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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 4 marzo 2013

Basta sprechi, sennò via la mano

Fantozzi - Italia, 1975
Chi di noi non ricorda la scena del film Fantozzi, in cui il tragico Ragionier Ugo e la Signorina Silvani (di cui nessuno ha mai saputo il nome di battesimo) si recano al ristorante giapponese? È una delle sequenze più esilaranti di tutta la cinematografia mondiale di ogni tempo. Fantozzi ha prenotato ormai da diversi anni due posti al famigerato Kioto, specialità nipponiche, e dopo una corte spietata e disperata, è finalmente riuscito a convincere la collega dell’ufficio sinistri ad andare a cena con lui. Nel locale nessuno parla italiano e l’unica lingua in cui si esprimono cuochi, camerieri, geishe, è il giapponese stretto della valle di Ishikari. Fantozzi, per far bella figura con la Silvani, finge di capire la lingua, ma va incontro a delle orrende figuracce, non ultima quella di far cucinare per errore “Pierugo”, il pechinese cui la Silvani è affezionatissima. Ma a parte tutto ciò, quello che più fa ridere, sono le regole ferree che vigono nel ristorante, prima tra tutte quella di non toccare assolutamente il cibo con le mani. I due poveretti, così come gli altri sventurati avventori, devono arrangiarsi con delle sottilissime bacchette di bambù, sotto la terrificante minaccia delle affilatissime katane dei samurai, dislocati opportunamente all’interno del locale. E per chi sgarra, zac…, via una mano. Ora dall’Impero del Sol Levante, giunge una nuova regola che, sebbene infinitamente meno cruenta, ci ricorda la tremenda severità che vige nella ristorazione giapponese. Sul Japan Today di qualche giorno fa la blogger Midori Yokoyama ha raccontato la sua esperienza all’Hachikyo, un ristorante di Sapporo specializzato in piatti di mare. E cos’è capitato alla bella Midori? È presto detto. La blogger si è seduta al tavolo e ha ordinato al cameriere la famosissima tsukko meshi, ovvero una ciotola di “ikura” (uova di salmone a pallini rosa e arancione), il piatto più prelibato del menù. Il cameriere ha appuntato sul notes l’ordinazione e un attimo prima di involarsi verso le cucine si è così rivolto a Midori: «Gentile signorina, sono tenuto a ricordarle la regola che vige in questo ristorante per chi ordina la tsukko meshi: è assolutamente obbligatorio finire tutto quello che c’è nel piatto, si trattasse anche di un solo chicco di riso». Midori a quel punto ha sentito correre un brivido lungo la schiena e con sguardo preoccupato ha chiesto il motivo di tale regola e l’eventuale conseguenza di una sua violazione. Al che il cameriere ha così proseguito: «É un segno di gratitudine nei confronti dei nostri pescatori, per le condizioni di lavoro dure e pericolose in cui si trovano ad operare». A quel punto Midori si è decisamente rasserenata, e sorridendo ha incalzato il cameriere: «E mi dica un po’, se non finisco tutta la ciottola, che mi succede?». E questi serissimo: «La pena per questa violazione è l’amputazione, seduta stante, dell’avambraccio destro. Che poi verrà opportunamente cucinato in agro-dolce e spacciato alla clientela come stinco di suino thailandese». Midori a quel punto era sul punto di svenire. Ma il cameriere, cui l’ironia non doveva certo mancare, ha svelato immediatamente lo scherzo: «Ovviamente non parlo sul serio…! Tutto ciò che le verrà richiesto è di lasciare una donazione». La blogger non specifica bene a chi andrà poi tale donazione: presumo che sia destinata a qualche associazione di pescatori.
La singolare notizia, rimbalzata sulle agenzie di stampa di tutto il mondo, mi ha fatto molto riflettere sul nostro modo di approcciarci col cibo. Qualche giorno fa uno studio condotto da Last Minute Market e Alma Mater Università di Bologna (dipartimento di Scienze e tecnologie agro-alimentari), insieme all’Istituto per la salute e la protezione dei consumatori del Joint Research Centre (servizio scientifico della Commissione europea) e il Karlsruhe fur Technologie, ha fotografato la mappa degli sprechi alimentari in Italia. I risultati, come direbbe Antonio Conte, sono “agghiaccianti”. Ogni settimana il 60 per cento degli italiani butta avanzi commestibili nella spazzatura. Uno spreco che in alcuni casi può arrivare anche a ottanta euro al mese. Dai questionari a cui sono stati sottoposti gli intervistati è emerso che nel 40 per cento dei casi la causa di tale spreco è riconducibile a una valutazione errata al momento degli acquisti al supermercato, vale a dire quando si compra più del necessario. Per un intervistato su cinque invece si tratta di cibo cucinato in abbondanza e avanzato, che non potrebbe più essere riutilizzato. Quasi un intervistato su due poi, non prende neanche lontanamente in considerazione l’ipotesi di regalare il cibo in eccesso ai bisognosi, di destinarlo agli animali domestici o di utilizzarlo come compost. Semplicemente lo si butta nella spazzatura. Stando agli ultimi dati, in Italia ogni anno si buttano in discarica un quintale e mezzo di cibo pro capite. E in Europa siamo anche tra i popoli più virtuosi: gli olandesi, ad esempio, gettano quasi sei quintali di cibo a testa. Secondo le stime della Fao, tale scempio nel 2011 è costato a ogni famiglia poco meno di 1.600 euro all’anno, vale a dire il 27 per cento dei 5.724 euro spesi annualmente per l’acquisto di beni alimentari.
Certo il modo di vivere rispetto a cinquant’anni fa è cambiato, il benessere ha giocato un ruolo importante in questa sciagurata abitudine di buttar via il “ben di Dio”. Un tempo si andava giornalmente con la sporta a far la spesa, si cucinava e si smaltiva tutto senza sprechi, anche perché non ce lo potevamo permettere. C’era un rapporto più umano con tutti, col salumiere, col macellaio, col panettiere. Era tutto sottocasa e non c’era bisogno di accumulare cibo. Anche perché, banalmente, l’assenza del frigorifero, impediva la facile conservazione dei cibi. Oggi invece si va al supermercato una o due volte a settimana, si fa a sportellate con gli altri clienti e si riempiono carrellate di alimenti. Di ogni genere, anche con scadenze a vent’anni. So di amici che hanno festeggiato l’estinzione del mutuo-casa aprendo scatolette di ravioli precotti acquistati due decenni prima. E in questo grande tripudio alimentare - salvo la crisi crescente ovviamente - è diventato del tutto normale scartare tutto ciò che non riusciamo a consumare. Qualche tempo fa, ho aiutato il mio amico Elio nel suo lavoro di monitore di scolaresche in gita. Da costui ho imparato molte cose, non ultima quella di aiutare i camerieri dei ristoranti impilando i piatti dopo aver consumato la portata. È un piccolo gesto di cortesia che viene sempre molto apprezzato. Ebbene Elio, quando accompagna le classi nei ristoranti dice sempre ai ragazzi: “Prendete solo quello che siete sicuri di mangiare”. I ragazzi inizialmente fanno finta di non sentire, oppure danno qualche lieve cenno di insofferenza. Ma poi capiscono il messaggio e si adeguano volentieri. È un bel modo di educare gli adulti di domani.
Ma tornando alla nostra ricerca, coloro che più si segnalano negativamente in fatto di spreco pare che siano i consumatori di cibi snack e carne rossa o pollame. I più virtuosi, viceversa, sarebbero i vegetariani. Dall’ultimo Rapporto Italia Eurispes emerge che un’alimentazione basata su carne rossa, inquina cinque volte di più di un’alimentazione vegetariana. La forbice va infatti da seicento chili di gas serra per le diete lacto-ovo-vegetariane (che prevedono dunque i derivati animali come uova, yogurt, latte e formaggi) a tremila per quelle a base di carne rossa ogni giorno. Nel mondo oggi, la maggior parte dei terreni coltivabili sono destinati a foraggio per gli animali da allevamento, mentre ottocento milioni di persone sono a rischio fame. Forse, senza star lì a fare scelte troppo drastiche in fatto di alimentazione e non solo, sarebbe il caso di darsi davvero una regolata. La carne una volta alla settimana (come facevano i nostri nonni), legumi, frutta di stagione, prodotti a chilometri zero, acqua del rubinetto. Pochi accorgimenti per salvare noi stessi e il nostro mondo. Che poi anche Carlin Petrini è più contento.

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