Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 28 giugno 2013

Orwell c’aveva preso…!

Fino a qualche decennio fa, le aziende produttrici di beni e servizi, per valutare il gradimento della loro offerta alla clientela, oltre al riscontro vendite, usavano metodi tradizionali e consolidati da tempo: nel settore alimentare c’erano per esempio gli assaggiatori professionisti (in Fracchia la belva umana il protagonista, dopo essere stato degradato sul campo, viene assegnato all’ufficio assaggi: «Ora lei assaggia il “sempliciotto” e mi dice com’è…»), in quello manifatturiero si dava ascolto alle opinioni di maestranze e artigiani, in quello tessile ai sarti e così via. Persone che operavano sul campo, insomma. Col tempo poi gli imprenditori hanno capito che per aver una copertura più precisa e razionale dell’opinione pubblica andavano utilizzati strumenti più sofisticati. E così sono cominciati a spuntare sulla scena interviste, ricerche di mercato, sondaggi e altre metodologie di analisi settoriale più specifiche. Con l’avvento poi della rivoluzione informatica prima e dei social network dopo, tutto il mondo così come lo avevamo conosciuto da sempre è cambiato. Ognuno oggi è libero di esprimere la propria opinione e di condividerla con tutto il resto del pianeta. Da ciò ne deriva un immenso caleidoscopio sul quale le aziende possono affacciarsi per intercettare mode, tendenze, preferenze e opinioni sul proprio target, e dunque, in ultima analisi, business. Ormai da tempo infatti, nel mondo del marketing e della comunicazione, si è acceso un riflettore su questo settore, e conseguentemente si è sviluppata una tecnologia in grado di analizzare i flussi d’opinione. La cosiddetta sentiment analysis è una tecnica in grado di studiare le conversazioni che avvengono sul web su un determinato argomento, in modo tale da stabilire l’umore degli utenti dei social network, dei blogger o comunque di tutti coloro che navigano e interagiscono su internet. Una sorta di Grande Fratello informatico di orwelliana memoria. L’importanza di tale strumento è data dal fatto che le opinioni vengono espresse liberamente su ciò che si vuole, senza paletti e strettoie. Ovvero ciò che, per forza di cose, si ritrova nei sondaggi classici: “Chi butti giù dalla torre, il Silvio o il Professore”. E se puta caso mi va di fare il nome del piccolo Renato? Niente, tertium non datur. La sentiment analysis in altre parole è un osservatorio permanente sulle opinioni espresse in rete. Una volta raccolti i dati si inseriscono in un cervellone elettronico e questo, seguendo scrupolose metodologie statistiche, sforna il risultato definitivo del trend. Tra l’altro questa metodologia investigativa costa meno dei sondaggi, è più rapida e pare anche più precisa. Non per nulla analizzando i rumors della rete, alcune società che applicano questa tecnica hanno centrato in pieno l’esito delle elezioni americane, quelle francesi, le primarie del centrosinistra, il podio di Sanremo o il tema della maturità. E pare anche il nome del nuovo Papa. Ma la scienza e dunque la tecnologia, non si fermano mai, come si sa, e così anche la sentiment analysis da oggi ha una nuova applicazione: quella telefonica. Analizzando le conversazioni tra operatori di call center aziendali e clienti, un programma è in grado di rielaborazione e dunque classificare parole, significati sottesi, espressioni vocali, emozioni, toni e tensioni della voce. E tutto ciò permette alle aziende di conoscere il livello di soddisfazione dei propri cliente e quindi di agire di conseguenza. Un ulteriore passo in avanti rispetto alle vecchie analisi di mercato. Fa impressione sapere che dietro a tutti i nostri comportamenti ci sono persone che studiano, elaborano strategie, preparano piani, inventano nuove tattiche comunicative: il tutto al fine di vendere qualche prodotto in più. La tecnologia si è spinta talmente tanto in avanti che ormai i computer sono in grado di leggere i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre sensazioni. Basta un sospiro, una pausa, un’intonazione di voce per finire classificato dentro un database insieme ad altri milioni di persone. Con buona pace della tanto sbandierata difesa della privacy. Qualche tempo fa un mio amico di Roma finì a lavorare per un’azienda di trasporti dell’Agro Pontino. Tra le sue pochissime vere passioni, oltre alla fotografia, c’è l’attaccamento alla Magica, la formazione di calcio della Capitale. Venne assunto come operatore di call center: ogni giorno doveva fare non meno di tre, quattromila telefonate per acquisire clienti. E la percentuale di successi era di circa uno su mille. Una frustrazione spaventosa. Nella maggior parte dei casi - mi raccontava - le persone che rispondevano erano talmente stizzite per le continue seccature telefoniche che neanche gli facevano dire mezza parola: «No guardi, non m’interessa…». Al che egli ribatteva: «Ma scusi, manco le ho detto di che si tratta, già dice “non m’interessa”…?». La società per la quale lavorava peraltro si chiamava Laziale Traslochi e quando egli chiamava i potenziali clienti - tutti per lo più dell’Urbe - questi rispondevano quasi sempre: “Laziale? Aho, ma io so’ d’à Roma…!”. Ed egli a quella facezia ribatteva: “Embe’? Pur’io so d’à Roma… e che vor dì? La società se chiama così, ma che ce posso fa’…?”. Fatto sta che resse poco più di sei mesi in quel posto. Preferì andare a fare il gelataio. Se nella sua azienda avessero applicato il metodo del sentiment analysis, chissà che ne sarebbe venuto fuori? Facendo un paragone mi viene in mente quello che il commercialista di Codogno disse a Maurizio Milani, suo cliente: “Qui l’unica cosa da fare è andare dalla Finanza e dire che si è rotto un tubo della fogna e i libri contabili sono andati persi…”.

giovedì 27 giugno 2013

Non ne parla la tv, dunque non esiste

Qualche tempo fa parlavo di politica estera con due amici, due persone impegnate da tempo con varie associazioni umanitarie per la difesa del popolo palestinese. Un paio d’anni fa costoro fecero anche un viaggio in Israele e nei Territori occupati per documentare, per quanto fosse possibile, la situazione del momento. Tra una parola e l’altra affrontammo il tema dell’informazione riguardo a tali problematiche. Era da tempo ormai che non sentivo più una sola notizia proveniente da tali regioni, e nella mia ingenuità, pensavo che le cose si fossero messe al meglio. Mi risposero, quasi piccati dalla mia ignoranza, che la situazione non solo non era migliorata, ma anzi, era di molto peggiorata per le genti palestinesi. E a suffragare tale asserzione mi portarono una miriade di esempi, dati, rapporti stilati da agenzie non governative ed associazioni umanitarie. Oltre naturalmente alle loro esperienze personali. E così mi fu chiaro quanto i nostri mezzi d’informazione avessero sottaciuto tali notizie. E non solo in merito all’infinita diatriba mediorientale (che alla lunga, dopo sessant’anni di guerra, può anche aver saturato la pazienza e l’attenzione del mondo occidentale), ma anche riguardo ad altri conflitti sparsi per il mondo. Chi sente più parlare di Kosovo, di Iraq, delle guerre in Africa? Per non parlare poi delle emergenze umanitarie come quella di Haiti, tanto per fare un nome. Subito dopo il terremoto che colpì l’isola il mondo intero si mobilitò per portare aiuto alle popolazioni: raccolte fondi, concerti organizzati dalle più grandi star della musica leggera, volontari da ogni continente. L’Italia inviò persino la sua portaerei (che ovviamente giunse con un discreto ritardo...). Poi di colpo si spensero i riflettori delle televisioni e tutto scomparve. Come se il tocco di una portentosa bacchetta magica avesse risanato tutto e tutti. Nessuna nuova, buona nuova verrebbe da dire. Peccato però che le cose non stiano così. Ed infatti, di tanto in tanto, viene fuori qualche flash d’agenzia che racconta di stragi, bombe, rivolte sanguinose, pestilenze ed altro ancora. D’altra parte si sa, se un evento non passa per la scatola magica del televisore, non esiste. È il grande business dell’aiuto umanitario: una gigantesca macchina da soldi che ha bisogno di continui palcoscenici per autoalimentarsi. Con buona pace di tutte le vittime dei conflitti e delle emergenze, soccorse a scadenza, e poi abbandonate a loro stesse e alla loro triste sorte. In questi giorni Medici Senza Frontiere ha presentato il rapporto “Le Crisi umanitarie dimenticate dai media 2012”. Dai dati è emerso che, nel corso dell’anno appena trascorso, i telegiornali a copertura nazionale (tre pubblici e quattro privati) hanno dedicato solo il 4 per cento dei servizi a contesti di crisi, conflitti, emergenze umanitarie e sanitarie. È il dato più basso dal 2006, cioè da quando Medici Senza Frontiere ha avviato il monitoraggio dei notiziari. L’indagine, condotta in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, sottolinea che nel corso del 2012 la crisi economica (nazionale e internazionale) e la politica hanno occupato gran parte dello spazio dei telegiornali, tanto da comprimere tutto il resto delle notizie. E così si scopre, per esempio, che una notizia riesce a filtrare attraverso le strette maglie dell’informazione quasi esclusivamente in relazione a singoli eventi che vedono il coinvolgimento di cittadini occidentali (meglio se italiani). Le epidemie nel mondo (che pure causano milioni di morti) sono coperte da tredici notizie nell’arco dell’anno; la malnutrizione (ovvero la fame nel mondo, tanto spesso menzionata dalle aspiranti Miss Italia) da 11; le calamità naturali da 26. Infinitamente meno delle notizie sulla criminalità (4169) e sul costume e gossip (3201). Come si può, in effetti, rinunciare ad informare la cittadinanza su amorazzi, gravidanze e parti di attricette e showgirl varie? Recentemente poi i nostri telegiornali hanno scoperto un nuovo filone d’informazione: le curiosità dal mondo animale. Ben 70 sono state le notizie proposte agli ascoltatori dai nostri telegiornali. Tra le più significative, ricorda il rapporto, “Le commoventi immagini di un cucciolo di formichiere rimasto orfano”; “Gatto salvo per miracolo, intrappolato nel motore di un’auto, dopo un percorso di 15 chilometri”; “La tragica fine di un coniglietto senza orecchie”. C’è poi il capitolo nutrizione e disabilità (sempre dal mondo animale): “Gatto abbandonato dal suo padrone in una clinica di animali perché obeso”; “Scimmia disabile grazie alle cure diventa acrobata”.
Ma lasciando da parte per un momento la fauna e tutti i drammi ad essa connessi, non si può trascurare neanche il dato che emerge sull’emergenza freddo: ben 39 notizie su basse temperature, malanni, e vendite record di “cappellini e cappucci di ogni forma e colore”. E per concludere il vero must 2012, ovvero la fine del Mondo legata alla profezia Maya: 30 notizie 30, lanciate da titoloni come “Profezia Maya, come gli italiani vorrebbero trascorrere le ultime ore”; “La fine del Mondo, ma non a Cisternino, nel brindisino, rassicura un santone indiano”. Ecco, a fronte di tutto ciò, sette notizie sull’Aids, quattro sulla carestia in Niger, tre per le violenze in Congo e zero per quelle nella Repubblica Centrafricana.
E gli italiani che ne pensano di questo genere d’informazione? Stando alla ricerca pubblicata in maggio da Gfk Eurisko sempre per conto di Medici Senza Frontiere, il 63 per cento del campione vorrebbe ricevere dai mezzi di comunicazione più informazioni sulle emergenze umanitarie e meno politica e gossip. “Chiediamo ai media italiani di non chiudere la porta a un mondo che è sempre più vicino a noi ed è sempre più importante comprendere e raggiungere” – afferma Loris De Filippi, Presidente di Medici Senza Frontiere Italia.
Speriamo bene.

Fonte: http://www.medicisenzafrontiere.it/immagini/file/crisi%20dimenticate/Rapporto_2012.pdf

mercoledì 26 giugno 2013

Con chi non andresti mai in vacanza?

Siamo ormai a fine giugno, e come ogni anno, quando arriva questo periodo, si cominciano a fare i conti sul dove andare in vacanza e con chi. Sì certo, ci sono anche quelli che hanno già programmato tutto da Natale, fin nei minimi dettagli, ma in generale, la massa dei vacanzieri, complice anche un clima di ristrettezze economiche mai visto, decide quasi all’ultimo meta, durata e budget delle proprie agognate due settimane di vacanza agostane. A breve poi, negli uffici comincerà la solita litania del chi va in ferie prima e chi va dopo ferragosto, onde evitare di lasciare l’azienda chiusa per tutto il periodo. Già serpeggiano da giorni infatti, faide interne, rancori e desideri di vendetta tra gli sfortunati dipendenti: tutti ambiscono alle due settimane centrali del mese, vale a dire quelle che vanno dal 9 al 26 agosto, ma non tutti le otterranno, si capisce. E così anche il periodo più bello dell’anno, quello tanto atteso, rischia di rivelarsi l’ennesimo motivo di litigio e malumore. Superato tale scoglio infido, i lavoratori potranno finalmente dedicarsi ai preparativi per la partenza. Senza dimenticare ovviamente pinne e maschera, anche se si decide per località marine dai fondali torbidi e sabbiosi. Si, ma con chi andare in vacanza? Moglie, fidanzata, amanti varie, amici, parenti, conoscenti? Ed è qui che si parrà la vera nobilitate del vacanziero. E già, perché sbagliare compagnia equivale alla rovina della vacanza. C’è poco da dire. In fin dei conti spendere barcate di quattrini col rischio di trovare maltempo o incappare in un qualche albergo non di primissimo ordine ci può anche stare, ma portarsi appresso volontariamente una palla al piede è davvero da incoscienti. E così in questi giorni nella mente di quei pochi che potranno permettersi qualche giorno di relax si pensa anche a questo. D’altra parte tutti hanno avuto esperienze di compagni di viaggio poco piacevoli e dunque meglio stare in guardia. Qualche giorno fa il sito Venere.com, un operatore di prenotazioni online, ha pubblicato sulla propria pagina Facebook i risultati di un sondaggio: “Con chi non andresti mai in vacanza?”. Ne è emersa una lista di soggetti che fa tremare le vene ai polsi. Andiamo a dare un’occhiata. In vetta alla classifica, tra i più odiati in assoluto, si posizionano i pigri e i superattivi. Due categorie opposte, ma che parimenti sono in grado di fracassare le palle con effetti devastanti. I primi sono gli indolenti, gli accidiosi, quelli che non hanno mai voglia di fare un cazzo. Non appena giungono alla meta, buttano giù i bagagli e si spaparanzano sulla sdraio. E non c’è verso di smuoverli da lì. Crollasse il mondo, si paventasse anche il più violento degli tsunami, loro sono incollati alla loro pachidermica immobilità. Un periodo in compagnia c’era un tizio di questa fatta: era originario dell’Abruzzo ed aveva addosso la stessa vitalità di una farfalla morta. Se l’appuntamento era alle nove del mattino, egli a quell’ora era ancora in pigiama, flemmaticamente diretto al bagno per una lunga seduta con Gazzetta dello Sport incorporata e tutto “da colazionare”. A tratti la sua fiacca indolenza aveva effetti potenzialmente clamorosi. Tuttavia era un ragazzo simpatico e si faceva perdonare grazie a battute e facezie che strappavano sempre un sorriso. Il suo cavallo di battaglia era: “Quando arriva l’estate e non ti pigli un Aperol-Spritz, che campi a fare?”. I superattivi invece, se ci è concesso, sono ancora più pericolosi. Non lasciano un attimo di respiro, sono sempre agitati, pronti in qualsiasi istante a darsi da fare, a proporre iniziative, a spronare, a incitare, a coinvolgere gli sfortunati compagni di viaggio in qualche dannatissima avventura. Come quell’amico di Roma che non riusciva a stare un attimo fermo neppure in sauna, luogo principe per il relax. Una sciagura. Ma proseguendo nella lista di chi non ti porteresti mai in vacanza, troviamo i superorganizzati, altra fattispecie di malati di mente. Costoro sono dei veri e propri maniaci del “tutto programmato”, persone che pianificano ogni singolo dettaglio del viaggio, ogni attimo, ogni spostamento, con relativa ora e minuto. Un’angoscia ambulante e senza fine. E guai a deragliare dai binari sui quali si sono (e vi hanno) incatenati: si rischia la rissa furibonda. Ma andiamo oltre: al quarto posto ecco i ritardatari. Ci sono quelli che arrivano alla stazione con anticipi francamente esagerati, e ci sono quelli che rischiano costantemente di vedersi sfilare dal treno in partenza. I ritardatari sono tra questi ultimi. E finché si trattasse di loro soltanto, passi. Il problema è che il ritardatario crea problemi a tutto il gruppo e spesso costringe ad estenuanti rincorse o a spericolati cambiamenti di programma in corsa. Espressione tipica del ritardatario di fronte alle rimostranze di un amico? “E dai, rilassati un po’: c’è ancora un sacco di tempo…”. E all’amico arriva immancabile l’attacco di bile. Altra figura sommamente tossica (non solo in vacanza, aggiungerei) è il taccagno. Sempre pronto a risparmiare su tutto, a chiedere sconti, ad ordinare al ristorante le pietanze più economiche (salvo che il conto si divida equamente). Costui è il classico individuo disposto a portarsi dietro persino il caffè in bottiglietta di plastica piuttosto che ordinarlo al bar. Ma che resti a casa piuttosto, dico io. C’è poi il lamentoso, quello cioè a cui non va mai bene niente, che non si trova a suo agio in nessun luogo. La sua è una figura al limite della fantascienza, un caso clinico da studiare. Attorno a lui si verificano sempre delle situazioni assurde, come se le attirasse su di se: la doccia non funziona, non esce acqua calda dai rubinetti, l’acqua del mare diventa improvvisamente fredda, il letto è scomodo in qualsiasi luogo della Terra. La sua espressione tipica? “È la prima volta che vengo qui, ma devo essere sincero: sono leggerissimamente deluso…”. Continuando a scorrere la classifica ecco il permaloso. Altro soggetto assolutamente da evitare: travisa tutto, legge ogni parola in chiave negativa, non sta allo scherzo, pur essendo dispostissimo a prendere per il culo gli altri. Portarselo appresso è garanzia di sangue amaro. Vi è poi il cosiddetto shopping addicted, ovvero il soggetto costantemente in preda alla smania dell’acquisto, ipnotizzato da qualsiasi genere di vetrina. Pare che in questi casi l’unica soluzione efficace sia una seduta completa di elettrochoc. A seguire troviamo quelli poco attenti alla propria igiene personale. Figura quasi sempre presente nei rifugi di montagna. Gli ospiti di tali strutture pensano che quell’odore di malga alpina, tipico di questi luoghi, sia effetto di genuine lavorazioni casearie, ma in realtà si tratta di ben altro. C’è poi il russatore (garanzia di notte insonne); la prima donna (sempre al centro dell’attenzione); i fidanzatini (noiosissimi figuri che non fanno altro che mettere in mostra il loro romantico amore); i nottambuli (ovvero quelli che trovi a ciondolare nel cuore della notte, mentre vai a pisciare: con immancabile spavento…); gli ipocondriaci (altra figura sciagurata, capace di trascinarti al Pronto Soccorso per un graffietto al mignolo); i decisionisti (ovvero coloro che prendono iniziative e decisioni a nome di tutti senza consultare nessuno); e per finire i maniaci della fotocamera. Fuori classifica una menzione speciale per l’immancabile suocera e soprattutto per coloro che cercano un ristorante italiano anche in Papua Nuova Guinea (dove abitano gli uomini delle foreste con la canna di bambù sul pene).
Ecco, prima di partire con qualcuno di questi soggetti, pensateci su bene. D’altra parte si sa, meglio soli che male accompagnati.

martedì 25 giugno 2013

Il denaro può davvero comprare tutto?

Qualche mese fa è comparso nelle librerie americane un volume dal titolo What money can’t buy di Michael J. Sandel, filosofo ed economista di Harvard. Un successo editoriale clamoroso, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo. Da qualche giorno disponibile anche in Italia grazie a Feltrinelli. Nel suo saggio Sandel ha raccolto diversi esempi per dimostrare i “i limiti morali del mercato”, vale a dire le soglie al di là delle quali gli studiosi di economia sono costretti a confrontarsi con i valori, i sentimenti e i desideri che non trovano corrispondenza nelle teorie economiche. E così si scopre che se si chiede agli abitanti di una cittadina svizzera di acconsentire allo stoccaggio nel proprio territorio di scorie nucleari provenienti da una centrale elettrica, il 50 per cento di costoro acconsentono per puro senso civico; ma se viene promesso loro un piccolo incentivo monetario, il consenso crolla al 25 per cento. Alla stessa maniera, se si impone una multa ai genitori che ritardano nel prelevare i figli a scuola, l’effetto è che i ritardi aumentano invece che diminuire, perché in fondo, pochi quattrini valgono bene un ritardo. In altre parole, l’elemento economico tende ad alterare i rapporti civili e sociali, conferendo un valore monetario ad ogni genere di comportamento umano. Lecito o illecito che sia. E dunque si arriva al paradosso dei paradossi: quanto sareste disposti a pagare pur di saltare una coda? Che prezzo ha un messaggio pubblicitario tatuato sul proprio corpo? E la sperimentazione su cavie umane a pagamento? È lecito acquistare o vendere il diritto di inquinare con produzioni pericolose per le popolazioni? È giusto fare commercio sull’ammissione alle università? E sulla sanità? Domande che ci pongono di fronte al solito dilemma: il denaro dunque può davvero comprare tutto? “Viviamo in un’epoca in cui quasi ogni cosa può essere comprata e venduta – sostiene Sandel – . Negli ultimi tre decenni i mercati sono arrivati a governare le nostre vite come non era mai accaduto prima. Non siamo arrivati a questa situazione per scelta deliberata, è quasi come se ci fosse arrivata addosso”. Aver dato un prezzo a tutto ha di fatto raso al suolo qualsiasi altro valore: l’altruismo, il rispetto reciproco, la fiducia, la liberalità, l’equità. Per non parlare di tutto ciò che vi era a monte di tutto ciò, vale a dire l’onestà, la dignità personale, il decoro, la reputazione. Per secoli i contratti si sono stipulati con una semplice stretta di mano, perché mancare alla parola data equivaleva alla morte civile. Oggi se non si posseggono garanzie certe, con tanto di ipoteche e fideiussioni solidissime, non ci si siede neanche al tavolo delle trattative. Secondo l’autore in pochi decenni “siamo passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato”. Un mondo nel quale contratti, negozi, stime, valutazioni, quantificazioni regolano ogni istante della nostra vita. E dove è diventato lecito persino scommettere sulla durata della vita di una persona. Come ad esempio con i cosiddetti “Viatical”, contratti che si stipulano con i malati terminali e che consentono l’acquisizione lucrosa della polizza, dietro il versamento di un anticipo della somma dovuta alla morte.
Millenni di storia ci hanno regalato parole come diritti, doveri, mutuo soccorso, solidarietà, uguaglianza, coesione sociale. I nostri avi hanno lottato per generazioni e generazioni per consegnarci un mondo più giusto, più etico, dove tutti avessero pari dignità e opportunità di fronte a temi di inestimabile valore, quali l’istruzione, la sanità, la sicurezza, l’assistenza, il lavoro. Cosa sia rimasto di tutto ciò è sotto gli occhi di tutti. E quel poco che ancora resiste è costantemente minacciato da lobby di potere economico e finanziario. Gino Strada sostiene, ad esempio, che se la sanità non è pubblica, gratuita e d’eccellenza, non siamo più di fronte ad un diritto, ma ad un privilegio. E c’è del vero in tutto ciò. Ricordo che una volta, insieme ai miei colleghi della Croce Rossa, andai a soccorrere un uomo di mezza età che aveva problemi respiratori. Costui abitava con la moglie in una specie di residenza principesca, circondata da un parco immenso. Entrando in casa non potei non ammirare per un istante tutta la ricchezza di quella abitazione. Terminata la missione salutammo lui e la moglie e ci accingemmo a rientrare in sede. Quest’ultima però ci venne dietro e mettendo mano alla borsa ci chiese: “Quanto vi devo?”. Ci guardammo perplessi. Avevamo di fronte una persona che non si era mai rivolta alla sanità pubblica e che dunque ignorava che quel servizio appena prestato non andava retribuito, dato che era già pagato con i tributi degli italiani. Udendo la nostra risposta la signora manifestò uno stupore come di lieta sorpresa. Come se per la prima volta si rendesse conto di appartenere ad una collettività, e come se in essa trovasse quella protezione che fino ad allora le aveva garantito esclusivamente la sua opulenza economica. Vedendoci andar via ci salutò con un sorriso pieno di gratitudine (e forse di fiducia e speranza). Come a dire che prima o poi tutti abbiamo bisogno dell’aiuto solidale e disinteressato del prossimo. E quando arriva quel momento nessuna somma di denaro può cavarci dagli impicci.

lunedì 24 giugno 2013

I segni del tempo

All’incirca un annetto fa ho partecipato ad un torneo di calcetto con la squadra della Croce Rossa del comitato locale di Crema. Si trattava di un torneo all’italiana che vedeva la partecipazione di diverse formazioni, tra le quali quelle dei Carabinieri, della Polizia, dei Vigili del Fuoco, del Pronto Soccorso etc…! Quando l’organizzatore della nostra squadra mi ha chiesto di partecipare, ho aderito con molta convinzione: ai miei tempi ero un vero fenomeno (perdonate, ma non mi è mai piaciuta la falsa modestia), molto veloce, rapido nel dribbling e con un tiro portentoso. E così, nonostante fossero passati molti anni da quei tempi, ho pensato che avrei comunque potuto dare un buon contributo alla causa. In fin dei conti non sono in sovrappeso, faccio regolarmente attività sportiva, fumo e bevo moderatamente. E d’altra parte il pensiero che vi siano giocatori, come Zanetti, che alla veneranda età di 40 anni, ancora solcano i campi di gioco della Serie A, mi rincuorava non poco. Alla prova dei fatti, viceversa, ho dovuto scontrarmi con una realtà che mi ha sbattuto in faccia la verità senza alcun riguardo alle buone maniere. Sapevo che non sarei stato più lo stesso di allora, questo era scontato, ma non pensavo di dover pagare così caro lo scotto del tempo. Il fatto di dover giocare peraltro con compagni e avversari poco più che ventenni ha aggiunto il carico al peso dello smacco. E dunque mi sono ritrovato costantemente in affanno, paonazzo da far paura dopo ogni scatto, confuso e stordito tra giocatori velocissimi che guizzavano come saette. Ed anche il tiro, che un tempo era preciso e violento (una sassata, si direbbe oggi), si è rivelato poco più che una fiacca fetecchia. È pur vero che il calcetto necessita di costanza d’allenamento, di abitudine alla fatica, di ottima forma fisica e atletica, ma la mia performance non può avere alcuna credibile scusante se non l’età. E la cosa è ancora più scottante essendo io da sempre un superegocentrico, una persona che si è sempre vantata (spesso a sproposito…) delle proprie qualità fisiche, delle proprie vittorie da velocista. È proprio vero il detto: “Quanto più in alto stai, tanto più rovinosamente cadi”. E così, da allora, ho deciso di non giocare più a pallone, ma di dedicarmi più assiduamente a sport che richiedono sforzi più diluiti nel tempo. Tipo la bicicletta.
L’altro giorno mi sono imbattuto in un articolo che parlava appunto di invecchiamento: la società assicurativa Engage Mutual, ha lanciato recentemente un sondaggio che ha visto partecipare circa duemila persone e che ha tratteggiato alcuni comportamenti o abitudini che tendono a sorgere dopo una certa età. In altre parole i segni inequivocabili dell’invecchiamento. Ne è venuta fuori una lista di 50 segni indicatori che a me ha fatto molto ridere: un riso amaro, chiaramente, dato che in molti di essi mi sono riconosciuto. Dal sondaggio sono poi emerse le solite pietose bugie (l'80 per cento degli intervistati, per esempio, sostiene che “si è vecchi solo quando ci si sente tali”), oltreché le scontate considerazioni in merito all’età avanzante (il 76 per cento afferma di volersi godere la propria età il più a lungo possibile). Tra le paure più ricorrenti poi vi sarebbe la possibilità di avere problemi cognitivi, perdita di memoria, la possibilità di ammalarsi e il declino fisico. C’è da prendere paura solo a pensarci. Ma andiamo a dare un’occhiata a quali sono i segni implacabili dell’invecchiamento:
1. Una sensazione di rigidità.
2. Gemere quando ci si piega verso il basso.
3. Dire: “Non era così quando ero giovane”.
4. Dire: “Ai miei tempi”.
5. Perdere i capelli.
6. Non sapere quali sono i brani musicali nella top ten.
7. Diventare più peloso (orecchie, sopracciglia, naso, viso ecc.).
8. Odiare i locali pubblici rumorosi.
9. Parlare molto di articolazioni e disturbi correlati.
10. Dimenticare i nomi delle persone.
11. Scegliere i vestiti e le scarpe per il comfort, piuttosto che lo stile.
12. Pensare che poliziotti, insegnanti, medici… sembrano davvero giovani.
13. Addormentarsi davanti alla TV.
14. Aver bisogno di un pisolino pomeridiano.
15. Rendersi conto di non avere idea di cosa stiano parlando i giovani.
16. Lottare per utilizzare la tecnologia.
17. Perdere il contatto con la tecnologia odierna, come tablet e televisori…
18. Iniziare a lamentarsi di più cose.
19. Portare gli occhiali al collo (specie quelli per la lettura).
20. Non ricordare il nome di qualche band moderna.
21. Evitare di sollevare oggetti pesanti a causa di problemi di schiena.
22. Lamentarsi dei programmi in televisione, definiti “spazzatura”.
23. Dimenticare dove si sono messi gli occhiali, la borsa, le chiavi ecc.
24. Iniziare a guidare molto lentamente.
25. Preferire una serata davanti a un gioco da tavolo che una serata fuori.
26. Mostrare un vivo interesse per le auto d’epoca.
27. Addormentarsi dopo un bicchiere di vino.
28. Non uscire senza il cappotto.
29. Non riuscire più a perdere qualche chilo in pochi giorni.
30. Spendere più soldi per creme viso, prodotti anti-invecchiamento.
31. Spendere soldi per la casa, i mobili, piuttosto che per una serata fuori.
32. Riporre oggetti di uso quotidiano nel posto sbagliato (pare che il livello più basso si raggiunga quando si ripone il martello nel frigidaire).
33. Considerare di andare in crociera, senza i figli, per una vacanza.
34. Le orecchie diventano sempre più grandi.
35. Sentire di avere il diritto di dire alla gente esattamente quello che stai pensando, anche se non è educato.
Qui di seguito la classifica completa:
http://www.engagemutual.com/news-and-views/savings-and-investments/top-50-signs-your-getting-old/

Ecco, pare che se ci si riconosce in massimo 20 punti, c’è ancora di che gioire; dai 20 ai 35 siamo a metà del guado; dai 35 in su vuol dire che ormai ci siamo, anche se l’articolista così commenta: “But don’t worry, there’s plenty of life left in you yet”.
E dunque, prima che sia troppo tardi, diamo retta al buon Oratio: “Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus”.

Leggi anche: http://www.lastampa.it/2013/06/21/scienza/benessere/lifestyle/ti-addormenti-davanti-alla-tv-significa-che-stai-invecchiando-5SqmahwfjIp4fxxl1jeOBN/pagina.html

venerdì 21 giugno 2013

Movida e vita notturna: come cambiano le abitudini degli italiani

Quando dopo l’esame di maturità partii con tutta la compagnia per la Grecia, tra le tante cose che mi colpirono ci furono i locali del divertimento della movida serale. Fino ad allora il luogo privilegiato per il divertimento notturno aveva per me pressoché un unico nome: discoteca. Ci si trovava con gli amici, si tirava un po’ tardi per raggiungere l’ora, e poi si partiva alla volta di qualche locale del centro. Nella maggior parte dei casi, quando si decideva di andare a ballare, si sceglieva il mitico Rolling Stone di Corso XXII Marzo. Raramente si optava per un locale diverso, anche perché eravamo un gruppo di rockettari maledetti e a quei tempi non ascoltavamo che Aerosmith, Guns N’ Roses, Iron Maiden, U2 etc…! Certo l’ingresso non costava un’inezia, e se poco poco, ci si voleva un po’ sballare con qualche alcolico, occorreva mettere in preventivo una bella spesa. E così, quando in quella lontana estate del ’91, sbarcammo sulle coste delle isole greche, fu una piacevole sorpresa scoprire che non esistevano discoteche classiche, ma disco-pub in cui non si pagava l’ingresso, ma semplicemente la consumazione. E i prezzi erano estremamente popolari. Fu qui che ascoltammo per la prima volta “Losing my religion” dei Rem. Ricordo ancora quell’atmosfera incantata, da paese dei balocchi: non avevamo ancora vent’anni e tutta la vita da vivere dinnanzi a noi. Ci sentivamo padroni del mondo. Col tempo poi feci altri viaggi, e scoprii realtà analoghe: mentre in Italia imperversavano ancora le costose discoteche al chiuso (salvo quelle estive all’aperto…, ricordo la Capannina di Castiglione della Pescaia, dove trascorsi alcune stagioni vacanziere), all’estero già proliferavano locali free entry. A Valencia, ad esempio, durante un viaggio di lavoro, scoprii che i locali del centro storico adottavano tutti la stessa formula. Alcuni di questi si chiamavano Bolseria, ed erano locali in cui si pagavano solo le consumazioni e si poteva uscire in strada e rientrare senza alcuna limitazione. Mica come da noi che occorreva farsi tatuare sulla mano per dimostrare di aver pagato l’ingresso. Non erano discoteche classiche, ma locali aperti, ben areati, in cui si poteva sì ballare, ma c’erano anche spazi dove dialogare, consumare un boccone, bere in santa pace. Un luogo aperto, completamente integrato nel contesto del quartiere. E i clienti non erano solo clienti, ma anche visitatori di passaggio, attratti dal richiamo della folla che invadeva anche la strada e la piazza antistante. Una vera agorà del divertimento. Tra l’altro qui conobbi una valenciana muy caliente…! Si ballava in pista e questa ragazza, insieme… ad un’amica, mi lanciava di tanto in tanto delle occhiate. Me ne accorsi ovviamente con un ritardo clamoroso - anche perché ero in compagnia di colleghi e colleghe - e quando ad un tratto costei mi fece una smorfia e fece per andarsene, l’afferrai per un polso e le chiesi ingenuamente: “Che fai, te ne vai?”. E questa mi rispose “No me mires, no me hagas bailar…”. Abbandonai all’istante i noiosissimi colleghi e recuperai il tempo ignobilmente perduto…! Ad ogni modo, tornai in Italia ancor più persuaso del fatto che in fatto di locali notturni ne avevamo da imparare…! Ora un recente rapporto Censis - Fipe (Federazione Italiana dei pubblici esercizi), presentato alla Triennale di Milano mercoledì scorso, ha tracciato la nuova mappa del divertimento degli italiani: meno discoteche e pub, più tempo per strada e nei locali ibridi. Secondo i dati emergerebbe che i centri cittadini, a dispetto della crisi economica, nelle ore notturne sono sempre più presi d’assalto dai giovani (94 per cento), dagli adulti (78 per cento) e perfino dagli anziani (31 per cento). E mentre per discoteche e pub classici la clientela tende sempre più a scemare, vanno assai forte i localini di strada, quelli che appunto offrono luoghi di passaggio e aggregazione a poco costo e ad alto tasso di socializzazione. Gli italiani che sono soliti fare “vita notturna” sono oltre 19 milioni, 4 milioni gli habitué. Un popolo in cerca di contatti, confronto, incontro, avventure. Possibilmente all’aria aperta, come abbiamo visto. E così si scopre, per esempio, che a Milano i luoghi privilegiati per la movida serale sono Porta Ticinese, i Navigli, Corso Como, i Bastioni di Porta Venezia e il quartiere isola; a Torino vanno di moda invece i locali di San Salvario, le vie di Vanchiglia, la zona universitaria; a Napoli invece la vita notturna si consuma a Chiaia e a Bagnoli (oltreché in nel centro storico, naturalmente); a Roma chi vuol tirare tardi può sollazzarsi a Campo dei Fiori, San Lorenzo, Trastevere, Testaccio. La scorsa primavera sono stato a Roma e posso confermare che Campo dei Fiori è davvero un luogo magico per trascorrere una serata in compagnia.
Devo essere sincero, non ho mai amato troppo le discoteche: neanche all’epoca dell’ormone impazzito. Non mi è mai piaciuta quell’atmosfera da sballo sensoriale, quella calca di persone costrette per convenzione a divertirsi oltre ogni limite, quell’aria spessa e greve, impregnata di afrori violenti, quel volume esageratamente alto, tale che neanche ci si provava più a conversare. Ogni qual volta si decideva di andare a ballare, per me era una sorta di tortura da superare con qualche adeguato “accorgimento”. E così, di fronte a questo nuovo trend non posso che esserne contento. Abbassare finalmente il volume, potersi parlare senza urlare e respirare l’aria fresca della notte (guardando magari anche le stelle, di tanto in tanto…): questa si che è vera “vita notturna”. Almeno per me.

giovedì 20 giugno 2013

Lungo le sponde dei Navigli

Naviglio Grande presso Gaggiano
Sabato 29 e domenica 30 giugno gli amici del Listone hanno in programma una biciclettata lungo i navigli milanesi. L’appuntamento, salvo cambiamenti dell’ultima ora, dovrebbe essere in mattinata in zona Porta Ticinese. L’idea è di percorrere tutta la ciclabile che dalla Darsena, l’antico porto milanese, porta verso ovest, seguendo le sponde del Naviglio Grande. Corsico, Trezzano sul Naviglio, Gaggiano…, lasciata alle spalle la grande metropoli c’immergeremo nella campagna che si frappone tra le sponde del Ticino e l’hinterland milanese, un tempo terra di risaie. In prossimità di Abbiategrasso scenderemo verso sud, alla volta di Morimondo (27 km), dove si trova una magnifica abbazia cistercense. Da qui proseguiremo fino a Bereguardo (42 km), incrociando finalmente il Ticino. E a quel punto un bel bagno sarà d’obbligo. A seguire si scenderà verso Pavia (56 km) con relativo giro turistico (centro storico, Chiesa di Michele, San Pietro in Ciel d’Oro - dove c’è sepolto Sant’Agostino - etc…). Da qui risaliremo verso nord per visitare la Certosa di Pavia (65 km). Il giro si chiuderà a Binasco, dove alloggeremo (76 km). Il giorno seguente si deciderà cosa fare: si può puntare verso Motta Visconti per un altro giro sugli argini del Ticino, oppure ci si può sperdere tra i sentieri di campagna del Parco Agricolo Sud di Milano. La via di ritorno avverrà seguendo l’alzaia del Naviglio Pavese, così che si possa chiudere il giro ideale delle vie d’acqua milanesi, riguadagnando la Darsena.
Sarà una bella pedalata, rilassante e per nulla impegnativa dato che si svolge su terreno pianeggiante. Attraverseremo il cuore della campagna lombarda e ripercorreremo quei canali che per secoli hanno collegato il nord e il sud della Lombardia a Milano (il Naviglio Grande consentiva i traffici di merci e persone tra il Lago Maggiore e Sant’Eustorgio già a partire dal 1211). Il Duomo, tanto per fare un esempio, fu costruito con il marmo trasportato sul Ticino prima, e sul Naviglio Grande dopo. E ogni carico recava una scritta a sigillo, “AUF”, ovvero ad usum fabbricae (cioè destinato ad essere utilizzato nella fabbrica del Duomo). E non pagava dazio: ecco perché oggi usiamo l’espressione “a ufo” per intendere a sbafo.
Da qualche tempo si dibatte sull’opportunità o meno di riaprire le cerchie dei navigli milanesi. È un dibattito che appassiona e fa discutere: da una parte i nostalgici di quel passato romantico sperano che un giorno tale progetto possa trovare compimento e che dunque la città torni ad essere un luogo dove l’acqua abbia un’importanza primaria; dall’altra i più pragmatici considerano la riapertura dei navigli solo una grande sciocchezza, dato che ormai il progresso e la moderna viabilità su gomma hanno reso del tutto inattuabile e anacronistico un tessuto urbano incentrato sulle vie d’acqua.
Come che sia, più guardo le foto antiche e più mi scopro a rimpiangere quell’epoca antica: Milano prima del Fascismo poteva ancora contare su una realtà a misura d’uomo, su un’urbanistica ancora sostanzialmente medievale, e in cui i molti corsi d’acqua conferivano bellezza, senso di quiete, tranquillità e fascinose atmosfere da belle epoque. Sappiamo tutti com’è andata a finire, purtroppo. Qualche giorno fa è stata siglata la Convenzione tra il Comune di Milano e il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani (Datsu) del Politecnico per lo studio di fattibilità della riapertura dei Navigli (Martesana, Cerchia interna, Naviglio di via Vallone, Conca di Viarenna, Darsena). Entro la fine dell’anno lo studio dovrebbe essere presentato alla cittadinanza. Le attività di ricerca dello studio saranno sviluppate secondo alcune linee tematiche: fattibilità architettonico/urbanistica con studio del tracciato e del suo funzionamento; fattibilità viabilistica e trasportistica con studi progettuali innovativi; fattibilità geologica, idrogeologica e idraulica; fattibilità economica con valutazione costi/benefici. Vedremo come andrà a finire: speriamo solo che non sia l’ennesimo episodio di sperpero inutile di denaro pubblico. Tipo il Ponte sullo stretto di Messina. Si stima che con una spesa di 120-150 milioni di euro si possa già arrivare alla riapertura del tratto del Naviglio Martesana che oggi s’infossa sotto via Melchiorre Gioia. Da qui l’acqua raggiungerebbe la Conca dei Navigli e la Darsena: otto chilometri per collegare i tre Navigli già esistenti, ovvero la Martesana che riceve le acque dell’Adda nei pressi di Trezzo; il Naviglio Grande che nasce a Somma Lombardo, derivando acqua dal Ticino; e il Naviglio Pavese che raggiunge Pavia. In totale un reticolo di centocinquanta chilometri di canali navigabili. Un sogno…!
In attesa di buone nuove, tutti in sella.

mercoledì 19 giugno 2013

Come difendersi dal gran caldo

Lunedì notte ero di servizio in 118. Il mio turno comincia a mezzanotte, e se durante l’inverno uscire dal tepore della casa e immergersi nella bruma gelata della bassa padana è una vera tragedia, quando arriva la bella stagione è quasi piacevole assaporare il fresco della notte correndo con il finestrino dell’auto abbassato. E così, l’uscita di casa dell’altra sera è stata quasi una liberazione considerata la temperatura da ebollizione presente tra le pareti domestiche di questi giorni. Sono arrivato in sede in pochi minuti, e quei pochi momenti di vento sul viso, mi hanno quasi fatto dimenticare i patimenti della lunga giornata. Poi però sono sceso dall’auto e mi sono ritrovato nuovamente avviluppato nella calura afosa e appiccicaticcia di questo giugno sahariano. Ventotto gradi a mezzanotte. Per non parlare della temperatura percepita, come dicono gli esperti…! Da schiantare anche un elefante. A dispetto di tutti i sarcastici intelligentoni che sentenziano: “Non ne potevate più dell’inverno e della pioggia, avete voluto il caldo? Ora beccatevelo tutto e zitti…”. Come se augurarsi temperature miti e gradevoli sia un delitto infamante. Ad ogni modo in sede ci sono i condizionatori e dunque il caldo è più sopportabile. A patto di restare sigillati dentro, ovviamente. Ed infatti, la notte non è stata affatto tranquilla e ben tre sono state le chiamate di emergenza. Tre interventi, non particolarmente gravi né impegnativi, ma che ci hanno visto operare con la divisa completa addosso (idrorepellente), con tanto di pettorina ad alta visibilità (in gomma). Ogni volta un bagno completo di sudore. E non finisce qui perché, una volta tornati in sede, l’impatto con l’ambiente climatizzato, ci ha dato il colpo di grazia. Ed infatti il giorno dopo ho dovuto scontare, oltre ad una spossatezza devastante, anche un bel raffreddore fuori stagione. Tra l’altro non sono riuscito a chiudere occhio per tutta la notte. Gli esperti dicono che quando dormiamo, la temperatura del corpo scende di circa un grado e mezzo, ma con il caldo la discesa avviene più lentamente e quindi, come conseguenza, ci addormentiamo più tardi. Non per niente i nostri avi dicevano: “Mangiare al caldo, dormire al freddo”. Inoltre l’aumentare delle ore di luce, durante la giornata, influisce sul rapporto veglia-sonno: più si allungano le giornate, meno melatonina (l’ormone che facilita il sonno) secerne la ghiandola pineale. Ecco spiegato perché dormiamo di meno.
Si ma possiamo fare qualcosa per difenderci dal caldo, a parte migrare nelle terre alte o chiuderci dentro il frigidaire? Il Ministero della Salute, che come si sa ci vuole bene e si preoccupa sempre molto di noi cittadini, ha messo a punto il Programma Nazionale di Prevenzione Estate sicura 2013 al fine di tenerci informati sui livelli di rischio per le ondate di calore. Quello più temibile, a quanto pare, è il livello numero tre, ovvero quello capace di portare effetti negativi non solo ai soggetti più anziani, ai bambini e alle persone affette da malattie croniche, ma anche alle persone sane e attive. In caso di allerta di questo genere ecco cosa occorre fare o non fare:
Evitare l’esposizione diretta al sole nelle ore più calde della giornata (tra le 11.00 e le 18.00). Banale, direte, eppure l’altro giorno ho visto un tizio che faceva jogging alle due del pomeriggio. Per di più con una giacca dimagrante nera ben allacciata sotto il mento. La stupidità fatta persona. Evitare le zone particolarmente trafficate, i parchi e le aree verdi, dove si registrano alti valori di ozono, in particolare per bambini molti piccoli, gli anziani, le persone con asma e altre malattie respiratorie, le persone non autosufficienti o convalescenti. Un tempo si cercava un po’ di refrigerio sotto l’ombra delle piante: ecco, scordatevelo. Rischiereste il soffocamento. Evitare l’attività fisica intensa all’aria aperta durante gli orari più caldi della giornata. Consiglio scontato, a meno che non desideriate abbandonare questa valle di lacrime. Come quel tizio della giacca nera. Trascorrere le ore più calde della giornata nella stanza più fresca della casa, bagnandosi spesso con acqua fresca. Ottima questa idea. Nel mio caso per esempio la stanza più fresca della casa è il cesso. E c’è pure l’acqua per bagnarsi. Se qualcuno conta di passare a trovarmi, venga possibilmente senza velleità di espletazioni varie. Trascorrere alcune ore in un luogo pubblico climatizzato, in particolare nelle ore più calde della giornata. Qualche anno fa un Ministro della Repubblica suggerì di portate gli anziani al supermercato e lasciarli lì il più possibile. Si sarebbero conservati meglio: come i surgelati. Ecco, il consiglio pare che sia ancora valido. Indossare indumenti chiari, leggeri, in fibre naturali, tipo lino e cotone, ripararsi la testa con un cappello leggero di colore chiaro e usare occhiali da sole. Anche questo sembrerà lapalissiano, ma sapete quanta gente ho visto in giro col cappotto di questi tempi…! Proteggere la pelle dalle scottature con creme solari con alto fattore protettivo. Non credo che questo valga anche per chi si chiude nel cesso di casa. Verificherò. Bere liquidi, moderando l’assunzione di bevande gassate o zuccherate, tè e caffè. Evitare, inoltre, bevande troppo fredde e bevande alcoliche. L’ideale, anche ai fini di una corretta dieta (dimagrante e non), è l’acqua tiepida. Rigorosamente non gasata. Fa schifo, lo so, ma qui stiamo parlando di scienza, mica di fregnacce. Avere un’alimentazione leggera, preferire la pasta e il pesce alla carne, evitando i cibi elaborati e piccanti; consumare molta verdura e frutta fresca. Porre attenzione alla corretta conservazione degli alimenti deperibili (es. latticini, carne,) in quanto elevate temperature possono favore la proliferazione di germi che possono causare patologie gastroenteriche. Nulla si dice in merito a vino, alcolici e superalcolici vari. Presumo che sia meglio evitare comunque. Come si dice, le disgrazie non vengono mai da sole. Per chi assume farmaci, non sospendere autonomamente terapie in corso, ma consultare il proprio medico curante per eventuali adeguamenti della terapia farmacologica. Ovviamente. Se l’auto non è climatizzata evitare di mettersi in viaggio nelle ore più calde della giornata (ore 11.00-18.00). Non dimenticare di portare con sé sufficienti scorte di acqua in caso di code o file impreviste. Ma lasciare l’auto direttamente in garage, no? Non lasciare persone non autosufficienti, bambini e anziani, anche se per poco tempo, nella macchina parcheggiata al sole. Di drammatica attualità, purtroppo. Offrire assistenza a persone a maggiore rischio (ad esempio anziani che vivono da soli) e segnalare ai servizi socio-sanitari eventuali situazioni che necessitano di un intervento. Se ne vedono sempre più spesso di situazioni come queste: una società che abbandona le persone più indifese, non ha niente di civile. In presenza di sintomi dei disturbi legati al caldo contattare un medico.
Ecco, questo è ciò che occorre fare in caso di livello di rischio tre.
Ad ogni modo una domanda mi resta: ma quando eravamo bambini, ci siamo mai preoccupati così tanto del caldo? Scrivo quest'ultima considerazione rigorosamente in prossimità del climatizzatore. Naturalmente. Bah..., sarà l'età...!

venerdì 14 giugno 2013

Il passaggio a livello di Curlandia

La vita dei pendolari si sa non è facile, soprattutto su alcune tratte ferroviarie particolarmente disagiate. I viaggiatori che si trovano costretti ad utilizzarle mettono in preventivo fin da subito la possibilità di andare incontro ad inconvenienti di diversa natura: ritardi, soppressioni, affollamento, carrozze gelate d’inverno e superriscaldate d’estate, porte rotte, toilette fuori-servizio ed altro ancora. Sulla tratta Milano - Cremona però, quella che utilizzo da anni, c’è un’unica certezza, che incombe a scadenza più o meno fissa: il guasto del passaggio a livello di Curlandia. Solitamente questo inconveniente si verifica ogni due o tre mesi ed è un tormentone che si ripropone da anni. Alle volte passa dalla mente, ci si scorda della sua immanenza, ed è proprio in quel preciso momento che si ripresenta, a sorpresa, quasi a tradimento. Accade dunque che il treno, lasciata la stazione di Biscardia, si avvicini a quella di Curlandia e qui si fermi: la sbarra del passaggio a livello non ne vuole sapere di venir giù per bloccare il traffico delle auto e il treno non può transitare. I viaggiatori dopo quasi un’ora di viaggio, non appena si accorgono che la sosta si prolunga, cominciano a dare segni di nervosismo. Alcuni pendolari storici, intuendo qual è il problema, si lasciano andare allo scoramento - qualcuno piange silenziosamente - . Altri reagiscono con durezza, non lesinando volgari improperi ed epiteti all’indirizzo delle mamme dei ferrovieri incolpevoli. Dopo alcuni minuti comincia il via vai per le carrozze; molti si affacciano ai finestrini per capire cosa accade e soprattutto quando si riparte. C’è una sommessa e solidale confusione, come un vociare di sottofondo, un chiacchiericcio appena udibile. Arrivano all’orecchio poche parole, appena percepibili: «Pare che ora si riparta…» - «Beh sì, speriamo…» - «Ma cos’è sta volta, aspettiamo la coincidenza…?» - «Ma quale coincidenza, sarà un guasto al locomotore: d’altra parte hanno trent’anni…» - «È il passaggio a livello: si è sfasciato ancora…!» - «Nooo, di nuovo? Ma è una maledizione…!». Dopo circa venti minuti di sosta gran parte dei passeggeri scendono dal treno e si avvicinano all’ufficio del capo-stazione: alcuni hanno un fare minaccioso. Altri, affranti attendono con rassegnazione di avere qualche notizia.
Qualche giorno fa mi sono imbattuto appunto nel guasto al passaggio al livello. Ero naturalmente tra coloro che cercavano di capire quando si ripartisse, ma più che altro ero incuriosito dai comportamenti e dalle reazioni dei miei compagni di viaggio. Ce n’era uno in particolar che mi colpiva, per la foga con cui protestava e si agitava. Aveva un atteggiamento ambivalente: da un lato violento, quando parlava con i viaggiatori; dall’altro estremamente riguardoso quando si rivolgeva al capo-stazione. Criticava con virulenza gli addetti delle ferrovie, sostenendo che in fondo a loro non interessava nulla dei viaggiatori, tanto lo stipendio ce l’avevano assicurato; aggiungeva che gli stessi, in gran numero, se ne stavano tranquillamente seduti a chiacchierare nel loro ufficio senza fare nulla per risolvere il problema; e per finire affermava che le ferrovie non sarebbero mai state efficienti a causa dei troppi meridionali presenti tra i propri dipendenti. Il poveretto, era decisamente in preda ad una crisi isterica e, sebbene dicesse davvero delle cose sgradevoli, suscitava in me un senso di tenerezza e simpatia: erano talmente enormi infatti le sue affermazioni, che travalicavano la mia indignazione, andavano oltre, fino a raggiungere la sfera del ridicolo. Ed in fondo chi ci fa ridere, solitamente ci è anche un po’ simpatico. Le persone che erano presenti ascoltavano le esternazioni del tipo isterico, ma non gli davano retta. Qualcuno, nel mentre che il nostro parlava, gli voltava le spalle e se ne andava maleducatamente; qualcun altro, guardandolo negli occhi, faceva delle smorfie plateali; altri gli parlavano sopra senza rispetto. Io assistevo a tutta la scena e a stento trattenevo uno scoppio di riso. Poi all’improvviso ho rotto il silenzio e, rivolto all’esagitato, ho chiesto a sorpresa con intento ironico: «Ma quanti sono in quel maledetto ufficio? Qualcuno sa dirmi se per caso c’è anche qualche meridionale scansafatiche da quelle parti?». Il nostro, senza capire che lo stavo prendendo in giro e senza tra l’altro accorgersi del mio accento non propriamente tirolese, si è illuminato come una supernova ed è partito a raffica, dando prima un’occhiata che non ci fosse il capo-stazione nei paraggi: non gli pareva vero che qualcuno lo potesse ancora ascoltare. E così il poveretto, potendo dare sfogo alla propria rabbia, si è lentamente tranquillizzato: come se una valvola di sicurezza si fosse aperta e avesse consentito di allentare la pressione.
Fortunatamente nel giro di qualche minuto il treno è ripartito e io mi sono immerso nuovamente nella lettura de La bellezza russa di Nabokov. Ad un tratto, levando gli occhi dal libro che mi aveva rapito completamente, mi sono accorto che una viaggiatrice che solitamente scende dopo di me si stava preparando. La faccende mi è sembrata strana e di conseguenza ho gettato lo sguardo fuori dal finestrino. Il paesaggio era irriconoscibile, per un attimo ho avuto come un senso di vertigine, di smarrimento: mi sembrava di essere in un sogno. Qualche minuto ancora ed ecco svelato l’arcano: ero semplicemente andato oltre la mia fermata. Ancora un po’ e finivo a Cremona. Sono sceso velocemente e mi è toccato aspettare il treno che tornava indietro. L’isterico mi ha salutato dal finestrino: sorrideva.

(Fonte: Il Cialtrone, 2012)

giovedì 13 giugno 2013

Hai voluto la bicicletta…?

A Rimini, durante uno di quei momenti di relax che fanno viaggiare la mente ogni oltre immaginazione, è nata spontanea la voglia di una nuova, affascinante avventura: attraversare il cuore delle Marche e dell’Abruzzo in bicicletta. Con bagagli al seguito, naturalmente. Il tutto è accaduto seduti intorno ad un tavolino a Sant’Arcangelo di Romagna, in attesa che spiovesse. Buttata da me lì per caso, come alternativa alla Sardegna del Sud, la proposta ha riscosso immediatamente grande interesse. In fondo queste due regioni sono quasi completamente ignorate dalle grandi direttrici turistiche - nonostante più voci tessano le lodi della loro selvaggia bellezza - e proprio per questo hanno un fascino tutto particolare per dei veri viaggiatori. L’idea è di partire da Rimini (o meglio ancora Gabicce) ed immergersi nell’entroterra. Da quello che si può capire sulle carte, la via più fattibile per entrare nel cuore dell’Abruzzo è una sola: quella che passa tra i Sibillini e il Gran Sasso.

Itinerario di massima:

1) Rimini - Urbino: 80 km c.a. [(-20 se si parte da Gabicce-Cattolica) collinare].
2) Urbino - Fossombrone - Ostra Vetere - Jesi: 70 km c.a. (collinare).
3) Jesi - Osimo - Sirolo (Parco del Conero): 40 km. c.a. - Breve così ci godiamo un po’ il Conero.
4) Sirolo - Loreto - Recanati - Macerata - Corridonia - Montegiorgio - Servigliano: 70 km. (collinare).
5) Servigliano - Ascoli Piceno: 41 km. (collinare) - Breve perché il giorno dopo è tosta…
6) Ascoli Piceno (154 mt.) - Acquasanta Terme (392 mt.) - Arquata del Tronto (777 mt.) - Accumoli (855) - Amatrice (955 mt.): 59 km. (montagna).
7) Amatrice - Montereale - Pizzoli - L’Aquila (714 mt.): 53 km. (montagna).
8) L’Aquila - Poggio Picenze (756 mt.) - Barisciano (940) - Popoli (250 mt.) Sulmona (405 mt.): 70 km. (montagna).
9) Sulmona (405 mt.) - Pacentro Majella (690 mt.) attenzione: qui c’è un passo a 1.282 mt. * - Sant’Eufemia a Majella (878 mt.) - Caramanico Terme (650 mt.) - San Valentino in Abruzzo Citeriore (450 mt.): 50 km. (montagna).
10) San Valentino in Abruzzo Citeriore - Chieti - Francavilla al Mare (Alessandra): 40 km. c.a. (collinare).
11) Francavilla al Mare - Ortona: 13 km. - Imbarco per Isole Tremiti.

* Forse è meglio restare su a Popoli e puntare direttamente verso il mare.
Isole Tremiti? Sì. Il tour si conclude con un paio di giorni sulle Isole Tremiti. A breve verificheremo la fattibilità del viaggio e nel caso partiremo con le prenotazioni. Tutti i suggerimenti sono ben accetti.

mercoledì 12 giugno 2013

Diario di viaggio

Saludecio
E così venerdì scorso, dopo aver preparato la borsa, ho inforcato la bicicletta e mi sono avviato verso Lodi. Venti chilometri percorsi in poco meno di un’ora. La sensazione di libertà che si prova a cominciare un viaggio partendo da casa in bicicletta è indescrivibile. Puntualissimo è arrivato il treno regionale veloce proveniente da Milano e diretto a Bologna. A bordo, immersa in una folla di pendolari diretti a casa, ho trovato Alessandra. Accanto a lei un ragazzo, non appena mi ha visto arrivare si è alzato per cedermi il posto. Tra me e me ho pensato “ma tu guarda, non pensavo di essere ridotto a questo punto…”. In realtà si trattava di una premura di Alessandra: “Puoi sederti, ma a Lodi sale un mio amico e devi alzarti”. Ovviamente rifiuto il bel gesto cortese e resto in piedi. A Parma scendiamo e nel giro di mezz’ora giunge la coincidenza che ci condurrà a Rimini. Giusto il tempo di un prosecchino fresco bevuto al volo. Arriviamo a Rimini alle dieci di sera. Appena scesi dal treno veniamo investiti immediatamente da un venticello tiepido da serata estiva, un’aria carica di essenze marine che riempie di entusiasmo. In pochi minuti siamo in albergo. Breve doccia e discesa veloce verso il cuore di Marina Centro alla ricerca di un posticino dove calmare i morsi della fame. Alessandra, che a pranzo ha mangiato solo una barretta energetica, mi dice: “Oh Lu, non stiamo lì a cercare il solito posticino tipico, caratteristico, ed economico …, il primo che capita…, se c’ispira entriamo…”. In effetti non è il caso di perdere troppo tempo. Ci fermiamo in una piadineria con i tavolini all’aperto e dopo breve consulto, ordiniamo una “piadizza” (pizza fatta con l’impasto della piadina). Niente male. Ci raggiunge Alfio, il nostro amico di Palmanova, visto l’ultima volta in occasione del suo compleanno: una festa memorabile, con oltre cento invitati. Si programma la tappa del giorno dopo: San Marino? Panoramica Gabicce - Pesaro? No. Si opta per le colline dell’entroterra. E così la mattina dopo, si parte. Seguiamo tutto il lungomare fino a Misano Adriatico e da qui puntiamo verso l’interno. Dopo Morciano la strada comincia a salire e a Saludecio già la vista spazia su un panorama azzurro che scolora tra cielo e mare. Fa caldo e il cielo è terso. A Mondaino Alfio ed io ci fermiamo ad attendere Alessandra. L’ultima volta che sono stato in questo grazioso borgo medievale dovetti attenderla più di mezz’ora. La sua è un’andatura lenta, ma inesorabile e nessuna meta per lei è irraggiungibile. Certo ci vuole il suo tempo, ma prima o poi arriva. E invece questa volta non c’è molto da attendere. Incredibilmente. In paese acquistiamo della frutta per pranzo e ci rimettiamo in cammino. Ancora qualche chilometro ed eccoci a Montegridolfo. Siamo all’estremo lembo della Romagna: le Marche sono a distanza di sguardo. Verso nord è tutto un lento degradare verso il mare; tutto intorno invece si spalanca un paesaggio fatto di colline verdeggianti, poggi riarsi e boschi di ulivo. Il paesino è cinto da mura difensive e vi si accede superando un ponte levatoio.
Gradara
Qui c’era in antichità un caposaldo conteso da Malatesta, Montefeltro, Borgia, Veneziani e Chiesa. Per le strade non c’è anima viva, e anche il ristorante in cui avevano pranzato con gran piacere anni fa è chiuso. La stagione estiva si fa attendere anche qui. Dopo uno spuntino a base di banane, ciliegie e nocepesche, si riparte verso la costa. A Tavullia, dopo aver superato la villa di Valentino Rossi, decidiamo per una deviazione: Gradara. Nessuno di noi c’è mai stato in precedenza e l’eco dantesca è un richiamo troppo forte. La giornata peraltro è splendida e invita a osare. Ed infatti la salita verso la rocca è bella e impegnativa. Dalla sommità, e ai piedi della cinta muraria, ancora un panorama mozzafiato sulla striscia di costa che dal promontorio di Gabicce si allunga verso Rimini. Si ridiscende a tutta velocità verso il mare. A Gabicce ci concediamo un giretto turistico per le stradine della graziosa cittadina balneare. C’è gente in spiaggia e per la prima volta assaporiamo veramente il clima vacanziero. Nel primo pomeriggio siamo a Rimini: il contachilometri segna 92.4. All’ombra di un bar ci rilassiamo sorseggiando una bevanda ghiacciata. Sono in calo di zuccheri e così afferro al volo un cono gelato e lo divoro con una violenza inenarrabile. Alessandra e Alfio, pur invidiandomi profondamente, resistono perché sennò ci si rovina la cena…! Bah… In albergo troviamo l’altra Alessandra, quella di Pescara. Sono due anni che non ci vediamo eppure è come esserci lasciati il giorno prima. Lasciate le biciclette, andiamo in spiaggia. Seduti ad un tavolino e con i piedi nella sabbia beviamo un caffè freddo e riannodiamo il discorso lasciato a metà con la nostra amica: l’ultima volta eravamo a Levanto, un ponte dei Ognisanti. In serata ci raggiunge Sara, un’amica di Alfio. Passeggiando stancamente alla ricerca di un locale dove fare l’aperitivo ci imbattiamo nel Grand Hotel di felliniana memoria. C’è una festa elegante nel giardino ed un buffet sontuoso dispensa prelibatezze di tutti i tipo. Siamo tentati di imbucarci alla maniera dei “vitelloni”. Poi però desistiamo: decenza e decoro prima di tutto.
Rimini - Marina Centro
E così aperitivo in un locale alla moda sul lungomare e a seguire cena a base di pesce. Non entusiasmante, purtroppo. La serata si conclude al Bounty, un pub con musica dal vivo, oltreché con due passi di danza jazz in una balera poco lontana. Il giorno dopo la seconda tappa. Recuperata presso un fetido noleggiatore la bicicletta per Alessandra da Pescara si percorre tutta la ciclabile del Marecchia. Il cielo è carico di nubi minacciose e l’idea iniziale di arrivare a San Marino sfuma. Saliamo a Verucchio, un altro splendido borgo medievale e dopo una breve pausa pranzo, giù verso Sant’Arcangelo di Romagna. Pioviggina. Breve visita alla città alta e sosta in un bar di Piazza Ganganelli in attesa che il tempo migliori. Si torna a Rimini seguendo il lungomare. Doccia, e spuntino. Nel tardo pomeriggio Alfio e Sara ripartono per Palmanova. Per chi resta una lunga passeggiata per accrescere l’appetito spezzato da una piadina traditrice. Le strade di Marina Centro si spopolano dei vacanzieri del fine settimana e a noi resta addosso un pizzico di malinconia. Il mattino seguente la sveglia suona presto. Colazione veloce e via verso la stazione. Il saluto a Rimini coincide con quello per la nostra amica di Pescara. Ci rivedremo presto. Due treni ci riconducono verso la grigia e fredda Pianura Padana. A Lodi saluto Alessandra e scendo. Altri venti chilometri di bici, l’ultima cavalcata, mi riconducono a casa. Ecco, questo è la biciclettata di Rimini…! A presto.

venerdì 7 giugno 2013

Chiuso per ferie

Ciao amici,
Siamo in partenza. Le bici sono pronte, i bagagli ben sistemati sul portapacchi e le previsioni del tempo lasciano ben sperare. Ovviamente nelle borse c’è anche il costume da bagno…! Arriveremo in serata a Rimini e da domani si pedala alla grande nell’entroterra. Decideremo l’itinerario al momento. Forse si farà la panoramica verso Pesaro (splendida e a picco sul mare…), o forse andremo lungo stradine deserte alla scoperta di graziosi paesini appoggiati sulle colline. Vedremo. Una volta tornati, poi, si darà vita alla serata: l'Aperol-Spritz è già in fresco e Alf ha trovato un ristorantino a base di pesce che promette bene. Alloggiamo all’Hotel Capri di Marina Centro, a duecento metri dalla stazione ferroviaria. Vi aspettiamo. Yanez

http://www.hotel-capri.it/

giovedì 6 giugno 2013

Come non dovrebbe essere un buon capo

Come si riconosce un buon capo e quali sono le caratteristiche che lo contraddistinguono? Bella domanda. Qualche tempo fa partecipai ad un corso sulla “leadership”, una di quelle esperienze formative che vanno tanto di moda di questi tempi. In quattro sedute fulltime ci vennero propinate una valanga di informazioni teoriche, associate a nozioni pratiche con tanto di esercitazioni. Vi furono anche delle proiezioni tratte da alcune scene di film: il tutto per osservare e dibattere sul modo di comportarsi di alcuni soggetti alle prese con situazioni particolari. Si parlò di comunicazione, autorevolezza, capacità di fare gruppo, capacità di riconoscere i propri errori, competenza, coerenza (“dico quello che penso e faccio quello che dico”), capacità di motivare. Il succo del corso era che chiunque, quando avesse fatto e detto determinate cose, sarebbe stato un buon capo. Al termine dell’ultima lezione fui moderatamente soddisfatto. In effetti tutto ciò che avevo ascoltato era già più o meno nel mio bagaglio culturale, ma mancava di razionalità. E così valutai l’esperienza in maniera positiva. L’unica cosa sulla quale mi trovai (e ancora mi trovo) a dissentire è il fatto che chiunque possa essere un buon leader a patto di comportarsi in una certa maniera. A mio modesto avviso le caratteristiche caratteriali contano troppo in questo genere di rapporto e se uno nasce privo di determinate qualità (carisma, per esempio), può fare anche tremila corsi, ma sarà sempre visto come persona poco autorevole. E d’altra parte basta osservare i bambini per rendersene conto: già all’età di quattro anni è evidente a tutti chi è leader e chi no. Quando porto mia nipote al parchetto c’è la sua amichetta Giorgia che dimostra di avere un ascendente straordinario su tutti gli altri bambini: comanda, organizza, dispone, premia e mette in punizione. E nessuno si metterebbe in testa di contraddirla. E non perché ne abbia paura, ma perché la riconosce come leader. Ha frequentato corsi? No. È stata in accademia? Neanche. Queste doti sono semplicemente innate dentro di lei. Ad ogni modo, non è che tutti i capi debbano essere per forza straordinari: come in ogni campo dell’agire umano ci sono quelli più bravi e quelli meno bravi. Ed in ogni caso sarebbe già sufficiente che un leader riuscisse bene nel suo lavoro e soprattutto in quello dei sottoposti. Che sia anche amato, poi, è un di più. L’altro giorno il sito jobs.aol.com ha pubblicato una lista di caratteristiche che contraddistinguono un cattivo capo. Andiamo ad analizzarle. Per prima cosa un capo non dovrebbe mai e poi mai comunicare un problema ai suoi sottoposti rimproverandoli o peggio ancora sbraitando loro addosso. I problemi andrebbero affrontati insieme, con spirito costruttivo: in un’organizzazione non c’è il problema di Tizio o di Caio. Il problema è di tutti e tutti dovrebbero concorrere a risolverlo. Mostrare il volto truce, senza avere la stima dei propri collaboratori equivale a fallimento. Nel film Master & Commander si dice: “Senza il rispetto, la disciplina va a ingrassare i pesci”.
In secondo luogo un cattivo capo dimostra spesso scarse capacità di pianificazione. In America si dice: “Your poor planning does not constitute an emergency on my part”. Qualche tempo fa lavoravo in un’azienda dove c’era un soggetto di questo genere. Era sempre immerso nell’Empireo, all’inseguimento dei suoi sogni, dei suoi desideri, ed era completamente dissociato dal concetto spazio-tempo. “Facciamo questo, facciamo quello…”, per lui era tutto fattibile: nessun problema. Ed io ero uno dei pochi che gli parlava onestamente e che di tanto in tanto lo tirava giù dalle nuvole. E per questo egli mi odiava, anche se non poteva che darmi ragione ogni volta. Morale, chi aveva a che fare con lui, doveva sempre rincorrere lavori e progetti che spesso non arrivavano a conclusione. Stressante, oltreché inutile.
In terzo luogo, un leader non dovrebbe mai mancare di chiarezza e soprattutto non dovrebbe pretendere che i suoi sottoposti leggano nelle elucubrazioni della sua zucca. Capita spesso invece che si diano troppe cose per scontate e così ognuno viaggia per conto suo, fino a che non viene fuori l’equivoco. E a quel punto, 99 su 100 è colpa del sottoposto che non ha capito. Naturalmente.
Altra grave mancanza di un capo è l’assenza di capacità decisionale. Il ruolo che egli ricopre lo pone su un palcoscenico, costantemente valutato per i propri atteggiamenti. Da un capo ci si aspetta sicurezza, decisione, forza di volontà. In mancanza di tali caratteristiche dilaga l’anarchia.
Altro atteggiamento odioso è quello di prendersi i meriti ottenuti in squadra e biasimare chi sbaglia. Una volta mi capitò di lavorare su un progetto di comunicazione. Il mio capo non faceva che lamentarsi di ciò che stava venendo fuori. Per farla breve il lavoro venne pubblicato su una rivista prestigiosa e con un risalto notevole. E la firma che comparve sulle pagine fu la sua, non certo la mia. Ciò contribuì non poco alla mia decisione di dare le dimissioni.
Le critiche costruttive sono utili, anche se non sempre ben accette. Viceversa criticare per criticare e soprattutto non dare consigli su come superare l’empasse, non è di certo un buon atteggiamento. Compito di un capo dev’essere trovare soluzioni. In mancanza di ciò, meglio cambiare aria.
Altra caratteristica di un cattivo leader è l’arroganza. Coloro che sanno tutto e che trattano i sottoposti come dei cerebrolesi (“non sei pagato per pensare…”) non faranno mai troppo strada. Né la farà l’azienda per la quale lavorano. Un buon capo dovrebbe motivare i propri giudizi, rendere partecipi tutti delle proprie decisioni. E soprattutto dovrebbe ascoltare. Soltanto avendo un quadro complessivo della situazione si può prendere una decisione corretta e il più possibile condivisa.
Un vero capo poi dovrebbe aver cura dei propri sottoposti, dovrebbe avere a cuore le proprie vite. O almeno dovrebbe far sì che essi ci credano. Napoleone Bonaparte, ad esempio, la sera prima della battaglia, passava tra le truppe e scambiava qualche parola con i soldati. Chiamandoli spesso per nome e chiedendo notizie delle loro famiglie. E questi così gratificati, il giorno dopo, erano disposti anche a morire per il loro Imperatore. Al contrario, un capo che dimostra indifferenza verso i proprio collaboratori, di rimando non sarà pagato che con la stessa medaglia.
E per finire, nella classifica di ciò che non dovrebbe mai fare un capo, ecco la chicca: “Uses fear tactics” (ovvero utilizza la politica del terrore). Non saprei se questo atteggiamento è dettato dalla cattiveria d’animo innata, o se al contrario, si tratta solo di inadeguatezza al comando. O peggio di false convinzioni e dunque di becera ignoranza. Fatto sta che il clima di terrore che regna in alcuni luoghi di lavoro non fa bene a nessuno. Una volta capitai in un ambientino del genere: oltre al terrore del capo, si era creata altresì una sorta di guerra fratricida tra colleghi, una lotta per la sopravvivenza che non ammetteva regole. Un vero inferno. Anche perché era quel farabutto del capo a instillare nei collaboratori questo germe fratricida. “Divide et impera” era il suo motto. Peccato che questo valga per i nemici, non già per coloro che lavorano per te e che dovrebbero, appunto, fare squadra.
Ecco, nel caso il vostro capo fosse affetto da tali disgrazie, fate al più presto la valigia. È difficile, lo so, soprattutto in tempo di crisi, ma provate a ragionare in questi termini: “Sto legando il mio futuro a questa persona…!”. Verrà tutto più facile.

Fonte:   http://jobs.aol.com/articles/2013/06/03/characteristics-bad-bosses/

martedì 4 giugno 2013

I migliori libri d’amore di tutti i tempi

«Secondo te qual è il più bel libro d’amore mai scritto?».
«Be’ dipende dal tipo d’amore. Sicuramente quello amicale per me è L’amico ritrovato».
«Dai, piantala di scherzare…».
«Non scherzo…!».
«Ok, allora, ecco la top ten mondiale…!».
L’altro giorno mi sono imbattuto per caso in un sito internet che si occupa di libri e letteratura (www.libreriamo.it) e la mia attenzione è stata subito attratta da questa speciale classifica, ottenuta comparando le varie graduatorie presenti a livello internazionale su siti e blog che si occupano di lettura. In effetti c’è sempre un certo fascino in questo genere di sfide all’ultimo sangue, modello Ok Corral. Anche perché leggere una classifica di questo genere scatena subito il nostro spirito partigiano, il tifo da stadio per i nostri autori preferiti, lo sdegno per il piazzamento di altri a noi sgraditi. E solitamente non siamo mai d’accordo con il risultato di tali votazioni. Tipo l’elezione di Miss Italia. E di fatti ecco cosa risponde Cristina subito dopo aver letto la lista: «Che classifica banaluccia, non condivido neanche un po’…».
Certo la mia amica è molto esigente in fatto di libri, questo è pur vero, però è altrettanto vero che i gusti e le preferenze personali sono talmente vari ed eterogenei (per fortuna, direi…) che stilare una graduatoria potrebbe apparire esercizio ozioso. Ad ogni modo, bando alle ciance e andiamo a dare un’occhiata. Al primo posto tra i libri d’amore più letti e amati di sempre svetta il classico dei classici, vale a dire Romeo e Giulietta. Come volevasi dimostrare. Sono trascorsi ormai oltre quattro secoli dalla prima rappresentazione del dramma shakespeariano, eppure ancora la storia dei due amanti di Verona travolge le generazioni. L’ho riletto qualche giorno fa, ed in effetti non lo ricordavo così bello e coinvolgente. Shakespeare è uno dei pochi autori che porta all’estremo ogni sentimento umano: dall’amore all’odio si assiste sempre all’apoteosi dell’intensità esistenziale. Come dovrebbe essere appunto la vita, e non invece questa pastetta insapore dei nostri giorni. Al secondo posto troviamo un altro classico: Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. Devo ammettere di non aver letto questo libro. Il motivo è appunto un pregiudizio maschilista: mi risulta difficile leggere libri scritti da donne e solo raramente sono riuscito a vincere questa mia assurda ostinazione. E non è questo il caso, purtroppo. Al terzo posto si piazza Anna Karenina di Lev Tolstoj. Anche questo libro l’ho letto abbastanza recentemente e ne sono stato travolto d’entusiasmo. Perché sia arrivato così tardi a questa lettura è presto detto: tra i due giganti russi, Dostoevskij e Tolstoj, ho sempre preferito leggere il primo. Mi piace di più immergermi nelle piccole storie delle persone qualunque, degli umili, dei miseri, piuttosto che nelle grandi storie dei ricchi e dei potenti. Ad ogni modo Anna Karenina, nella mia personale classifica, è tra i pochissimi romanzi che abbia superato abbondantemente il “9”. Al quarto posto si colloca Via col vento di Margaret Mitchell, reso famoso dall’omonimo film del 1939 e interpretato da Clark Gable e Vivienne Leigh. La divina Rossella O’Hara. A metà classifica si piazza Cime tempestose di Emily Brontë. In sesta posizione troviamo Gabriel Garcia Marquez con L’amore ai tempi del colera. Un gradino sotto Jane Eyre di Charlotte Brontë. In fondo alla classifica tre capolavori assoluti della letteratura: Dottor Živago (Boris Pasternack), Notre Dame de Paris (Victor Hugo) e Lolita (Vladimir Nabokov). Živago lo lessi anni fa, durante l’innamoramento per la letteratura russa; Notre Dame nel corso di un’estate balneare. Ricordo la lunghezza mastodontica del tomo e la delusione profonda provata al termine dell’ultima pagina: cotanto sforzo (oltreché piacere…) per contristarmi con la morte dell’eroina del romanzo. Che nervoso…! Lolita non l’ho letto, ma fa parte di quella lista di libri da leggere in un prossimo futuro. D’altra parte quando uno ha assaporato, riga dopo riga, La bellezza russa, non può permettersi di trascurare Lolita.
E così siamo giunti al termine. Qualcosa da obiettare? Sì, naturalmente. Via col vento, ad esempio, non so se merita di figurare tra i migliori dieci libri d’amore. Nella mia classifica ideale, ad esempio, non farei mancare mai Le notti bianche di Dostoevskij, né Addio alle armi di Hemingway. Storie eterne, senza tempo, capaci di commuovere persino un cuore arido come il mio. E come dimenticare poi Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald, I dolori del giovane Werther o Le Affinità elettive di Goethe, il Cirano di Bergerac di Rostand, i romanzi cortesi di Chrétien de Troyes. E ci fermiamo qui perché l’elenco è lungo. Tutte opere abbastanza datate, come si vede. E che volete farci, la letteratura dei nostri giorni proprio non riesco ad amarla. D’altra parte è dai tempi di Kafka che non si legge più nulla di grandioso. Quando sento poi certi titoli e certi autori, e con essi la moda di correre dietro all’eco mediatica fondata sul nulla, mi viene una gran rabbia. L’altro giorno ascoltavo alcune colleghe discutere del “capolavoro” di E. L. James, Cinquanta sfumature di grigio. Un elogio degno forse solo del “Tanto gentile e tanto onesta pare”. Non ho resistito e mi sono fatto, per una volta, i fatti degli altri: «Scusate, ma voi L’amante di Lady Chatterley l’avete letto?».
Risposta all’unisono: «L’amante di chi…?».

Fonte: http://www.libreriamo.it/a/4186/da-romeo-e-giulietta-a-via-col-vento-la-top-ten-dei-libri-damore-piu-belli-di-sempre.aspx

lunedì 3 giugno 2013

Un uomo senza pancia, è come un cielo senza stelle

Da sempre si sostiene che la vanità è donna, che le donne si preoccupano troppo del proprio aspetto esteriore, che spendono troppo tempo e denaro dal parrucchiere o dall’estetista, che farebbero di tutto pur di sfoggiare una silhouette da indossatrici. Con tutte le conseguenze tragicomiche del caso, non ultima la ferrea volontà presente in alcune irriducibili ottimiste di infilarsi dentro taglie iperstriminzite, con automatico effetto insaccato. Tutti comportamenti che spesso scatenano feroci aggressioni reciproche tra donne, che si manifestano con frasi ipocritamente cordiali, ma che in realtà suonano di un’acidità potenzialmente clamorosa: “Però, non ti sta proprio malissimo questo tailleur verdolino…”. “Caspita, non me l’avevi detto che ti eri messa a dieta: avrai già perso perlomeno mezzo chilo, non è vero?”. “Bella questa messa in piega, davvero originale: ricordo che anche zia Marietta si pettinava sempre così…”. Fisico a clessidra (quello più desiderato…), a pera (detto anche a fiasca di vino…), a mela (il più vituperato), a grissino (stile indossatrici): negli ultimi tempi è tutto un classificare secondo forme, volumi e dimensioni. Ora però, grazie ad una recente ricerca condotta dalla Leeds Metropolitan University, anche gli uomini hanno la loro bella tabella di comparazione, grazie alle sette categorie identificate da Brendan Gough, professore di psicologia sociale. Si parte con quella più comune, vale a dire quella nella quale il maggior numero di uomini tende ad identificarsi: a pera. Si tratta del classico individuo con il bacino grosso e le spalle strette. Quasi un intervistato su due (49 per cento) dichiara di appartenere a questa bella categoria. Passando al settore ortaggi poi troviamo il fisico a cetriolo, vale a dire asciutto sia nella parte alta sia in quella bassa del corpo (tipo i calciatori). Pare che questo sia il modello ideale per il 46 per cento del campione anche se solo il 15 per cento degli uomini dichiara di poter sfoggiare una tale meraviglia. A seguire troviamo la silhouette a pomodoro, ovvero quella del classico signore rotondetto, paffutello e assai loquace. Un intervistato su dieci ritiene senza mezzi termini di appartenere a questa categoria. C’è poi l’esile fagiolino, alto e magro come un chiodo; il mattone, ovvero il classico tipo atticciato, robusto; il nacho, cioè il tipo dalla forma a triangolo rovesciato: spalle larghe, torace e pettorali sviluppati, fianchi stretti. Il fisico classico del nuotatore, tanto apprezzato dalle donne eppure così snobbato dagli uomini: pare che solo il 5 per cento del campione infatti lo identifichi come il suo ideale. E per concludere il più simpatico di tutti, il fisico a forma di pupazzo di neve: bel grasso, tipo omino della Michelin. I fortunati appartenenti a questa categoria pare che siano intorno al 5 per cento. Dalla ricerca è emerso che non sono solo le donne ad essere condizionate dagli stereotipi imperanti sui mezzi di comunicazione di massa, ma anche gli uomini. Pochi sono infatti coloro che si ritengono soddisfatti del proprio fisico: tre uomini su quattro odiano il proprio corpo. Quasi la metà degli intervistati peraltro ritiene che sarebbe utile e opportuno perdere peso. Secondo il Professor Gough, gli uomini di oggi sono molto più attenti alla propria apparenza rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto. La cultura imperante dell’apparire belli e sani a tutti i costi fa si che quando ci si vede bene, si sta bene. E di converso, una cattiva immagine riflessa di se stessi, influisce negativamente sul proprio benessere psicologico e di conseguenza, fisico. La ragione di tale decadimento è spesso associata ad una dieta sbagliata e alla mancanza di esercizio. Mio fratello per esempio, da ragazzo è stato un buon pattinatore, ottenendo peraltro dei riconoscimenti a livello nazionale. Col tempo però ha messo su qualche chiletto. Quando l’altro giorno il dottore gli ha chiesto da quando ha cominciato a ingrassare, lui c’ha pensato su un po’ e poi ha risposto sconsolato: “Eh dottore, da quando mi sono sposato…”. Dallo studio è emerso inoltre che l’età in cui ci si sente al massimo della propria condizione fisica, è 28 anni. A questa età, infatti, quattro uomini su dieci si dicono soddisfatti del proprio fisico e ritengono di avere un peso ideale in proporzione alla propria altezza. Ed anche con gli abiti il rapporto sembra idilliaco: uno su tre dichiara che a quell’età si può indossare tutto ciò che si desidera. In effetti, anche a livello di prestazioni sportive, questa è l’età in cui si riesce a dare il massimo: ad un pieno sviluppo fisico, si associa una maturata consapevolezza dei proprio mezzi e un’esperienza sufficiente per puntare ai grandi traguardi: non per nulla, per esempio, Marco Pantani vince a 28 anni Giro e Tour nella stessa stagione. Gough sostiene che mentre durante l’adolescenza gli uomini sono ancora alla ricerca della propria identità, con l’approssimarsi della trentina si raggiunge una maturità che consente un rapporto più adeguato e soddisfacente con se stessi e con il proprio corpo. Anche perché a quest’età solitamente si mette su famiglia e si raggiunge una certa stabilità lavorativa: situazioni ideali per poter guardare al presente e al futuro con serenità e fiducia. Almeno stando al modello imperante di stili di vita. Superata questa fascia di età, e dunque dai trenta in su, sostiene Gough, il nostro metabolismo comincia a rallentare ed inevitabilmente cominciamo a mettere su peso.
Madre Santissima, Professore, quanta tristezza. E così, superata la trentina, secondo lei siamo tutti destinati ad ingrassare inesorabilmente…! Che sciagura… Bah, a parte che secondo me non è vero (basta sapersi limitare un po’ e fare della sana attività sportiva), non credo che questo sia il male peggiore che possa capitare ad un uomo. Basta guardare Gerard Depardieu per rendersene conto: ricco, grasso e felice. Homo de panza…, homo de sostanza. E comunque senza voler essere qualunquisti a tutti i costi, lo sanno tutti che “un uomo senza pancia, è come un cielo senza stelle”.

Fonte: http://www.dailymail.co.uk/health/article-2329084/Are-nacho-tomato-string-bean-New-research-reveals-7-different-shapes-modern-man.html?ico=health%5Emostread