover per forza consumare in funzione della produzione, anche in mancanza di necessità. Perché se smettessimo di consumare, tutto il sistema crollerebbe. Un po’ ciò che sta accadendo con la crisi economica. E ciò sarebbe il male assoluto, naturalmente. Eppure c’è stato un tempo in cui l’umanità viveva poveramente, senza eccessive pretese, tramandandosi oggetti, abiti e beni di varia utilità di generazione in generazione. E tutto sommato non è che stesse poi così male rispetto ad oggi. Quando ero bambino gli abiti che indossavo, spesso erano di mio cugino più grande. E i miei sarebbero andati a mio fratello più piccolo. Il cappottino che diventava troppo piccolo, si allungava con una prolunga di panno sulle maniche. I nostri genitori da adolescenti avevano un solo paio di scarpe: chiuse d’inverno, venivano sapientemente aperte dal calzolaio per trasformarsi in sandali d’estate. D’altra parte il piede cresceva con l’età, e quindi perché sprecare? E quando poi la crescita si arrestava, sotto le suole e sui tacchi venivano applicati i ferretti per evitare che si consumassero. Perché la “roba” doveva durare e il risparmio era considerato un valore. Oggi invece s’invita a spendere, a far girare l’economia. E così abbiamo gli armadi pieni, le scarpiere colme, le credenze stipate all’inverosimile di padelle, pentole e pentolini di ogni forma e dimensione. Tanto che ogni volta che apriamo un’anta ci cade tutto addosso con un fragore orrendo. E poi, dato che in proporzione la merce che si vende oggi costa meno di quella che si vendeva un tempo, ci accaparriamo infinità di oggetti inutili, e spesso di dubbia qualità, che non fanno altro che ingolfarci la vita senza apportarci alcun beneficio. E così viviamo nell’incredibile paradosso che abbiamo tutto eppure ci manca tutto.
Molti anni fa la casa automobilistica Mercedes, che da sempre ha fatto della qualità il suo punto di forza, aveva come slogan una frase vagamente poetica: “La macchina per tutta la vita”. Ed in effetti si trattava di vetture concepite per durare decenni e chi ne comprava una, poteva verosimilmente pensare che quella sarebbe stata davvero la macchina per tutto il resto della sua vita. Oggi invece le automobili anno garanzie a tre anni. Dopo di che, casualmente, si rompe qualcosa. E spesso si tratta di qualcosa di grave, tipo la distribuzione. E dunque gli automobilisti, consci di questo simpatico particolare, un paio di settimane prima della scadenza della garanzia, cambiano l’automobile. Con gran piacere di tutti: in primis dello Stato, che ci guadagna con l’Iva.
Ma anche questo ormai, causa la crisi, si avvia a diventare un ricordo. E così, volenti o nolenti, non ci resta che riscoprire il sapore agrodolce dell’antico. E non è detto che non ci piaccia. “Considero valore quello che domani non varrà più niente, e quello che oggi vale ancora poco” (Erri De Luca, Valore).

mercoledì 20 marzo 2013

Nessuno è perfetto, rassegnamoci

La maggior parte degli utenti di facebook o di altri social network, dopo aver compilato le doverose informazioni di base – evitando accuratamente di mettere la data di nascita qualora si sia superata la quarantina – corre subito a cercare la fotografia più idonea da inserire sul profilo. I più ingenui – pochi per fortuna – scelgono la classica posa da foto segnaletica riuscita male. I più pessimisti invece, pur di non mostrare la loro reale apparenza, optano per panorami d’alta quota, spiagge tropicali, oppure nature morte. O al limite si fanno riprendere in campo lungo, piccolissimi e alle pendici di montagne himalayane. C’è poi la categoria dei furbetti, quelli che barano biecamente pur di apparire meglio di quanto non siano. E ovviamente stiamo parlando della quasi totalità degli sciagurati esseri umani vittime di questi marchingegni informatici. In questi casi il volto del soggetto ritratto è rigorosamente abbronzato, con un sorriso fascinoso e accattivante, spesso nella penombra, in un contesto bucolico o estremamente avventuroso. Le donne appartenenti a tale categoria poi, appaiono tutte come straordinarie star di Hollywood. Tanto che spesso gli ingenui marpioni della rete, osservando tali fotografie, corrono subito a chiedere “l’amicizia” della diva, nella speranza che ci scappi l’avventurazza extra-coniugale (magari senza neanche spendere troppi quattrini, che come si sa, ormai ce n’è pochi). In realtà, dietro a tutta questa meschina messa in scena, ci sono i soliti, miserabili trucchetti del mestiere: nel 99 per cento dei casi, infatti, le belle rappresentazioni che si vedono in rete, non sono altro che il risultato di opportuni ritocchi eseguiti con i più avanzati software di computer grafica. Tutta fatica sprecata, credetemi. Un paio di giorni fa ho ascoltato alla radio di una ricerca condotta dal Dipartimento di Psicologia presso l’Università di Portsmouth (Gb) sulla percezione della bellezza. Stando alle conclusioni degli studiosi sembrerebbe che se anche un individuo, ritenuto unanimemente bello, s’impegnasse ad apparire il più possibile brutto, magari con una smorfia orrenda o assumendo un’espressione disgustata, per gli osservatori non cambierebbe nulla: apparirebbe sempre e comunque attraente. E, conseguentemente, chi è considerato brutto, lo resta anche se cerca in qualche modo di apparire un po’ più bello, magari sfoggiando un bel sorriso. In altre parole, se puta caso Jimmy il Fenomeno apparisse sorridente su di un panfilo al tramonto, abbigliato con il miglior vestito di Armani e contornato da splendide fotomodelle, sarebbe comunque considerato un cesso. E di converso, se anche Brad Pitt fosse fotografato mentre spala letame, strabuzza gli occhi e fa una boccaccia all’obiettivo, non ci sarebbe alcun dubbio: sarebbe comunque considerato un gran figo. È la triste sorte riservata ai brutti, e i brutti lo sanno. Tant’è vero che, per superare l’angosciante constatazione, un giorno un brutto (forte) s’inventò l’assai ipocrita espressione: “Non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace”.
Il chirurgo plastico Paolo Mezzana ha lanciato su facebook un sondaggio che ha coinvolto 1.600 donne. La domanda a cui bisognava rispondere era: “Come ti consideri?”. Il 18 per cento delle interpellate ha risposto di considerarsi bella, mentre l’82 per cento ha affermato di sentirsi “normale” o “niente di che”. E quali difetti vorrebbero correggere, queste benedette donne, se solo potessero? Soprattutto pancia (15 per cento) e naso (10 per cento). Un’intervistata su tre inoltre, afferma che modificherebbe più di una cosa di se stessa. A salvarsi, a quanto pare, ci sarebbero solo occhi e labbra. Strana quest’ultima voce, considerando tutti i “canotti” che si vedono in circolazione. Mezzana sostiene che in realtà, spesso ciò che si chiede di correggere al chirurgo plastico non è neanche un difetto, ma semplicemente una distorsione della propria immagine. In altre parole molte persone metto in relazione il proprio disagio esistenziale con i propri (presunti) difetti fisici, e credono di risolvere il problema con una operazione chirurgica. Salvo poi, ad operazione avvenuta, accorgersi che c’è un altro difetto, e poi un altro e ancora uno, in una catena infinita di paranoie mentali che avrebbero bisogno di trattamenti specialistici di tutt’altra natura. Ma l’atelofobia, vale a dire l’angoscia di sentirsi imperfetti, anche in assenza di difetti oggettivi, oltre ad essere il campanello d’allarme di un disagio psicologico, può essere anche causa di disturbi fisici e metabolici. La perfezione fisica spesso viene valutata sulla base di un’errata concezione della realtà, di come le cose dovrebbero essere, secondo il proprio modo di vedere le cose. Una ricerca condotta dalla Flinders University, di Adelaide ha dimostrato che dietro allo sviluppo di disordini alimentari e comportamenti a rischio, o compulsivi, vi sarebbe il perfezionismo, quale visione distorta di quello che dovrebbe essere l’immagine ideale del proprio corpo. Vale a dire, quanto più una persona pensa di essere idealmente lontana dal proprio modello di riferimento, tanto più avrà la possibilità di andare incontro a disturbi e problematiche. Anche qualora non abbia grossi problemi di linea. Le donne, in altre parole, pagano oggi lo scotto di avere come cliché di riferimento, la modella al limite dell’anoressia. Ma si tratta pur sempre di cliché: nell’antichità per esempio andavano di moda rotondità e taglie forti e le rinsecchite non venivano neanche guardate.
Oggi quasi nessuno si accetta più per ciò che è. Persino gli uomini, un tempo fieri del loro aspetto beluino, perseguono la bellezza ad ogni costo ricorrendo a creme viso, creme corpo, depilazioni totali, mascheroni, massaggi. Molti arrivano finanche a farsi ritoccare le sopracciglia, ottenendo come risultato solo tragiche espressioni ambigue ed effeminate. Quando la smetteremo di correre dietro alla chimera della perfezione? Quando cominceremo ad accontentarci di ciò che siamo?
Non ne ho la certezza, ma sono convinto che se Venere nascesse oggi, non superebbe neanche il più infimo dei casting. D’altra parte con quello strabismo, dove volete che possa andare…?

martedì 19 marzo 2013

Quella nevicata del ’85… e non solo

Questa mattina la mia attenzione è stata attratta da una notizia comparsa sul Corriere della Sera: “Total cede a Mitsui il 25 per cento del pozzo di Tempa Rossa”. Tempa Rossa è un pozzo petrolifero sito nel Comune di Guardia Perticara (in provincia di Potenza), ed è in regime di concessione per il 50 per cento ai francesi di Total, per il 25 per cento all’anglo-olandese Shell, e per il restante 25 per cento appunto alla nipponica Mitsui. In questo progetto i francesi hanno investito la bellezza di 1,6 miliardi di euro, e quando il campo di Tempa Rossa entrerà a regime farà aumentare la produzione italiana di greggio del 40 per cento. Cosa c’è di particolare in questa notizia, vi chiederete. Ebbene, in un lontanissimo giorno di maggio del 1985 avevo tredici anni e mi trovano in seconda media. Dopo l’intervallo – o meglio la ricreazione – entrò in classe la professoressa d’inglese, colma di entusiasmo e rivolgendosi a tutti, disse: «Ragazzi, devo darvi una notizia sensazionale… in Basilicata hanno trovato il petrolio». Rimanemmo attoniti, come se non afferrassimo fino in fondo cosa volesse significare quell’informazione. L’unico che reagì d’impulso – e la cosa fu sommamente comica – fu il mio amico Davide: «Ma non ci credete a quello che dice questa qua…! Sono tutte sciocchezze…». La professoressa divenne paonazza di rabbia ed esplose in una serie di contumelie all’indirizzo del povero Davide, che probabilmente non si rese neanche pienamente conto di quale grave affronto si era macchiato. Non so per quale motivo egli se ne uscì con quella frase sconsiderata. Forse perché aveva in antipatia la professoressa, o forse perché odiava l’inglese. Fatto sta che quella gag riscosse uno effetto straordinariamente esilarante. Tanto che ancora oggi se ne parla con i vecchi compagni di scuola: «Chi di voi si ricorda di quella volta che la Levati entrando in classe disse: “Ragazzi, ho una bellissima notizia. Hanno scoperto il petrolio in Basilicata”. E Davide rispose: “Ma non ci credete…, sono tutte cavolate…!”. E lei s’incazzò come una mina…».
«Qualche tempo fa ho ricordato a Davide questo episodio e lui sapete cosa mi ha risposto? “E allora? Stronza era e stronza é rimasta”. Quanto ridere…».
«Parole sagge…»
«A no, non toccatemi la Levati».
«Fiorella, hai ragione! Ho imparato più con lei in tre anni che nei cinque delle superiori».
«Pure io, e ho fatto il linguistico soprattutto grazie a lei».
«Io invece proprio non la digerivo…»
«A me ha dato dei votacci per due anni e la odiavo. Poi le cose sono cambiate e ho cominciato ad apprezzarla. Il giudizio che abbiamo di qualcuno è sempre molto soggettivo. Purtroppo o per fortuna».
«Già, mi sa che hai ragione Lu».
Ad ogni modo, dopo quattro anni di studi geologici e rilievi sismici, l’Agip ritenne antieconomica l’impresa e per decenni abbandonò l’idea di estrarre greggio da quei pozzi (a quell’epoca il petrolio andava a 48 dollari al barile). Da quella data in poi tuttavia, l’offerta di petrolio cominciò a diminuire e la domanda schizzò alle stelle, trascinando al rialzo i prezzi. Parallelamente si affinarono le tecniche di ricerca e di sfruttamento dei giacimenti e così anche il petrolio della Basilicata divenne appetibile. Dunque, per tirare le conclusioni, nel breve periodo aveva ragione Davide, nel lungo la professoressa.
Tutto ciò mi ha fatto riflettere su quanto tempo sia passato da allora, quanta strada abbia fatto l’umanità in trent’anni. Mi fa uno strano effetto parlare alle volte con dei ragazzi e scoprire che per loro, per esempio, i nomi di Gullit e Van Basten sono pressoché sconosciuti. Poi rifletto e mi rendo conto che quando il Milan di Sacchi vinceva la Coppa dei Campioni gli attuali ventenni non erano neanche nati. Questo sì che è un portentoso strumento di misurazione del tempo. In quel lontano 1985 Cossiga veniva eletto Presidente della Repubblica (“Il Picconatore”); nell’allora U.R.S.S. Gorbaciov veniva nominato segretario del Pcus e avviava la perestrojka; Jacques Delors presiedeva la commissione esecutiva della Cee; a Los Angeles veniva pubblicata We Are the World (M.Jackson/L. Richie); allo stadio Heysel di Bruxelles 39 persone morivano durante la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool; in Sud Africa scoppiava la rivolta contro l’apartheid; Falcone e Borsellino chiudevano l’ordinanza di rinvio a giudizio contro 707 persone sospettate di appartenere a Cosa Nostra. E ancora: il biglietto del tram costava 500 lire, il pane 1.200 al chilogrammo, la carne di manzo 11 mila, la benzina 1.329 al litro. E poi il caffè al bar costava 400 lire, il latte 780 al litro, il vino 900 e il dollaro vale 2.200 lire. E lo stipendio di un operaio era 600 mila lire. Un’era geologica fa.
Ma quel 1985 rimase famoso per un evento in particolare: la “Nevicata del secolo”. A Milano, dopo quattro giorni e tre notti di nevicata ininterrotta (dal 13 al 17 gennaio), il manto nevoso arrivò fino a 70 centimetri (nell’hinterland superò il metro). Assolutamente impreparato ad un evento di tale portata, tutto il Nord Italia piombò nel caos. Ci volle l’intervento dell’Esercito per sgombrare le strade. Sotto il peso della neve crollò il tetto del velodromo Vigorelli. E non fu mai più ricostruito. Scuole e uffici restarono chiusi e tutte le vie cittadine vennero invase dall’allegria dei bambini. Me la ricordo bene quella nevicata, e mi ricordo la gioia che provavo a giocare con gli amici. C’era un silenzio ovattato, irreale, le automobili non circolavano e tutto era candido come panna montata. Ogni tanto, a squarciare quella quiete, sopraggiungeva un boato spaventoso e inatteso: erano gli accumuli di neve sui tetti dei palazzi che precipitavano fragorosamente al suolo. Spaventandoci a morte. In quella settimana di vacanza insperata e inaspettata si svolsero avvincenti battaglie a palle di neve, vennero costruiti monumentali pupazzi di neve, spuntarono bob di plastica rossa, slittini di legno e perfino alcuni sci. Si giocava in cortile senza doposci o giacconi da montagna: i bambini avevano il cappotto, gli scarponcini, e i guanti di lana (quando andava bene). E tornando a casa fradici sapevano di andare incontro alle rampogne della mamma. Un pomeriggio ricordo che scesi in strada e vidi un ragazzino, che abitava nel mio caseggiato, intento ad accumulare una palla di neve mostruosa sulla capote dell’automobile di mio padre. Ne seguì una delle prime scazzottate della mia vita.
«E vi ricordate quando la professoressa di matematica ci diede per punizione una marea di espressioni da fare a casa per compiti?».
«Ecco questo me lo ricordo anche io…».
«È da li che mi sono piaciuti i numeri…».
«Accidenti, questa me la sono persa…! E la professoressa di arte? Ma lei c’ha mai insegnato qualcosa? Comunque a me piaceva di più il professore di tecnica. Anche lei però aveva il suo perché…»
«La prof di arte, a voi maschietti, vi ha fatto scoprire il magico mondo degli ormoni».
«Si, in effetti era una gran bella fantasia…!».
«E chi si ricorda dell’altra, la supplente d’arte con i capelli corti? Camicetta perennemente sbottonata…».
«Luigi, un sussulto di memoria: il primo capezzolo live…».
«Esatto… ho ancora impressa la faccia di Braconi quando le si metteva di fianco e sbirciava…».
«Mi sto commuovendo…! Voglio tornare bambino…».

Grazie ragazzi.

lunedì 18 marzo 2013

Ma quanto parlano le donne…?

Per capire fino in fondo ciò che andrete a leggere dovreste fare prima un bel viaggio in treno, uno di quei viaggi da pendolari che, dalla periferia dell’Impero, porta verso le grandi metropoli.
Quando una ventina d’anni fa mi trasferii nella bassa padana, cominciò per me questa meravigliosa esperienza chiamata pendolarismo. Che è tutt’altra cosa rispetto al pendolismo, anche se il primo è spesso causa scatenante del secondo. D’altra parte si sa, lo stress e i sacrifici che comportano questa vita nomade, non aiutano affatto la sfera “affettiva”. A meno che, ipotesi assai remota purtroppo, non avvenga qualche incontro intrigante a bordo. E a quel punto sonno apocalittico o meno, caldo sahariano o freddo siberiano – nelle carrozze eternamente inadeguate al momento meteorologico – , poco conta: il risveglio dei sensi è assicurato. In fondo non c’è niente di più erotico di un incontro casuale d’amorosi sensi su di un treno lanciato nel nulla di un’alba appena accennata. Non per niente treni e stazioni da sempre esercitano un attrazione irresistibile per i picchiatelli. Ed infondo, chi più chi meno, tutti siamo un po’ picchiatelli. Il più delle volte invece, avviene che si salga sulla carrozza che da fuori sembra meno affollata e, tempo trenta secondi netti, ci si accorge di essere accerchiati da una valanga di pettegole ridanciane e vocianti. Anzi, gracchianti. Costoro si conoscono da anni, forse decenni, e ogni mattina – per cinque giorni a settimana – si ritrovano sullo stesso convoglio, sul medesimo vagone, identico scompartimento. E se puta caso un povero sprovveduto inavvertitamente si siede tra costoro, immediatamente gli viene fatto notare che quello è il posto della Piera, e che dunque gentilmente è pregato di andare a posare le sue stanche terga altrove. E così lo sventurato si scusa, si alza e si sistema due file più dietro. Poi tira su il cappuccio della felpa, e cerca di riposare per quell’oretta di interludio, prima che cominci l’inferno quotidiano. Ma il nostro non ha fatto i conti con il gineceo viaggiante. Gli ci vuole davvero un attimo per capire in quale drammatica situazione si è cacciato. Nel vagone cigolante si diffondono subito voci vibranti, risate argentine, urlettini, sbruffi, lamentele, versi gutturali, tutto un portentoso sonoro di sottofondo (anzi, di soprafondo) che non lascia scampo. Il disgraziato cerca di tapparsi le orecchie, finge di non sentire, si gira su un fianco sperando di ricevere attutite quelle voci, ma non c’è niente da fare: storie d’amore, tradimenti, gelosie sul posto di lavoro, invidie, rancore verso la suocera e non solo, entusiasmo ripugnante per le prodezze dei nipotini, pettegolezzi. In questi tragici momenti mattutini le donne sono davvero capaci di raggiungere delle vette strabilianti di insulsaggine. E così il nostro eroe incrocia lo sguardo con un altro disperato come lui, ed entrambi – già sconvolti e sgomenti per l’alzataccia – non riescono a fare altro che sbruffarsi in faccia reciprocamente, in un ultimo angosciante afflato di fraternità. A quel punto la situazione è già spaventosamente intollerabile. E così il nostro si sporge per vedere in faccia le disturbatrici e davanti ai suoi occhi si palesa una scena surreale: le concionanti viaggiatrici hanno tra le mani chi una trousse, chi un ombretto, chi un rossetto, e conversando amabilmente - soprattutto di quei rompicoglioni dei mariti - sono tutte intente a truccarsi, a curarsi, ad abbellirsi, a spazzolarsi i capelli. E chiacchierano, chiacchierano ad alta voce, come se fossero dalla parrucchiera o dall’estetista. Discorsi spesso dissociati gli uni dagli altri, in genere mai più di venti parole, puntualmente interrotti da voci che si sovrappongono, si parlano sopra con tono e volume crescente, s’intromettono con frasi che spezzano la continuità del ragionamento e, che in ultima analisi, suonano come parole vane e solipsistiche, pronunciate solo per se stesse. Di fronte a tale spettacolo, al nostro disperato pendolare, non resta che rassegnarsi: la sua lunga, tragica esperienza di viaggiatore forzato gli dice che se anche dovesse cercare un altro posto, la situazione non migliorerà. E dunque si risiede sconsolato e, con lo sguardo sperso nella campagna lattiginosa che lentamente emerge dall’ombra della notte, non gli resta che pensare ai giorni che lo separano dalla vacanze estive, allorché finalmente potrà allungarsi sul suo bel lettino da mare, cullato dal vento di libeccio e dal profumo di salsedine. Fatta salva naturalmente la presenza della pettegola da spiaggia. Una delle sciagure più spaventose che esistano in natura.
Ma in generale, è la vita di tutti i giorni che ci mette al cospetto di questa tragedia: avete mai provato a fare la fila dal panettiere, o dal macellaio? E perché, dal salumiere? L’altro giorno mi sono messo in coda per comprare un misero etto di bresaola, ma purtroppo davanti a me c’erano un paio di signore sulla cinquantina. Ha attaccato la prima: “Quel crudo sarà mica troppo salato, vero? Mi elenchi tutti i prezzi dei cosciotti sul primo scaffale, che non ho gli occhiali con me”. E poi ha continuato: “Mi tolga il grasso per cortesia”. E ancora: “Me lo tagli un po’ spesso, che devo cucinarlo”. Il salumiere mi guardava cercando un po’ di umana solidarietà. Poi ha attaccato l’altra, questa volta con il cotto: “Mi levi il grasso (ma sto grasso non piace proprio a nessuno… eppure è la parte più buona: ndr), le fette le faccia sottilissime, però ne tagli una un po’ spessa perché ci devo fare l’arrosto di patate”. E non finisce qui, perché poi hanno attaccato con i formaggi e i latticini. A quel punto ero sfiancato e mi sono involato verso gli insaccati confezionati.
E dal tabaccaio? Se c’è il titolare te la sbrighi in due secondi. Se c’è la moglie, sei fregato. Di solito è lì che parla con una cliente, e sebbene tu ti sporgi verso il bancone, ti fai vedere, gesticoli con la banconota in mano, questa niente, fa finta di non vederti: l’uomo invisibile. E quando finalmente la chiacchiera ha termine, vieni squadrato con astio e disprezzo, essendo considerato tu la causa di quella chiusura affrettata. E se per puro caso vi trovate in un negozio di elettrodomestici e vi salta il ghiribizzo di chiedere dove si trovano le cartucce per la stampante? Ecco, evitate assolutamente di mettervi in coda dietro una donna: prima che esaurisca le sue dodicimila domande sulla nuovissima lavapanni Bosch vi sarà venuta la prostata come un pallone da basket. E se siete a spasso con la vostra fidanzata, e per puro caso lei s’incontra con un’amica? È la fine: cominceranno a parlare di loro, degli amici, dei parenti; e poi della dieta, della palestra, del lavoro, dell’ultimo film di George Clooney, dell’ultimo volume delle Sfumature di grigio. E voi lì, ad aspettare che quelle stramaledette chiacchiere finiscano una buona volta. L’altra sera mi raccontava un collega di quella volta che si trovava in trasferta per lavoro. Era l’otto di marzo di alcuni anni fa. Il poveretto, terminate le sue incombenze, cominciò a cercare un posto in una pizzeria, ma tutte quelle del centro gli risposero che erano al completo. Si spostò verso la periferia e alla fine, una buon’anima gli rispose: “Guardi, è tutto prenotato per via della festa della donna. Però, se si accontenta, posso sistemarla in quell’angolino laggiù…”. Si trattava di un pertugio dove c’era un piccolo tavolino con su alcune pile di piatti. Il mio collega accettò: non aveva alternativa. Dopo qualche minuto arrivò l’orda selvaggia: risate sguainate, commenti ad alta voce, conversazioni al telefonino che tutti potevano udire. Un disastro. Il povero tapino, tra l’altro, cominciò ad essere osservato come un animale raro. Lasciò lì la pizza e scappò via senza salutare.
Si dice, va be’ ma questo fa parte del carattere delle donne, della loro indole. Già, così si è sempre creduto, che fosse cioè un fenomeno legato alla sfera sociale, alla psiche, al comportamento di genere. La scienza tuttavia, non è rimasta con le mani in mano, e oggi siamo a conoscenza del meccanismo che sta alla base della terrificante loquacità femminile. Secondo i ricercatori dell’Università del Maryland, dietro alle chiacchiere delle donne ci sarebbe una proteina, la Foxp2, familiarmente conosciuta come “proteina della lingua”. Questa proteina, più elevata nelle donne, farebbe sì che queste tendano a dire in media 20mila parole in un giorno. Tredicimila parole in più rispetto agli uomini. Tre volte tanto. I ricercatori ritengono che sia proprio la proteina Foxp2 a essere la responsabile della loquacità, dato che in tutti i casi in cui è stata trovata essere più elevata, si riscontrava un comportamento più ciarliero.
Lo vedete, gira e rigira è sempre una questione di chimica. A questo punto però, sarebbe auspicabile anche l’antidoto contro la Foxp2: basterebbe una bustina sciolta di nascosto nel caffè e tutto sarebbe più silenzioso. Che meraviglia. Signori scienziati, vediamo di darci una mossa per cortesia.

venerdì 15 marzo 2013

Storie di latrine e latrinai: un business che non teme la crisi

“Gentile Ministro, sono il latrinaio di Milano Centrale. Come uomo sono molto sensibile all’arte in tutte le sue forme. Pensi che mia nipote ha fatto la tesi all’Università sulle scritte dei cessi. Sappiamo tutti che molte tele di inestimabile valore rimangono negli scantinati dei musei per mancanza di superficie espositiva […]. Ecco la mia proposta: decentrare in spazi non convenzionali (cessi pubblici) il patrimonio artistico nazionale. Io metto a disposizione la cubatura del mio locale che è di 650 metri quadri. Il mio obiettivo e quello dei miei colleghi è quello di creare un centro dove convergano molteplici interessi e che faccia venire la gente non solo per pisciare ed esercitare la pederastia (che comunque rimane la colonna portante del nostro fatturato), ma anche per pittura, scultura, stagioni liriche etc…! […]. D’altra parte solo con le mance non ce la si fa più. Le tasse sono tante. Distinti saluti”. Si tratta della geniale proposta avanzata nell’aprile 2007 da Maurizio Milani - allora titolare della latrina di Stato numero 822, sita in Stazione Milano Centrale, Ala Est - al Ministero dell’Università e della Cultura (immagino). O forse a quello delle Attività Produttive (che mi sembra più in sintonia con la materia). Non se n’è saputo più nulla della vicenda, e quindi è assai probabile che la bella iniziativa culturale non si sia concretizzata. Spiace perché orinare guardando un quadro di pregio oppure una statua romana, sarebbe stato assai gradevole. Qualcuno, in preda alla sindrome di Stendhal, avrebbe potuto anche scoppiare a piangere. Siamo pronti a scommetterci. Che scena sarebbe stata: commozione ed estasi in una pubblica ritirata.
Ad ogni modo da allora ne è passata di acqua… negli scoli fognari, ed anche la latrina di Milano Centrale non è più la stessa. Un tempo varcare la soglia di una di queste toilette pubbliche era un’avventura ai limiti della fantascienza. Fin dal primo momento si veniva aggrediti da un odore violentissimo di merda fresca di giornata, orina, varechina, e le tracce escrementizie potevano essere ammirate praticamente in ogni dove, sui pavimenti, sui copri-cessi spaccati, sulle pareti, nei lavandini. Ovunque salvo che nelle tazze. Anche perché queste ultime erano costantemente intasate, oltreché cronicamente sguarnite di carta igienica. Alle volte capitava di intravedere qualche residuo perfino sul soffitto. Performance indubbiamente ascrivibili a cagatori acrobati (come giustamente sottolinea Paolo Villaggio nel suo libro Sono incazzato come una belva). E poi le porte erano sempre spaccate, le serrature rotte. Una sciagura, soprattutto per i timidi. Una volta ricordo che mi trovato in una toilette assai malmessa: la porta si apriva a compasso verso l’esterno ed era priva di chiavistello. E così per liberarmi del fardello dovetti accovacciarmi sulla turca aggrappato alla maniglia, onde evitare che qualcuno entrasse. Passarono solo pochi istanti dall’inizio delle operazioni, quando la maniglia si schiodò improvvisamente dalla porta, talché io mi ritrovai completamente invischiato nella problematica sottostante. E la cosa fu sommamente imbarazzante, come capirete.
Oggi invece le toilette delle stazioni sono quasi dei centri benessere: pulitissime, asettiche, profumate, molto illuminate. E anche il personale è sempre presente, educato e assai disponibile. L’unico inconveniente è che per accedervi occorre sborsare la non irrisoria cifra di un euro: quasi duemila delle vecchie lire per potersi accomodare nella cella defecante. Non poco direi. Che a quel punto chiunque, anche se non necessitato, si sente obbligato all’esercizio dell’atto grande, ritenendo la semplice minzione poca cosa rispetto a cotanta spesa. Ma purtroppo tale sanguinoso esborso non sarebbe neanche il principale dei problemi. Per entrare nelle toilette infatti, occorre superare uno sbarramento con porte automatiche in vetroresina, e l’apertura delle medesime avviene esclusivamente introducendo l’apposita moneta nella fessurina. Ho visto scene agghiaccianti di viaggiatori, al limite dell’esplosione, intenti a ricercare disperatamente il fottuto obolo in ogni tasca. Paonazzi in viso e con movimenti frenetici, lottavano contro il tempo per evitare la disfatta ad un passo dalla salvezza. Poi, improvvisamente si arrestavano, sulla faccia il ritratto della delusione. E lentamente due litri di orina caldissima cominciava a scendere lungo i pantaloni e sulle scarpe scamosciate beige. Ecco perché molti, di fronte all’esosità dei latrinai e alle complicanze della modernità, salgono sul primo convoglio in stazionamento sui binari e mingono - o peggio ancora - nelle ritirate. Spesso però accade che il treno parta senza preavviso e così ci si ritrova diretti a Bari. Poco male, la città merita.
Che poi non si capisce perché i prezzi delle toilette non siano tutti uguali. Quelle di Milano Lambrate, ad esempio, costano settanta centesimi. Cos’è questa discriminazione tra viaggiatori? E poi perché non esiste una lista con i relativi costi per le varie necessità fisiologiche? Siamo mica tutti uguali di fronte alla turca. E ancora, perché le toilette ad una certa ora chiudono? Cos’è, passato l’orario d’ufficio facciamo un nodo all’uretra e applichiamo un tappo al retrobottega? Poi ci si lamenta del cattivo odore nei sottopassaggi. Facciamo dunque una bella assunzione massiccia di latrinai e teniamo aperti gli esercizi anche la notte: almeno contribuiremmo ad abbattere un po’ di disoccupazione. O sennò perché non pensare a cessi di serie “A” (aperti solo di giorno) e cessi di serie “B” (aperti anche la notte): se un viaggiatore vuole il trattamento si recherà nei primi; se al contrario non teme né odori sgradevoli né incuria potrà gratuitamente espletare nei secondi. E comunque nessuno più espleterà sui muri. Ci vuole tanto, dico io? Eppure di esempi in giro per il mondo ne abbiamo a bizzeffe: il business escrementizio è in forte ascesa. In Svezia e in Cina per esempio le toilette pubbliche (rigorosamente gratuite) provvedono a separare i rifiuti solidi da quelli liquidi e, attraverso il loro trattamento, si ottengono fertilizzanti da rivendere all’industria agricola. Cioè lo Stato guadagna rivendendosi la merda dei cittadini. Ditemi se non è fantastico? Negli Stati Uniti, invece, il giovane designer Eddie Gandelman – nell’ambito di una riqualificazione urbanistica – ha progettato una struttura cilindrica, in cui trovano alloggio quattro orinatoi, alla cui sommità sono poste alcune piante acquatiche. Queste ultime, dopo un opportuno trattamento chimico, vengono innaffiate con l’urina dei cittadini. A tal proposito ricordo che qualche tempo fa un amico mi raccontò di una visita fatta ad un parente. Costui, probabilmente a causa di mancanza di spazio, aveva sistemato una serie di vasi di pomodori nel bagno di casa. Alcuni di questi perfino accanto alla tazza del water. Quando la moglie del mio amico si recò alla toilette e si avvide di quella scena surreale, rimase assai scandalizzata. E ciò nonostante i pomodori – occorre dirlo – manifestassero una splendida maturazione. Quando gli ospiti erano sul punto di congedarsi, il padrone di casa si ricordò all’improvviso: «Aspettate un attimo, prendo due pomodori così stasera vi fate una bella insalata». Pare che la moglie del mio amico sia esplosa con un non molto commendevole: «Non ti permettere, sai…».
Che volete, alle volte l’ignoranza è davvero una brutta bestia: vallo a spiegare a quella benedetta donna che ormai le piante si concimano pisciandoci sopra…!
E per chiudere in bellezza una notizia da Londra: un imprenditore assai sagace ha pensato bene di trasformare una vecchia e abbandonata latrina pubblica di epoca vittoriana, in una caffetteria di gran moda. Ma, invece di cancellare tutti i ricordi passati circa l’attività che ivi si teneva, ha deciso di metterli ben in evidenza, mantenendo gli originali orinatoi del 1890 Doulton & Co. come arredamento. Il locale, sito in Foley Street, si chiama The Attendant e gli orinatoi se ne stanno esposti in bella vista, e vengono utilizzati come scintillanti divisori. Che meraviglia, che originalità, che genio di uomo…! Chi c’è stato sostiene di aver gustato cibi degni di ristorazione grant gourmet. E oltretutto pare che non ci sia mai la fila per la toilette. Neanche all’ora di punta. Un bel vantaggio, no?

giovedì 14 marzo 2013

Il mondo più si raffina, più va in rovina

«Hai da fare? Mi accompagni a prendere la bambina?».
«In che senso? Perché dovrei accompagnarti?».
«I genitori sono occupati, ci vuole qualcuno che vada a prendere la bambina. Ma io non ho la patente, come tu ben sai…».
«Ma perché, c’è bisogno dell’automobile per fare trecento metri di strada?».
«Non cominciare con le tue solite storie: per di più oggi piove…».
Questo è il dialogo avvenuto qualche giorno fa tra mia madre e me. La bambina in questione è mia nipote. Fino ad allora la mia conoscenza dell’universo “uscita da scuola” si era limitato alla lettura di qualche feroce intemerata contro le cattive abitudini italiote. Per il resto le uniche esperienze risalivano ad epoche “puniche”, quando ancora ragazzo riconquistavo la libertà, abbandonando le odiate mura scolastiche. E così, quel pomeriggio, ho preso la macchina e con affianco mia madre, mi sono avventurato verso l’asilo (anzi, scuola materna, per la precisione) di via Roma: neanche un minuto di strada ed eravamo arrivati. E la faccenda si è subito messa malissimo. Tutta la via era costipata di automobili, ingorghi a croce uncinata, posteggi volanti e in doppia fila, portiere aperte, mamme che sbraitavano le une contro le altre, vigili che correvano e fischiavano come indiavolati. Una scena da guerra civile. Ho fatto scendere mia madre e le ho detto che l’avrei attesa dall’altra parte della via. E lei subito di rimando: «Si, ma non allontanarti troppo…, mi raccomando». E così, a fatica mi sono divincolato da quell’inferno e ho fatto il giro dell’isolato. Stessa situazione anche qui: vetture in manovra, doppia fila e conseguente restringimento della sede stradale, bimbi in tenera età sguscianti tra musi e culi delle automobili. Un incubo. Alla fine ho trovato un pertugio e mi sono assai prudentemente accostato in attesa. Dopo qualche minuto finalmente madre e nipote mi hanno raggiunto, ed io, spaventato a morte, ho ripreso la via di casa cercando di non arrotare qualche pargolo.
Ecco cosa vuol dire accompagnare o andare a prendere a scuola i bimbi oggi in Italia: un’avventura ai limiti della fantascienza. Ebbene in questi giorni è stato pubblica lo studio dell’Istc (Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione) del Cnr – promosso dal Policy Studies Institute di Londra – , sull’autonomia dei bambini nel tragitto casa-scuola. L’indagine, che ha riguardato quindici Paesi del mondo, ha evidenziato che i bambini italiani sono tra i più penalizzati in fatto di autonomia di spostamento, passando dall’11 per cento nel 2002 al 7 nel 2010. Molto più fortunati sono i loro coetanei inglesi e tedeschi (41 e 40 per cento). In Italia quasi sette bambini su dieci vengono accompagnati tutte le mattine a scuola in macchina dai genitori. Ed ovviamente l’utilizzo dei mezzi pubblici è quasi inesistente (3 per cento). Quando ero bambino le mamme accompagnavano i figli solo il primo giorno di scuola, quando andava bene, e tutto il resto dell’anno – che piovesse, nevicasse, o ci fosse l’uragano – ogni studente se ne andava per conto proprio. E questo non era vissuto come uno svantaggio dagli interessati, ma anzi significava l’emancipazione dall’età infantile, la conquista della libertà, la possibilità di fare esperienze, di acquisire sicurezza, di intrecciare rapporti con le persone del proprio quartiere. E tutto ciò consentiva all’adolescente di crescere, di maturare un’identità e di inserirsi nel tessuto sociale. All’età di sei anni io, e come me quasi tutti i miei coetanei, non solo andavo a scuola da solo, ma spesso avevo con me anche le chiavi di casa, dato che i genitori erano via per lavoro. E inoltre avevo anche l’incombenza di portare mio fratello all’asilo. Se oggi accadesse un fatto del genere i genitori verrebbero immediatamente denunciati all’autorità per abbandono di minori. Si dice: “Ma un tempo era diverso, non c’erano tutte queste automobili e poi la delinquenza è aumentata”. Già, ma per quanto riguarda la prima obiezione, non sono forse gli stessi genitori la causa dell’aumento del traffico scolare? Non è forse questo assurdo assalto alla scuola a mettere a repentaglio l’incolumità fisica dei bambini? E quanto alla delinquenza, tutte le statistiche concordano nel sostenere che il fenomeno è in costante diminuzione rispetto al passato. Ciò che è cambiato rispetto a venti o trent’anni fa è il nostro livello di benessere. Anzi, di comodità. Come dice un vecchio proverbio: “Il mondo più si raffina, più va in rovina”.
Da decenni ormai le nostre città hanno perso la loro fisionomia originale e si sono trasformate in una realtà a misura di automobile: parcheggi, sopraelevate, semafori sostituiti da rotonde per semplificare la circolazione, cancellazione di spazi verdi. In molte vie urbane sono scomparsi finanche i marciapiedi e spesso compaiono cartelli che vietano il transito ai pedoni. Basta dare un’occhiata a qualche foto del secolo scorso per capire quanto abbiamo perso grazie al tanto decantato progresso. E a farne le spese, sono soprattutto i più piccoli. Oggi i bambini non devono prendere freddo perché sennò si ammalano; non possono portare lo zainetto perché sennò s’ingobbiscono; non possono passeggiare da soli per strada sennò fanno brutti incontri. In altre parole sono costretti a vivere sotto una campana di vetro. E tutto ciò, lungi dal preservarli dai pericoli, ha la conseguenza di creare adolescenti disadattati, asfissiati dai miasmi, stressati dalle angosce dei genitori, e per di più tendenti al sovrappeso o addirittura all’obesità. Splendido. Eppure molti, pur accorgendosi di questi tragici paradossi, rispondono con un’alzata di spalle, o al massimo con un sospiro che sa tanto di “purtroppo è così che deve andare”. Peccato che, appena varcato il confine, si trovino realtà del tutto diverse dalla nostra: in paesi come Germania, Francia o Inghilterra infatti, non è affatto raro incrociare lunghe file di bambini che vanno a scuola a piedi da soli. Tutt’altro: lì è la regola. Ed oltre a ciò ci si accorge che esistono percorsi pedonali illuminati e protetti, che il servizio di trasporto pubblico è straordinariamente efficiente – e spesso gratuito – , che le aree scolastiche sono completamente pedonalizzate e che dunque non esiste traffico privato. Ma a questo punto entriamo nel delicato tema del diverso grado di civiltà raggiunto dai popoli, ed il confronto a tutto campo rischia di trascinarci definitivamente nella depressione più nera. Secondo le Nazioni Unite entro il 2050, il 70 per cento della popolazione mondiale sarà concentrata nelle grandi aree urbane. La vera sfida è quella di creare città a misura d’uomo, e non giungla selvaggia. In Italia, stando agli ultimi dati dell’Aci, circolano quasi cinquanta milioni di automobili; per ogni cittadino lombardo ci sono ben 1,6 automobili. Non ce lo possiamo più permettere. Sia dal punto di vista ambientale sia da quello economico. Ed infatti l’ultimo rapporto del Censis, presentato ai primi di dicembre, ci dice che lo scorso anno per la prima volta le vendite di biciclette hanno superato quelle delle auto: 1.748.143 vetture immatricolate contro 1.750.000 bici vendute. Inoltre pare che quasi due italiani su tre abbiano cominciato a ridurre gli spostamenti in automobile per risparmiare benzina.
La crisi morde, su questo non c’è dubbio: eppure, come ogni male che si rispetti, alla fine porterà con se qualcosa di buono.

mercoledì 13 marzo 2013

La noia, questa sconosciuta

A fine febbraio il Wall Street Journal si è occupato di un argomento assai particolare: la noia. Il che è già una notizia, dato che stiamo parlando di un giornale che da sempre ha fatto dell’economia e della finanza il suo cavallo di battaglia. Certo in questi giorni di conclave, di assalti (fortunatamente pacifici) ai tribunali, di ansiogeni colloqui politici e di moniti presidenziali (sempre “con viva e vibrante partecipazione”) c’è poco da annoiarsi. Al massimo c’è da arrabbiarsi. Ad ogni modo l’argomento ci sembra interessante, anche perché pare che negli ultimi tempi ci sia un crescente numero di ricerche scientifiche volte ad indagare questo particolare stato d’animo. Non per niente da ormai tre anni si tiene la Boring Conference, una conferenza annuale sulla noia, che attira centinaia di psicologi, neurofisiologi, antropologi e altri studiosi. E così il quotidiano statunitense ha raccolto alcuni di questi lavori e li ha messi a disposizione dei lettori, introducendo l’articolo con il consueto humour anglosasso-ne: “sperando di non annoiarvi”. Ma in quale maniera i ricercatori possono scandagliare la noia umana? Semplicissimo: basta propinare ad un gruppo di malcapitate cavie le più mortifere attività che vi siano sulla faccia della Terra e vedere l’effetto che fa. Per esempio alla Guelph University, nell’Ontario, i volontari vengono obbligati a contare quante volte una lettera ricorre in una lunga lista di citazioni bibliografiche; all’Università di Limerick, Irlanda, invece pare che i soggetti vengano costretti a visionare per ore ed ore, ininterrottamente, un lungometraggio educativo sugli allevamenti di pesce; all’Università di Waterloo, in Belgio, vengono legati con cinghie di contenimento alle sedie e obbligati ad assistere alla proiezione di un video di un uomo che tosa l’erba, pota le siepi o appende la biancheria. Dio mio, roba da suicidio. E per evitare che i dati della ricerca vengano falsati, pare che ci siano anche degli addetti pronti a intervenire con piatti e xilofoni acustici nel momento in cui un volontario, sfinito dalla noia, sia sul punto di addormentarsi di schianto. Non so, a questo punto – tortura per tortura – metteteli anche in ginocchio sui ceci. Che poi, dico io, non c’è mica bisogno di cavie, basta andare in una qualsiasi catena di montaggio, in un qualsiasi ortomercato dove ci siano addetti alle selezioni di agrumi e ortaggi vari e fare un paio di domande tipo: “E dimmi un po’, ti annoi a scartare limoni bacati tutto il giorno?”. Probabilmente comincerebbero a volare le cassette di frutta.
Da sempre considerata una condizione “malata” dell’animo, manifestazione di disagio, di insoddisfazione, di preludio alla depressione, la noia, secondo studi recenti sarebbe causa di disturbi psichici, obesità, abuso di alcol e droghe. Le persone che si annoiano, sostiene una ricerca del 2010, avrebbero un rischio doppio di ammalarsi di disturbi cardiaci rispetto alla media della popolazione. Dagli studi emergerebbe che per gli annoiati, la noia è quasi sempre uno stato d’animo riferibile a fenomeni esterni all’individuo ovvero agli altri: “questa lavoro è oscenamente noioso”; “questa compagnia è una palla”. Quasi nessuno associa la noia ad una propria condizione personale, ad una causa interiore.
E gli studiosi cosa dicono in merito? Hanno qualche consiglio pratico da offrire, di quelli un tanto al chilogrammo? Sì, certamente. Mettiamo il caso che il vostro lavoro sia alienante, ripetitivo e fastidioso (oltreché sottopagato, data la crisi): bene, il sistema migliore per vincere la noia è pensare che esso abbia comunque, e nonostante tutto, una sua utilità sociale. Insomma, basta prendersi un po’ per il culo da soli e tutto è risolto. In alternativa, fare attività fisica, “anche solo una passeggiata”. Non si precisa se la passeggiata si può e si deve fare anche durante l’orario di lavoro: certo sarebbe un gran bel vantaggio. «Ehi tu, dove cavolo te ne vai a quest’ora? E la produzione?». «Ma no, tranquillo: vado a fare due passi perché mi annoio a stare tutto il giorno alla pressa. D’altra parte lo dicono anche gli studiosi…». In altre parole il suggerimento è: invece di rintracciare le cause della noia, cerchiamo di sfuggirle, di dimenticarla, anche facendo ricorso ad artifici e raggiri dozzinali. Un po’ come quando si butta giù un cache per il mal di testa: curi il sintomo, ma non la causa. Ma qui ovviamente stiamo parlando di scienza. E per la scienza – a parte una teoria che assocerebbe la noia ad un corto circuito nella rete del sistema nervoso che controlla la capacità d’attenzione – , la soluzione al problema del meccanismo e delle cause di questo tedioso stato d’animo è ancora una chimera. Mancanza di azione, ozio, monotonia, ripetitività, inerzia. Accidia. Cos’è la noia? Fino a qualche tempo fa i filosofi s’interrogavano su questo tema, e si davano anche delle risposte. Poi però la cultura del “tutto e subito”, del prontuario di rapida consultazione sotto mano ha avuto la meglio e dunque non si è più perso tempo a indagare, a conoscere il profondo. E di conseguenza ora brancoliamo nel buio come tanti ciechi, sperando che qualche esperto di chiara fama c’illumini con un consiglio usa e getta. Pascal per esempio, già nel ‘600, afferma che le frenetiche occupazioni dell’uomo moderno hanno reso gli individui incapaci di godere del riposo, dell’otium e quindi della serenità interiore. E che in ultima analisi tutto questo affannarsi non è altro che uno stratagemma per non pensare all’infelicità della condizione umana: “E quelli che sull’argomento fanno della filosofia e che giudicano assai poco ragionevole che la gente passi l’intera giornata a correr dietro a una lepre che non si vorrebbe aver comprato, non capiscono nulla della nostra natura. Quella lepre non ci impedirebbe la vista della morte e delle altre miserie, ma la caccia, che ce ne distrae, può farlo… e quand’anche ci si vedesse abbastanza al riparo da tutte le parti, la noia, di sua privata autorità, non farebbe a meno di venire a galla dal fondo del cuore, dov’è naturalmente radicata, e di riempire lo spirito con il suo veleno” (Pensieri). Per Schopenhauer “la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia… Il godimento è solo un punto di trapasso impercettibile nel lento oscillare del pendolo”.
L’essere umano è l’unica bestia del creato consapevole del suo destino, della sua fine, ed è più che ovvio che abbia una paura atavica e smisurata. In funzione di ciò si crea una serie di attività che, oltre a permettergli di procurarsi la sussistenza, gli consentono anche, e soprattutto, di tenere la mente occupata, di divagare e di non pensare alla sua esistenza. Perché pensare all’esistenza, inevitabilmente conduce a pensare alla morte. E nulla è più spaventoso del pensiero della morte, della non esistenza. Molti anni fa il padre di un mio amico andò in pensione: aveva passato quasi quarant’anni alla catena di montaggio della Magneti Marelli. Una vita intera a provare motorini d’avviamento. Ebbene, il pover’uomo, privato all’improvviso di quel lavoro, di quell’orrendo esercizio quotidiano, noioso e ripetitivo, ma che pure gli occupava la vita, non resse e decise di suicidarsi con gas di scarico dell’auto. Perdendo quella tortura quotidiana, quell’uomo aveva perso tutto se stesso, tutte le risposte alla sua esistenza. Davanti a lui non c’era rimasto che il vuoto assoluto, niente più che potesse stordirlo e distrarlo mentre cerca di sfuggire da sé stesso. Una storia che la dice lunga sulla condizione dell’uomo di oggi: esisti e dunque hai un ruolo solo e soltanto se sei attivo lavorativamente parlando. Il lavoro, che un tempo era una parte limitata della vita, ora è divenuto il fulcro dell’esistenza, tanto che quando esso cessa, cessa anche la vita. D’altra parte il concetto stesso di “tempo libero” la dice lunga sulla nostra epoca. L’altro giorno passeggiando per strada mi sono imbattuto in una targa “E.N.T.L.” – Ente Nazionale Tempo Libero. Non credevo ai miei occhi. E poco più avanti ho incrociato una gelateria artigianale con un cartello: “Consegne a domicilio”. Consegne anche per il gelato, prelibatezza che da sempre viene associata alla passeggiata, allo svago, alla divagazione. Una società che arriva a questo ha perso completamente il senso del tempo, che in fin dei conti è l’unico bene prezioso cui abbiamo. Ed è limitato e non recuperabile. Ecco, la noia è questo: l’attimo in cui, privati della frenesia e dello spasmo vitale, ci fermiamo a riflettere. E riflettendo ci accorgiamo della finitezza della nostra vita. E questo provoca inevitabilmente un senso di disagio, di angoscia, di desiderio di evasione. In altre parole la nostra è un’esistenza in continua fuga. Scrive Massimo Fini in un articolo: «Un primo pomeriggio di un luglio milanese, canicolare e patibolare, di parecchi anni fa, mi aggiravo nei corridoi de Il Giornale alla ricerca del mio amico e collega Massimo Bertarelli cui mi lega, nonostante si sia tutti e due assai imbolsiti, l’antica e comune passione per il gioco. Ma passando davanti alla stanza del Direttore (Montanelli: ndr), che aveva la porta aperta, vidi con sorpresa Indro alla scrivania, davanti alla macchina da scrivere vuota, in atteggiamento meditabondo. Mi affacciai: “Che ci fai qui, Direttore, alle due di pomeriggio d’un giorno di estate?”. “Che vuoi”, rispose, “se sto a casa penso alla morte e quindi preferisco venire qui a scrivere”».
Ecco, questa è la noia.

martedì 12 marzo 2013

Il migliore dei mondi possibili

Un paio di giorni fa Mario Calabresi, direttore de La Stampa, si è occupato del libro “Il declino della violenza”, scritto da Steven Pinker, illustre linguista del Mit di Boston. Il sottotitolo del volume anticipa in maniera molto esplicativa la tesi di fondo del trattato: “Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia”. Fantastico, rallegriamoci. Direttamente dall’altra sponda dell’Oceano Atlantico ecco giungere anche da noi l’ultimo epigono di Leibniz: “Viviamo nel migliore dei mondi possibili”. All’interno del mastodontico libro (780 pagine) vi si legge che l’umanità, dopo millenni di barbarie e violenza, si avvia definitivamente verso un novello ecumenismo umanitario e una completa pacificazione. E per sostenere ciò, Pinker mette per esempio a confronto le agghiaccianti esecuzioni capitali che si consumavano pubblicamente nei secoli passati – con tanto di testimonianze documentali dirette e particolari macabri – , rispetto allo scalpore che provocano oggi nell’opinione pubblica i nostri radi processi di cronaca nera. E s’insiste sulla crudeltà della pena di morte combinata dall’autorità statale, sulla tortura, sul vilipendio di cadavere. Tutto per dimostrare in maniera cristallina quanto quei nostri sanguinari antenati fossero diversi da noi, e quindi quanto l’umanità si sia evoluta da quello stato beluino di violenza primordiale.
Sarà, ma a quanto mi consta, la pena di morte è tutt’oggi vigente in moltissime nazioni, e non solo in quelle più arretrate, ma anche negli evoluti Stati Uniti d’America. Abbiamo tutti negli occhi le immagini del famigerato “Miglio Verde”, il braccio della morte in cui i condannati attendono che la sentenza diventi esecutiva. Certo non ci sono più patiboli (almeno in Occidente), non ci sono più urla di giubilo degli spettatori, non si squartano più cadaveri. Oggi è tutto molto asettico e indolore: camera dell’iniezione letale che appare come una sala operatoria, vetro di cortesia che permette ai parenti delle vittime di guardare negli occhi il colpevole nel momento del trapasso, riprese a circuito chiuso. Lo spettacolo della morte edulcorato e reso potabile per la sensibile e delicata platea occidentale. E sì, d’accordo, sostiene l’autore, ma si tratta di minutaglia residuale, destinata a scomparire nel breve periodo. D’altra parte è notorio quanto oggi sia cambiato il valore che diamo noi contemporanei alla vita, rispetto al passato: la vita è sacra, e non va sprecata. Crociate, roghi, tribunali dell’Inquisizione, pulizia etnica, massacri: tutti episodi da consegnare allegramente ai polverosi libri di storia. Naturalmente. E che cosa ha determinato questo presunto declino della violenza, secondo Pinker? Il trionfo dei “migliori angeli” della nostra natura, vale a dire empatia, autocontrollo, moralità e ragione. Ma io mi domando e dico, questo professor Pinker su quale pianeta del sistema solare è vissuto fino ad oggi? Ma davvero è così convinto che il nostro mondo sia avviato alla pace e alla rivoluzione umana? Davvero è convinto che l’umanità stia vivendo una nuova età dell’oro? Certo se prendiamo come metro di paragone il nostro Occidente, una certa qual ragione possiamo anche concederla all’illustre cattedratico (fatte salve le bombe atomiche sul Giappone, la Germania rasa al suolo sebbene sconfitta, le recenti guerre nei Balcani, i bombardamenti Nato su Belgrado, le carneficine, gli stupri etnici e tutto il resto), ma appena varchiamo i confini dell’Impero c’è la giungla. Quante guerre ci sono ad oggi in giro per il Mondo? Esistono statistiche ufficiali sulle vittime globali dei conflitti? O di questi morti non c’interessa, dal momento che non fanno parte del nostro pacifico e civilissimo mondo? Eppure basterebbe un pizzico di buona volontà per accorgersi che al di là del nostro cortile ci sono attualmente circa una trentina di conflitti armati, e che le vittime superano abbondantemente il milione di persone ogni anno (fonte: Peace Reporter). E quante di queste vittime sono diretta conseguenza di interventi militari dei paesi più civilizzati, impegnati nel difficile – e non richiesto – compito di esportare la democrazia a suon di bombe? Ma evidentemente tutto ciò non conta, non ha rilevanza di fronte a questo incrollabile ottimismo: «Ci crediate o no – dice Pinker – , e so che la maggior parte di voi non ci crede, nel lungo periodo la violenza è diminuita e oggi viviamo probabilmente nell’era più pacifica della storia della nostra specie».
Ebbene può anche darsi che ciò corrisponda al vero, ma questo non significa automaticamente che l’umanità abbia fatto passi avanti nell’evoluzione, né tantomeno che abbia conquistato l’ambita felicità. Anzi, sono proprio le statistiche a dirci che la nostra è un’epoca segnata da angoscia, frustrazione, rabbia, rancore, odio. Nel civilissimo occidente post-industriale, i suicidi sono aumentati in maniera spaventosa rispetto ai vituperati secoli passati, le alienazioni mentali impazzano, droghe e psicofarmaci vanno via come il pane. È progresso questo? Ieri alla Camera dei Deputati è stato presentato il Rapporto dell’Istat e del Cnel sul cosiddetto Benessere Equo e sostenibile (Bes), ovvero lo strumento attraverso il quale si misura non la mera ricchezza, ma la qualità della vita delle persone, tenendo conto di fattori quali salute, istruzione, ambiente, servizi sociali, lavoro, benessere economico, rapporti sociali, cultura e altro. E cosa è venuto fuori da tale rapporto? Tanto per cominciare che di benessere ce n’è sempre meno. Dal punto di vista economico, quasi sette milioni d’italiani si dichiarano in serie difficoltà economiche; dilaga la precarietà: se nel 2008 il 25,7 per cento dei contratti a termine evolveva in rapporti stabili (e il dato era già bassissimo), nel 2011 si è arrivati al 20,9 per cento; cresce il numero di lavoratori sovra-istruiti rispetto alle attività svolte (21,1 per cento nel 2010). E per quanto riguarda la salute? Dal rapporto si evince che si vive di più di un tempo, ma non si vive meglio. In altre parole la scienza medica non ha fatto altro che allungare di qualche anno la nostra aspettativa di vita, ma senza migliorarne sostanzialmente le condizioni. Più vecchi e malati: ottimo affare direi. Per il resto siamo perlopiù sedentari, tendiamo all’obesità, fumiamo e beviamo abbondantemente. Anche in età giovanile. E per quanto riguarda l’istruzione, meglio stendere un velo pietoso: “Il ritardo rispetto alla media europea e il fortissimo divario territoriale si riscontrano in tutti gli indicatori che rispecchiano l’istruzione”. Fantastico. Ma in fondo che c’importa di questi dettagli? Come dice giustamente Pinker, viviamo nell’era più pacifica della storia della nostra specie. Il che ovviamente è un bene in se, a prescindere. E d’altra parte anche i dati statistici del Bes ci confermano che la microcriminalità è diminuita (sia pur con differenze territoriali e per tipo di reato). Quello che emerge tuttavia è che la percezione di insicurezza che gli italiani provano è in crescita. E non perché, come sostiene Pinker, i giornali ne parlano e la psicosi si diffonde, ma perché “il senso d’insicurezza […] deriva anche dal degrado del contesto in cui si vive”. Ovvero “il migliore dei mondi possibili” è percepito come sempre più insicuro, angosciante e privo di speranze.
Siamo proprio fortunati ad essere nati in questo secolo, non c’è che dire.