Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

sabato 30 novembre 2013

Riaprire i Navigli in centro

Leggo dal sito del Corriere della Sera (e me ne rallegro):

Un’unica via d’acqua dal lago Maggiore all’Adriatico e, poi, dal lago di Como all’Adriatico, con la riscoperta della darsena come porto di Milano. Un’unica pista ciclabile dall’Adda al Ticino al Po che attraversa il cuore della città. La realizzazione di un anello centrale per il teleriscaldamento e il riordino degli altri sottoservizi. La riduzione del traffico veicolare nel centro storico e la creazione di nuove zone a traffico limitato con il conseguente miglioramento delle condizioni dell’inquinamento dell’aria. Queste sono le principali opportunità che emergono dal progetto di fattibilità per la riapertura dei Navigli, realizzato dal Politecnico di Milano, sotto il coordinamento del professore Antonello Boatti, presentato in un incontro pubblico presso l’Umanitaria.
ESEMPI - Durante la presentazione sono stati illustrati tre esempi concreti di riapertura dei Navigli in via Melchiorre Gioia, via Francesco Sforza e via Conca del Naviglio. I progetti mostrano che i possibili problemi connessi a traffico, parcheggi e presenza delle stazioni delle metropolitana non solo potrebbero essere risolti ma migliorerebbero la vivibilità, l’attrattività turistica e la bellezza di Milano. Altri studi, ancora in corso, stanno mettendo in luce la sostenibilità idraulica, idrologica e idrogeologica del progetto e la sua utilità ai fini del miglioramento del sistema delle acque della città.
COMPLESSITA’ - «Il progetto presentato oggi, ancora in via di definizione, - ha dichiarato la vicesindaco con delega all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris - è molto interessante e affascinante. Ringraziamo il Politecnico e i numerosi professionisti per il prezioso lavoro svolto. Un lavoro che ha coinvolto anche tanti giovani ricercatori. Ora dobbiamo fare un ulteriore passo avanti nella progettazione e nella valutazione economica, per poi passare alla presentazione del progetto, avviando un percorso di discussione e riflessione con la città per valutarne le modalità reali di realizzazione. La complessità e l’importanza dell’intervento non possono essere gestiti frettolosamente, senza sottovalutare la necessità di reperire le risorse. Abbiamo segnato il punto di partenza, continueremo affinché il sogno pian piano possa diventare risorsa e nuova qualità per Milano».

Fonte: http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/13_novembre_30/riaprire-navigli-centro-un-sogno-non-irrealizzabile-44f550de-59c6-11e3-9117-a8a2b0420a9e.shtml

Giornata Nazionale della Colletta Alimentare 2013

«Quello che comanda oggi non è l’uomo, è il denaro, il denaro, i soldi comandano. E Dio nostro Padre ha dato il compito di custodire la terra non ai soldi, ma a noi: agli uomini e alle donne. Noi abbiamo questo compito! Invece uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo: è la “cultura dello scarto”. Se si rompe un computer è una tragedia, ma la povertà, i bisogni, i drammi di tante persone finiscono per entrare nella normalità. Se una notte di inverno, qui vicino in via Ottaviano, per esempio, muore una persona, quella non è notizia. Se in tante parti del mondo ci sono bambini che non hanno da mangiare, quella non è notizia, sembra normale. Non può essere così! Eppure queste cose entrano nella normalità: che alcune persone senza tetto muoiano di freddo per la strada non fa notizia. Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle Borse di alcune città, costituisce una tragedia. Uno che muore non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le Borse è una tragedia! Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti. Questa “cultura dello scarto” tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti. La vita umana, la persona non sono più sentite come valore primario da rispettare e tutelare, specie se è povera o disabile, se non serve ancora – come il nascituro –, o non serve più – come l’anziano. Questa cultura dello scarto ci ha resi insensibili anche agli sprechi e agli scarti alimentari, che sono ancora più deprecabili quando in ogni parte del mondo, purtroppo, molte persone e famiglie soffrono fame e malnutrizione. Una volta i nostri nonni erano molto attenti a non gettare nulla del cibo avanzato. Il consumismo ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo, al quale talvolta non siamo più in grado di dare il giusto valore, che va ben al di là dei meri parametri economici. Ricordiamo bene, però, che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla mensa di chi è povero, di chi ha fame! Invito tutti a riflettere sul problema della perdita e dello spreco del cibo per individuare vie e modi che, affrontando seriamente tale problematica, siano veicolo di solidarietà e di condivisione con i più bisognosi».
(Papa Francesco, Udienza Generale del 5 giugno 2013).

Banco Alimentare: http://www.bancoalimentare.it/colletta-alimentare-2013/comunicato-stampa

venerdì 29 novembre 2013

Fiume Sand Creek

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
fu un generale di vent’anni occhi turchini e giacca uguale
fu un generale di vent’anni figlio d’un temporale

C’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek.
 
I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
e quella musica distante diventò sempre più forte
chiusi gli occhi per tre volte mi ritrovai ancora lì
chiesi a mio nonno è solo un sogno mio nonno disse sì

A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek

Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso
il lampo in un orecchio nell’altro il paradiso
le lacrime più piccole le lacrime più grosse
quando l’albero della neve fiorì di stelle rosse

Ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek

Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte
c’erano solo cani e fumo e tende capovolte
tirai una freccia in cielo per farlo respirare
tirai una freccia al vento per farlo sanguinare

La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
fu un generale di vent’anni occhi turchini e giacca uguale
fu un generale di vent’anni figlio d’un temporale

Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek

(Fabrizio De Andrè, Fiume Sand Creek, 1981)

Leggo da Wikipedia:

Il massacro di Sand Creek (chiamato anche massacro di Chivington o battaglia di Sand Creek) si verificò negli Stati Uniti d’America durante le guerre contro i nativi il 29 novembre 1864, quando alcune truppe della milizia del Colorado, comandate dal colonnello John Chivington, attaccarono un villaggio di Cheyenne e Arapaho, massacrando donne e bambini. Il colonnello John Chivington e i suoi 800 uomini della Prima Cavalleria Colorado, della Terza Cavalleria Colorado e una compagnia di Primi Volontari del New Mexico marciarono verso gli accampamenti dei Nativi. La mattina del 29 novembre 1864, l’armata attaccò i villaggi e macellò i loro abitanti. In un convegno pubblico tenutosi a Denver tempo prima, Chivington dichiarò che bisognava uccidere e fare lo scalpo a tutti gli Indiani, perché «le uova di pidocchio fanno i pidocchi», sorte che toccò effettivamente a molti di loro. Nove soldati statunitensi furono uccisi e 38 feriti, mentre tra 150 e 184 Cheyenne furono dichiarati morti (fra questi anche i capi Antilope Bianca, Occhio Solo e Copricapo di Guerra), e la maggior parte delle vittime erano donne, bambini e anziani. Come viene ricordato nei verbali dal tenente James Connor (l’unico dei soldati insieme al capitano Silas Soule e al tenente Joseph Cramer a tentare di opporsi all’attacco), moltissime delle vittime furono orrendamente mutilate. Dopo questi eventi, molti Nativi raggiunsero i Dog Soldiers, la grande confraternita di guerrieri Cheyenne, e massacrarono i residenti attraverso tutta la Platte Valley, uccidendo più di 200 civili. Quest’area è oggi protetta dal National Park Service nel Sand Creek Massacre National Historic Site.

Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_Sand_Creek

giovedì 28 novembre 2013

Altra via per Assisi

Valfabbrica - Assisi: 16 chilometri.

Si devono percorrere circa 16 chilometri in tutto. Si consiglia di partire di prima mattina per giungere ad Assisi verso mezzogiorno. Così resta  il giusto tempo sia per raccogliersi nella Cripta dentro alla Basilica, sia per godersi la bella cittadina nella pace e nella serenità che da ogni angolo traspira di essenzialità francescana.
Si lascia Valfabbrica,  seguendo le indicazioni per San Nicolò, la strada asfaltata viene lasciata a Pioppo prendendo a dx un sentiero ombroso in salita che costeggia un fosso, giunti in vetta si intravede già da lontano Assisi, si sorpassa il cimitero e al bivio si prosegue sulla dx. (Svoltando a sx per una visita alla bella Pieve di San Nicolò). Si continua in leggera discesa fino al bivio prendendo a sx il sentiero ondulato, che porta verso a Torre Zampa. Si continua scendendo verso il Ponte Santa Croce, si attraversa il Ponte dei Galli e si sale verso alla Porta San Giacomo per entrare in Assisi e poi finalmente la strada spiana e velocemente scende in direzione della grande Basilica Papale ove ci attende Francesco.

Tempo di percorrenza: 4,30 - 5,00 ore. Ho percorso questo tragitto nel 2009, e posso dire senza ombra di dubbio che è fantastico. Occorre capire come arrivare all'attacco: c'è un bus che collega Perugia a Valfabbrica, ma dagli orari che ho visto ce n'è uno alle 6.40 (orario disumano direi...) e un'altro alle 11.40 (con arrivo alle 12,20). Per arrivare ad Assisi ci vogliono circa 4 ore di cammino. Per il ritorno a Perugia c'è il treno.

Fonte: http://www.camminodiassisi.it/valfabbrica-assisi.html

Cammini d’Europa - La Via di San Francesco in Umbria

Perugia - Assisi (Km.25)

Si parte da piazza IV Novembre e si raggiunge piazza Danti. Seguendo i segnali, si continua su piazza Piccinnino e poi in discesa attraverso via Bontempi, una delle più importanti vie del centro storico. Passato l’arco dei Gigli si gira a destra su piazza del Duca e si scende prendendo le scalette sotto l’arco. Si prosegue in discesa sulla sinistra su via dell’Asilo e si continua su via E. Dal Pozzo. Raggiunta via del Giochetto, si prosegue dritto e si supera l’imponente chiesa templare di San Bevignate, sulla destra. Giunti di fronte alla chiesa di Monterone e all’ingresso del cimitero nuovo, si prosegue a destra su strada Montevile. Bisogna fare attenzione al passaggio dei veicoli. Raggiunto il segnale, si gira a destra su strada Montevile – Via di Valiano (km 2,5). Al termine della discesa si prosegue a sinistra. Dopo un primo tratto senza marciapiede, il cammino continua su sede protetta. Si raggiunge Ponte San Giovanni e si prosegue a destra su via Pieve di Campo (km 6): accanto alla chiesa parrocchiale è stato realizzato un piccolo ostello per i pellegrini. Superato il sottopassaggio ferroviario, all’incrocio con via Manzoni si volta a sinistra in direzione di via Nino Bixio. Si giunge ad una rotatoria, dove si prosegue sempre dritto. Raggiunta una seconda rotatoria (km 7) si gira a destra per attraversare il Ponte Vecchio. Al termine del ponte, si scende a sinistra per raggiungere l’argine del fiume Tevere. Si cammina lungo il percorso verde del Tevere. Si prosegue fino al segnale che indica di salire a destra in direzione della Superstrada E45. Si cammina su strada sterrata al di sotto dell’autostrada, per poi passare sotto il cavalcavia autostradale. Si prosegue su una strada sterrata, facendo attenzione ai lavori in corso. Raggiunta la strada asfaltata si attraversa una zona residenziale. Si prosegue seguendo la segnaletica sulla strada Sant’Egidio, e poi su strada vicinale Palombaio (km 12,1). All’incrocio si gira a sinistra su via dell’aeroporto, e si prosegue per circa duecento metri,all’altezza di un’edicola in memoria del passaggio di San Francesco, si gira a destra su via Andrea Costa. Giunti all’incrocio si volta a destra su via Enrico Mattei e si attraversa la frazione di Bastiola. Giunti alla rotatoria si prosegue dritto su via San Bartolo e si attraversa la periferia di Bastia Umbra. Superato il sottopassaggio ferroviario si raggiunge il parco XXI Aprile, al quale si accede seguendo il segnale. Superato il ponte pedonale sul fiume Chiascio (km 18,6), si raggiunge nuovamente la strada asfaltata e quindi la piazza Giuseppe Mazzini (km 19,6). Si attraversa la piazza, facendo attenzione al segnale, che indica di voltare a sinistra su via Roma. Si cammina in un’area densamente abitata tra negozi e palazzi. Si prosegue sempre dritto su via Los Angeles e si entra a Santa Maria degli Angeli. Si supera una prima rotatoria, e giunti ad una seconda rotatoria, sulla sinistra appare la Basilica Papale di Santa Maria degli Angeli (km 22,4), al cui interno si conserva la piccola chiesa della Porziuncola. Una sosta è d’obbligo, per visitare i luoghi dove è ancora viva la presenza del Poverello d’Assisi e dell’Ordine dei Frati Minori. Dalla basilica si prende la strada mattonata. Si tratta di uno dei tratti più antichi della Via di Francesco. Da qui ci appare in tutta la sua bellezza la meta: la Basilica di San Francesco. Si segue sempre la strada mattonata e, dopo una scalinata, voltando a sinistra si raggiunge la Porta San Pietro (km 24,8) e Assisi. Attraversata la piazza si giunge alla Basilica di San Francesco, dove il cammino trova il suo compimento davanti alla Tomba di San Francesco (km 25,2).

Fonte: http://www.viadifrancesco.it/percorsi/da-perugia-ad-assisi/

lunedì 25 novembre 2013

Proposte per Capodanno

Umbria

L’idea sarebbe quella di prendere alloggio all’Ostello di Perugia e da qui muoversi (in auto o in treno) alla scoperta di Assisi, Spello, Spoleto, Foligno, Gubbio e quant’altro possa venire in mente. Oltre a visitare città d’arte è possibile anche compiere dei brevi trekking lungo il “Cammino Francescano” che, seguendo la direttrice nord-sud, arriva ad Assisi. L’ostello da quel che si vede sul sito, è molto bello e dispone di stanze da due, tre, quattro posti (con bagno in camera). E poi ci sono le camerate. Con venti euro, pernotto e colazione. Volendo si può anche cenare in loco (10,50 euro). La struttura si trova fuori dal centro storico, ma con una camminata di 15’ lo si raggiunge comodamente. Inoltre, a due passi, c’è la metro-tramvia, oltreché la stazione ferroviaria. Per la notte di Capodanno, l’organizzazione ha previsto un cenone nell’ampio salone da pranzo: costo 40 euro.
Ostello: http://www.perugiahostel.com/ostello_perugia_home.html

Costiera Amalfitana

L’idea è sorta sabato scorso, seduti intorno ad una tavolata della trattoria “Alla vecchia maniera”, sul Naviglio Grande (di Milano, ovviamente). Si pensava, anche in questo caso, di appoggiarsi agli ostelli locali. Pare che ci ne sia uno a Cava dei Tirreni (molto bello, parola di Robertino sentito telefonicamente ieri sera) ed un altro ad Agerola. Anche qui, la proposta è decisamente allettante. La Penisola Sorrentina è uno dei luoghi più belli che abbia mai visto e si presta a molteplici iniziative: trekking (il Sentiero degli Dei, e non solo…), visite ai meravigliosi paesini sul mare (Amalfi, Positano, Posillipo, Maiori, Minori etc…), escursione sulle Isole di Procida, Capri, Ischia. In zona tra l’altro ci sono i siti archeologici più conosciuti del mondo: Pompei, Ercolano, Paestum. Se si decide per questa destinazione occorre farlo alla svelta: è necessario prenotare i posti in ostello e soprattutto i biglietti per il treno con un buon anticipo per usufruire di uno sconto consistente.

Minturno e il Circeo

Anche questa proposta è venuta fuori un po’ per caso sabato pomeriggio. Sorseggiando un caffè di fronte alla Basilica di Sant’Ambrogio, Salvatore ci raccontava delle sue molteplici peripezie in giro per l’Italia. Fino a poco tempo fa egli è stato impegnato in un corso di vela (che ahimè, non ha mai preso il mare…) in località Minturno. L’alloggio che egli aveva in affitto è ampio e dispone di 6-7 posti comodi. Più altri di ripiego…! Salvo è rimasto in ottimi rapporti con il padrone di casa, e si potrebbe pensare di trascorrere in zona 4-5 giorni. Minturno si trova sul mare ed è situata a pochi chilometri da autentiche meraviglie come Gaeta, il Circeo, i Monti Aurunci, Formia. Da Formia tra l’altro è possibile imbarcarsi per le Isole Pontine (Ponza, Ventotene, Zannone, Palmarola). Ventotene è una perla di inaudita bellezza.

Altre proposte

Capodanno sulla neve ad Asiago, con Jonas: http://www.jonas.it/asiago_sci_fondo_225.html

Capodanno a Berlino (proposta di Elena da Busto Arsizio)

Capodanno a San Pellegrino in Alpe (Casa Alpina “Il Pradaccio”). Ormai divenuto un must.

Se ci sono altre idee, lanciatele pure sul tavolo da gioco: nunc est bibendum.

venerdì 22 novembre 2013

La conoscenza un tanto al chilo

L’altro giorno discutevo di alta finanza con alcuni colleghi. Quando degli incompetenti discutono di argomenti e tematiche per sentito dire si tratta sempre di “alta finanza”. Per la verità si parlava anche di economia spiccia, dell’euro che ci ha “fottuti clamorosamente”, delle tasse che “ci stanno strangolando”, dell’evasione fiscale e quant’altro. Argomenti di una serietà agghiacciante, portati avanti con una sicumera che non ammetteva replica. Che uno potrebbe anche pensare: “Ma a cosa ci servono i vari Brunetta e compagnia cantante, avendo a disposizione cotanti preclari economisti?”. Devo essere sincero, sono riuscito a seguire e ad argomentare fino ad un certo punto, poi vuoi per la pesantezza della materia, vuoi perché su alcuni campi ero completamente al buio, mi sono lasciato scivolare sempre più nel mutismo rassegnato. Su di un paio di punti tuttavia mi sono impuntato. Il primo: “Agli immigrati vengono corrisposti 70 euro al giorno. Ora ditemi voi che interesse avrebbe a lavorare un tale che arriva qui in Italia e si trova tutti sti quattrini in saccoccia senza fare un beneamato c…”. Sentendo queste parole mi sono riavuto all’improvviso, come folgorato da una saetta: “Eh…! Possibile?”. E così, non avendo mai udito nulla di tutto ciò, ho cercato di capire che fonte avesse una tale notizia. Risposte vaghe, generiche, tendenti all’irrisione come a dire: “Ma sveglia…, come fai a non sapere una cosa così risaputa”. Al che ho provato a ragionare: “Forse voi intendete dire che i rifugiati di guerra e coloro che vengono accolti per ragioni umanitarie ricevono degli aiuti da parte dello Stato; ma in tal caso sono denari che vanno alle organizzazioni che garantiscono loro vitto e alloggio…”. La risposta, se possibile, è stata ancora più piccata e virulenta: “Nooo, tutti quelli che arrivano in Italia…”. A quel punto, non avendo contezza della materia, mi sono limitato a ribattere che mi sarei informato. Il secondo punto è stato ancora più fomite di polemiche: “Gli immigrati che aprono un’attività in Italia, per tre anni non pagano tasse”. Anche qui buoi totale: “Ma dove l’avete sentita quest’altra storia? A me non risulta”. Peggio che andar di notte: “Ma stai scherzando, guardati in giro: allora, secondo te, perché stanno spuntando kebab e negozi di parrucchiere cinesi come funghi? Perché non pagano un cazzo. E poi, scaduti i tre anni, chiudono bottega e riaprono con altro nome”. E per avallare tale tesi, ecco pronta per l’abbisogna la vicenda dell’amico rumeno che apre una pizzeria e non paga tasse. Anche qui, mi sono limitato a rispondere che mi sarei informato più approfonditamente. Morale: la storia dei 70 euro al giorno è una bufala colossale: trattasi in realtà di un volantino “bufala” messo in giro non si sa chi su Facebook: «Un cittadino extracomunitario sposato con quattro figli, arriva a percepire dalla Provincia Autonoma di Trento: 1.918 euro al mese più 1.350 euro una tantum. Tutto questo senza lavorare!». Ovviamente le cose stanno diversamente: il volantino mescola diversi contributi che non hanno come destinatari “gli extracomunitari” in quanto tali, ma qualsiasi famiglia che abbia i requisiti richiesti, che variano per ogni contributo, rendendo altamente improbabile che in capo a una sola famiglia possano andarsi a concentrarne tanti, che nel volantino sono calcolati sempre al valore massimo (es. per accedere al reddito di garanzia servono tre anni di residenza e il contributo dura solo quattro mesi, oltre ad essere condizionato alla perdita del lavoro per cause a lui non imputabili di un membro della famiglia). E stiamo parlando della Provincia Autonoma di Trento, non dell’Italia intera. Quanto al secondo argomento, ovvero l’esenzione tributaria triennale (rinnovabile) per gli stranieri che aprono un’impresa in Italia, be’ qui siamo al ridicolo. Nel senso che, parlandone con un’amica commercialista, le è scappata fuori una risata incontrollata. Qui in Italia si paga tutto e tutti pagano alla stessa maniera. Ed anzi, sono altri stati come la Cina che propongono queste agevolazioni agli imprenditori italiani (e non) affinché aprano attività commerciali nel loro paese.
Come si vede, basta davvero poco per pilotare le masse: una notizia che prende un po’ di verità, le mescola con delle menzogne sesquipedali, ed il piatto è pronto. Oggigiorno viviamo in un mondo dove è facilissimo reperire informazioni, ma allo stesso tempo siamo lasciati alla mercé di chi la spara più grossa. Anche perché, nei momenti drammatici, è assai comodo credere a notizie che mettono all’indice il nemico comune da abbattere: “l’extracomunitario arriva in Italia, delinque, vive a nostre spese e non paga le tasse”. Fantastico. Ecco pronto un bel bersaglio sul quale scaricare tutte le nostre misere frustrazioni. Fa niente che poi il dieci per cento del nostro Pil (ovvero la nostra ricchezza nazionale) è riconducibile alle attività degli stranieri (che pagano le tasse): sono tutti farabutti e mangiapane a tradimento.
Ieri sull’Ansa è comparsa una notizia interessante: secondo Adrian Ward, docente di psicologia della University of Colorado a Boulder, il “cervello umano non è più usato come memoria per immagazzinare conoscenze per le quali ci si affida alla rete; inoltre si fa meno riferimento agli altri per informarsi di qualcosa e si ha la presunzione di sapere tante cose, solo perché quando ci serve un’informazione la cerchiamo in un click su Google o su Wikipedia”. Da ciò ne deriverebbe “un’autoreferenzialità tale che per sapere qualcosa non chiediamo più agli altri”. In altre parole ci informiamo da noi senza più alcun filtro che garantisca l’attendibilità e la qualità dell’informazione. E al contempo tendiamo a divenire “saccenti perché essere sempre connessi cambia il senso soggettivo di sé, e i confini tra i ricordi personali e informazione accessibile online si confondono sempre di più”. Come giustamente sottolinea Ward, per millenni gli esseri umani si sono tramandati ricordi e conoscenze gli uni gli altri, di generazione in generazione, e la parola di un esperto (l’ipse dixit) diveniva patrimonio comune della collettività perché aveva un riscontro oggettivamente buono ed efficace. Oggi invece basta collegarsi ad un motore di ricerca ed ecco milioni d’informazioni alle quali abbeverarsi: una quantità talmente esagerata di conoscenza (garantita da chi???) che vien voglia di fermarsi alla prima mezza paginetta e chiudere tutto. «Questo – continua Ward – ha potenziali effetti negativi: può portare a un eccesso di sicurezza perché l’autostima cognitiva (cioè quel che presumiamo di sapere) viene artificialmente aumentata in modo distorto dall’accessibilità continua a internet. Ma un eccesso di autostima può portarci a scelte sbagliate: se crediamo di sapere qualcosa perché magari l’abbiamo vista online – spiega Ward – difficilmente approfondiremo l’argomento e finiremo per prendere decisioni non fondate su conoscenze certe». Un tempo le nostre nonne dicevano “se l’ha detto la televisione, vuol dire che è vero”. E ne ridevamo. Ora invece l’ha detto internet, e se tu non lo sai sei un allocco. Cambiano i fattori, ma il risultato è lo stesso.

Fonte: http://www.ansa.it/saluteebenessere/notizie/rubriche/stilidivita/2013/11/21/Cosi-internet-sta-cambiando-cervello-comportamenti-umani_9658940.html
http://www.giornalettismo.com/archives/1165109/lultima-bufala-sui-soldi-regalati-agli-immigrati/

giovedì 21 novembre 2013

Il ritorno del lupo

Il lupo pare che stia tornando sempre più prepotentemente in Abruzzo. Durante il nostro giro in bicicletta di quest’estate siamo stati in questa meravigliosa regione e abbiamo attraversato il Gran Sasso e la Majella. Nella tappa che ci ha portati da Sulmona a Roccamorice, siamo passati anche da Caramanico Terme (splendido paesino montagnoso nel cuore della Majella) dove dal 6 all8 novembre si è tenuto lInternational Wolf Congress. Ecco un bellarticolo pubblicato sul sito del Corriere della Sera qualche giorno fa. Che Iddio salvi il lupo... ora e sempre...! 

Negli anni Settanta i lupi che popolavano gli Appennini erano meno di cento. Talmente pochi da essere considerati a rischio di estinzione. Oggi, secondo stime ufficiali, sono più di mille. Solo in Abruzzo, nei 75 mila ettari di area protetta, vivono oggi una decina di branchi per un totale di circa 80 individui. «Un numero che, in proporzione al territorio, è superiore a quello del parco di Yellowstone», commenta Franco Iezzi, presidente del Parco nazionale della Majella. LE RAGIONI DEL SUCCESSO – Questo risultato nasce da diversi fattori. «Come prima cosa le leggi che hanno reso il lupo una specie protetta, poi l’abbandono da parte degli uomini delle aree montuose, il rimboschimento e l’aumento degli ungulati come i cinghiali di cui questi animali si cibano», spiega Andrea Gazzola, dottore di ricerca in biologia ambientale. Grazie a tutti questi elementi e all’attività continua dei ricercatori, i lupi sono tornati a colonizzare le aree montane del nostro Paese. «A differenza degli orsi e delle linci, infatti, tendono a staccarsi dal territorio di appartenenza per andare in cerca di nuovi spazi e compagni», continua Gazzola. «Questo spiega la loro veloce espansione in Italia: nel 2007 hanno raggiunto la Valle d’Aosta e poi si sono spinti anche oltreconfine fino ai Pirenei e in Germania».
Continua a leggere: http://www.corriere.it/ambiente/13_novembre_11/i-lupi-ora-sono-piu-mille-ma-sempre-rischio-f3d21766-4adc-11e3-bfcf-202576418f24.shtml

mercoledì 20 novembre 2013

La rimpatriata

Ieri sera ci siamo trovati in un locale molto accogliente e raffinato in zona Porta Venezia (naturalmente a Milano). Intorno ad un tavolo sontuosamente apparecchiato (c’era perfino il candelabro) abbiamo consumato il cosiddetto “apericena”, che è quel particolarissimo appuntamento mondano che non è né un aperitivo - un tempo consistente in un semplice analcolico (o al massimo un prosecchino) accompagnato da sue salatini - né una cena. Ora l’apericena si svolge così: si ordina del vino rosso (costosissimo tra l’altro: 30 euro alla bottiglia) e conversando amabilmente lo si sorseggia abbuffandosi di salumi e insaccati vari, formaggi di assai dubbia provenienza e qualche verdurina incolore. Ovvero come fare il pieno di trigliceridi e colesterolo spendendo anche una cifra infame per un povero disgraziato. Tra l’altro in questo locale le sedute erano molto scomode, e quindi assolutamente sconsigliate, per esempio, ad un prostatico. Ebbene, durante questa apericena abbiamo discusso di tante cose, ed il più loquace di tutti è stato Enrico. Una novità? Non direi. Tra l’altro il nostro caro amico è tornato l’altro ieri dal deserto sahariano, dove è stato per oltre un mese per lavoro. Unico italiano, in mezzo a centinaia di egiziani: sfido io che avesse voglia di parlare…! E così, tra una chiacchiera e l’altra (a proposito… si è discusso anche del prossimo Capodanno: Umbria; ciaspolata in Val Maira; San Pellegrino in Alpe-Appennino Tosco Emiliano etc…) si è pensato di festeggiare il ritorno di Salvo (dopo lunghissima permanenza capitolina - che detta così sembra “la cattività avignonese…), con un ritrovo a Milano sabato mattina. Appuntamento in Piazza Duomo alle 11 e lunga passeggiata verso i Navigli. Qui (essendosi fatta una certa…) daremo vita ad un altro di quei momenti mondani che caratterizzano l’urbe meneghina: il “brunch”. Ovvero come scrisse Laura tempo fa, “quella sorta di aperitivo mattutino che per forza di cose, nella Milano pullulante di brunchers, ha i minuti contati e deve concludersi prima che inizi il turno successivo”. Ecco magari non essendo giorno lavorativo, non sarà proprio un brunch, ma piuttosto un pranzo come si conviene per una piacevole rimpatriata: sui Navigli, come raccontava il compianto Piero Mazzarella, ci sono fior di osterie che si prestano alla bisogna. Che uno potrebbe pure dire, «ma scusa, perché non scrivi direttamente “pranzo”?». E bravi: vi pare che mi lasci sfuggire l’occasione di usare la parola brunch? In una città moderna, veloce, proiettata verso il futuro e alla moda, occorre adeguarsi: sennò si è tagliati fuori…! Intorno alla tavola ci racconteremo le nostre vite, fin dove eravamo arrivati la volta scorsa. E programmeremo il futuro condiviso. Siete tutti invitati.

lunedì 18 novembre 2013

La festa del rugby

Anni fa, quando ha cominciato ad affacciarsi sulla scena mediatica il fenomeno “rugby”, rimasi piuttosto scettico e diffidente: da buon amante del calcio non mi entusiasmava questo gioco apparentemente confuso, fatto di mischie furibonde ed energumeni che correvano dietro una palla incomprensibilmente ovale, anziché sferica. Le regole tra l’altro mi sembravano talmente complicate che mi era assai difficile, se non impossibile, seguire il filo logico della partita. Ed anche la terminologia usata dai telecronisti (ruck, touche, drop, up and under, grubber etc…) aveva un che di misterioso e insondabile. Per non parlare delle penalità (assolutamente inintelligibile) segnalate sovente dagli arbitri durante le azioni, e tali che mi facevano sbottare a ripetizione: “E adesso cosa caspita ha fischiato quel citrullo…?”. Col tempo tuttavia, ed anche grazie all’opera di convincimento messa in atto da mio padre, ho cominciato ad appassionarmi a questa disciplina. Ed insieme al piacere che mano a mano cresceva, anche l’arcano che circondava questo universo un tempo sconosciuto, ha cominciato a dipanarsi. Ora non posso certo dire di conoscere approfonditamente tutte le regole che sovrintendono a questo gioco (anche perché sono veramente tantissime e difficilissime da spiegare), ma quando guardo una partita posso apprezzarla sotto ogni punto di vista.
Tempo fa un giornalista americano coniò un aforisma per definire il rugby: “Il rugby è un gioco bestiale giocato da gentiluomini”. E a tale definizione aggiunse anche altre due pensieri paralleli: “Il calcio è uno sport da gentiluomini giocato da bestie; il football americano è uno sport bestiale giocato da bestie”. In effetti, guardando una partita di rugby, la prima cosa che salta all’occhio è la violenza: si tratta a tutti gli effetti di una battaglia giocata corpo a corpo tra uomini grandi, grossi e “cattivi”. Una sorta di arena moderna, in cui i novelli gladiatori si inseguono, si scontrano, si afferrano e si trascinano a terra, nell’intento di impossessarsi della palla e di portarla oltre la linea di meta degli avversari. Detta così sembra davvero una guerra senza regole. E invece le regole, come detto, ci sono e sono rispettate alla lettera. E sì perché, a differenza di ciò che avviene sui campi di calcio, qui le regole e l’arbitro sono sacri, ed anche quando non si è d’accordo con una decisione, la si rispetta senza fiatare. Nel mondo del rugby, proprio perché l’uso della forza (e della violenza) fisica è l’elemento predominante, è assolutamente indispensabile rispettare le regole. Diversamente sì sarebbe una guerra a tutti gli effetti. Ecco perché i giocatori, prima ancora di essere buoni atleti, devono essere gentiluomini. Sabato scorso ero di servizio con la C.R.I. allo stadio “Zini” di Cremona per il cosiddetto “Test match” Italia - Isole Fiji. Se dovessi dare una definizione a ciò che ho visto, l’espressione più veritiera che mi verrebbe in mente sarebbe questa: “Una grande festa di popolo”. Chi è stato negli stadi di calcio conosce l’atmosfera che si respira sulle tribune e ancor più sulle curve: un vero inferno fatto di urli, strepiti, insulti agli avversari, minacce, violenza fine a se stessa. Il che va anche bene, per carità: in un mondo dove la violenza - che pure fa parte dell’indole umana - è stata dichiarata fuorilegge a prescindere, questo può essere l’ambiente adatto per fungere da valvola di sfogo. Sempre che la violenza rimanga contenuta entro certi limiti. Di certo tuttavia lo stadio del calcio non è luogo tra i più idonei per passare un sereno pomeriggio con prole al seguito. Ecco, lo stadio del rugby invece, è tutt’altra cosa. Gli amanti di questo sport, al pari dei loro beniamini in campo, sono per natura gentiluomini portati al rispetto delle regole. Il che non vuol dire che il tifo sia meno sentito ed intenso rispetto ad altri sport: prima dell’inizio della partita, ad esempio, c’è stata l’esecuzione dell’inno nazionale di entrambe le squadre. Quello italiano è stato cantato in coro da tutti e 14mila gli spettatori… ed è stato un momento estremamente toccante. Anche se, a dirla tutta, quando si è arrivati al verso “siam pronti alla morte” il coro si è un po’ smorzato. D’altra parte si sa, siam pur sempre italiani: noi al massimo siamo per il “stringiamoci a coorte”, ma “pronti alla morte” direi di no. Quando è stata la volta invece dell’inno fijiano, si è fatto un silenzio totale, quasi religioso: segno di un rispetto completo dell’avversario. Il che può essere anche comportamento di maniera, non lo escludo - l’emulazione è pur sempre una dinamica da non sottovalutare - , ma è comunque estremamente apprezzabile in un momento storico come questo. Per la cronaca, venerdì scorso a “San Siro” si è svolta la partita amichevole di calcio Italia - Germania. Quando la banda ha suonato l’inno tedesco, dagli spalti sono partiti fischi e schiamazzi che hanno disonorato in maniera vergognosa l’intera tifoseria italiana.
Ad ogni modo, la partita di Cremona si è svolta in un clima assai festoso e sugli spalti, accompagnati dai genitori, c’erano tantissimi bambini. Il che la dice lunga sull’ambiente del rugby. L’Italia ha vinto 37 a 31, ed è stato bello vedere Parisse, Castrogiovanni, Orchera, Mauro Bergamasco e tutti gli altri sfilare sotto le tribune per il saluto vittorioso. Per tutta la partita è stata accanto a me una collega che nulla sapeva del rugby. Per capirne qualcosa chiedeva un po’ a tutti, e là dove le spiegazioni non la convincevano, si rivolgeva ad altro interlocutore. A metà partita era già diventata una delle tifose più accese che stadio ricordi. A lungo mi sono finto un perfetto incompetente per non essere disturbato. Tanto che, ad un certo punto, costei pensava anche di potermi dare spiegazioni sulle varie azioni di gioco. Mi è bastato una banalissima domanda per metterla a posto: “Ma scusa, se il gol (sic) è in mezzo ai pali, perché tirano la palla a posta fuori dal campo?”. Il che, per un esperto sarebbe assai semplice da capire (si tratta infatti di un semplice calcio di spostamento). È partita in tromba dicendo “è perché…, è perché così… Boh: non lo so”. Ecco, appunto: il rugby è una cosa seria…!

domenica 17 novembre 2013

Il ritorno di Salvo

Amici,
Finalmente abbiamo la conferma ufficiale: il nostro caro Salvo salirà al nord martedì o mercoledì p.v. Indi per cui, tenetevi liberi per il prossimo fine settimana che si organizza qualcosa in suo onore. Dal brunch milanese all’escursione in Valtellina (Val di Mello, per la precisione) tutto è possibile.
A presto.

Eh si, mi farebbe piacere scendere nel “mè Milan” (nel senso di fede rossonera perché pur abitandovi e amandola io non vi nacqui) a riveder la Madunina e continuare la tradizione del brunch, magari sui Navigli, in una domenica di sole quando il cielo è azzurro… Senza escludere, per chi volesse respirare l’aria della Valtellina, una camminatella tra gli asfodeli (?) giusto per preparare il palato a un piatto di polenta taragna & costine innaffiato da una generosa caraffa di vin rosso del Sassella... Volendo ci si arriva anche in treno, insomma se pò fà anche in giornata. Comunque sia mando un saluto a tutti, e un grazie a Luigi per la proposta! (Salvo).

(*) Asphodelus L., 1753 è un genere di piante della famiglia Liliaceae che comprende diverse specie erbacee, note genericamente con il nome volgare di asfodelo. Il nome deriva dal greco ἀσφόδελος (asphódelos). Gli asfodeli amano i prati soleggiati e sono invadenti nei terreni soggetti a pascolo eccessivo, perché le loro foglie appuntite vengono risparmiate dal bestiame (n.d.r.).

venerdì 15 novembre 2013

Reddito di cittadinanza

Molti dei mali delle attuali società capitalistiche e comuniste scompariranno con l’introduzione di un reddito minimo annuo garantito. Il nocciolo di quest’idea è che tutte le persone, che lavorino o meno, devono godere dell’incondizionato diritto a non morire di fame e ad avere un ricovero. Non dovranno ricevere più di quanto sia indispensabile per mantenersi, ma non dovranno neppure ricevere di meno. È un diritto che risponde a una concezione nuova oggi, benché si tratti di una antichissima norma di cui si è fatto paladino il cristianesimo, e che era messa in pratica in molte tribù «primitive», quello secondo cui gli esseri umani hanno un «incondizionato diritto a vivere, indipendentemente dal fatto che compiano o meno il loro “dovere verso la società”». È un diritto che concediamo ai nostri animali domestici, non però ai nostri simili. Una prescrizione del genere avrà per effetto di dilatare enormemente l’ambito della libertà personale; nessuno che sia economicamente dipendente da altri (da un genitore, da un marito, da un capo) sarebbe più sottoposto al ricatto di venir lasciato morire di fame; individui dotati, che vogliono cominciare una nuova vita, potrebbero farlo a patto che siano disposti a sobbarcarsi al sacrificio di vivere, per un certo periodo, in relativa povertà. I moderni stati assistenziali hanno quasi accettato questo principio: dove quel “quasi” significa “non effettivamente” : infatti, una burocrazia continua ad “amministrare” la popolazione, controllandola e umiliandola. Invece, per avere il reddito minimo garantito non occorrerebbe che nessuno fornisca la “prova” di trovarsi in condizioni di indigenza per ottenere una semplice stanza e un po’ di cibo; sicché, non sarebbe necessaria alcuna burocrazia che amministri un programma assistenziale con gli sprechi e le violazioni della dignità umana che gli ineriscono.
(Erich Fromm, Avere o essere 1976).

giovedì 14 novembre 2013

Quando c’è la salute…

«Uhé, farabutto…!»
«Ciao, come va? Sei stato poi a Mantova?»
«Si, toccata e fuga: la mostra non è un granché…! Stai ancora lavorando?»
«Adesso non lavoro, forse inizio in gennaio»
«Ma lascia stare… si sta così bene nella completa nullafacenza (sic)»
«Già, l’ozio nutre lo spirito!»
«La prostata come va?»
«Ormai per sicurezza cammino con il pitale in mano»
«Si, fai bene. Anch’io ormai faccio conto di pisciare due o tre volte agli angoli della strada e nei giardinetti pubblici. A proposito, senti questa: ieri pomeriggio ho fatto un’ecografia all’addome inferiore per quel problemino di cui ti parlavo. Prima dell’esame, sono passato ovviamente alla cassa. Be’, lo sai che ti dico? Ho pagato 41,7 euro…! Con il Servizio Sanitario Nazionale. E se fossi andato privatamente avrei pagato 80 euro… Ma io mi domando e dico: dove sta so servizio sanitario gratuito e pubblico? E Crema è una realtà d’eccellenza, l’esame me l’hanno fissato in tempi più che ragionevoli… Pensa se avessi dovuto aspettare pure mesi… Paghi, aspetti e intanto magari schiatti… Ora mi chiedo: ma un povero disgraziato che non arriva alla fine del mese, come caspita fa a curarsi? Se non avessi avuto la possibilità, col piffero che facevo st’esame…, men che meno privatamente. Siamo arrivati alla jungla selvaggia… Allora tanto vale mandare tutto a quel paese e tirare giù la maschera: oggi si salva (o può tentare di salvarsi...) solo chi ha i soldi. Per tutti gli altri non c’è che sperare nell’Altissimo…»
«Hai detto bene: un poveraccio in Italia morirebbe, e infatti molte persone che non possono curarsi neppure con la Sanità Nazionale crepano come mosche!»
«Senti, ma è vero che Strade Blu se la passa male? Ti hanno contattato per i corsi di quest’estate?»
«Forse è stata causa mia. Dovevo andare a Ferragosto, ma ho rinunciato un mese prima. Immagino la disperazione e delusione dei miei fans: ho saputo di donne vegane diventate cannibali dalla rabbia»
«O cavolo…, dispiace. A proposito di cannibali… l’altra sera ho giocato a poker con tre di loro: mi è andata bene, ho perso solo una mano…!»
«Un’altra battuta così e mi suicido col Glen Grant…»
«Sei già andato a bere il caffè al bar? Col cane al guinzaglio?»
«Si certo: col sacchettino della cacca in tasca»
«Qualche giorno passo a trovarti. Prendo il treno a Lodi e in un’oretta solo a Mantova. Così il sacchetto lo tengo io».
«Dai, ci facciamo una bella bevuta di Lambrusco in qualche fetida osteria».
«Quando vuoi…»
«Potremmo incontrarci anche a metà strada, che so, Cremona»
«Ecco, questa sarebbe ancora meglio: bravo»
«Ok, trova una bella osteria, buona abbondante ed economica»
«Verresti in treno?»
«Si preferirei, e col cane»
«Bene, ottimo»
«Te lo presento, è più simpatico di me»
«E se poi lo tengono fuori dall’osteria?»
«Di solito riesco a entrare, ma può capitare. Ad ogni modo non posso lasciarlo a casa. Comunque è più facile che lascino fuori te»
«Si, senza dubbio…»
«Disturbi sicuramente di più e poi sporchi»
«Oltre ad essere incontinente…! In tutti i sensi»
«Già, ma fammi l’elenco degli altri sensi»
«Perdite gassose controllate e incontrollate e in luogo pubblico e privato»
«Ah già, ricordo!!»
«Devo andare, ci sentiamo»
«Il prossimo caffè fattelo fare corretto, mi raccomando. Ah, dimenticavo, in via Garibaldi, angolo via Mazzini, gli operai stanno sistemando lo scolo fognario»
«Grazie dell’informazione: bevo il caffè e corro a seguire i lavori. Col le mani dietro la schiena. E il cane al guinzaglio. A presto».

A proposito di Cremona: http://www.lastampa.it/2013/11/14/societa/viaggi/destinazioni/in-italia/cremona-il-violino-si-accorda-col-torrone-RFwcPxiQMViNzyNg3tbMrK/pagina.html

martedì 12 novembre 2013

Nemesi prostatica

Chi legge di tanto in tanto ciò che appare sulle pagine di questo blog conosce il livello di cialtroneria che caratterizza da sempre il mio modo di essere e di scrivere, e sa anche quanta becera ironia s’inanella nei racconti più o meno personali e nei commenti alle notizie di stampa più o meno affidabili. Spesso ad esempio, e non lo nego, mi è venuto fin troppo facile strappare un sorriso (quando va bene…) scrivendo di difetti fisici, malanni cronici e tribolazioni sanitarie varie: è un po’ la brutta imitazione di ciò che accade nelle scene comiche dei film, là dove un povero disgraziato (tipo un sacerdote) scivola sulla classica buccia di banana, e subito gli s’avvicina un passante che gli chiede con finta apprensione: “Come si sente? L’osso sacro?”.
Da anni ormai il cavallo di battaglia di questo scrivere da guitto è l’incontinenza, di ogni ordine e grado. Tra le pagine del libro Sulle orme di Francesco, tanto per dirne una vi si legge:
Uno degli argomenti più gettonati era il nostro stato di salute: c’era chi parlava di colesterolo alto, chi di pressione fuori controllo, chi ancora di dolori reumatici. Scattavano subito consigli reciproci su medicinali e terapie, compreso dosaggi e giorni di trattamento: sembrava un congresso di medicina geriatrica. In quei momenti particolari, in cui la serietà lasciava sovente campo all’ilarità - in fondo ridere delle cose che ci spaventano è il miglior modo per esorcizzarle - , sentivo il dovere di dare il mio contributo: “Sapete, è da un po’ che mi corre sempre il bisogno di mingere…”. “È la prostata - rispondeva prontamente Davide - , devi andare dall’urologo: io sono anni che vado ormai”. “Scusa Davide, ma tu non hai la mia età? Già dall’urologo? Sai, speravo di andarci tra qualche annetto”. “Eh caro mio, è meglio essere prudenti: e poi non è mica così terribile la visita, sai. Non te ne accorgi nemmeno. Comunque tu, per non sbagliare, calati un Peridon di tanto in tanto: male non fa”.
Ecco, appunto, la prostata…! Ora è capitato che qualche giorno fa è venuto a trovarmi a casa mio fratello, ed è venuto in bicicletta. La bicicletta, per inciso gliel’ho regalata io un paio d’anni fa: fosse stato per lui, da buon sedentario patologico qual’egli è, non avrebbe mai fatto un acquisto di questo genere. Ovviamente la bicicletta era in pessime condizioni (sporca, gomme a terra, catena cigolante etc…) e così ho pensato bene di mettergliela a punto. Tra una pompatina e una spruzzata di olio lubrificante, mi sono accorto che la sella era estremamente dura e scomoda, e mosso da spirito fraterno, mi sono arrogato il diritto di sostituirgliela. Ho preso dunque la sella della mia city-bike (bicicletta che utilizzo raramente) e l’ho montata al posto della sua. E viceversa. Un paio di giorni dopo però, sono uscito per una sgambata con la suddetta city-bike… e, a conti fatti, non è stata una buona idea. Al ritorno accusavo uno strano fastidio alla zona perineale (che per in non addetti ai lavori è quella zona delicatissima che si trova tra lo scroto e l’ano… con rispetto parlando…). La brutta faccenda è andata avanti per circa due settimane, e a tutt’oggi non è ancora risolta del tutto. Ne scrivo solo perché da un paio di giorni sono riuscito a “riveder le stelle”: fossi stato ancora in alto mare, non credo che sarei qui a disquisirne. Ad ogni modo, per giorni ho cercato di capire cosa stesse succedendo, e solo con un ritardo clamoroso ho realizzato che si trattava di un’infiammazione da trauma (o da stress) della prostata. Almeno così credo. D’altra parte la sintomatologia era quella: stimolo urinario estremamente ravvicinato (altresì detto “pisciarola”), bruciore all’atto della minzione, intorpidimento dell’apparato uro-genitale, senso di gonfiore nelle parti basse, qualche brivido di freddo improvviso. Ho provato ad assumere qualche antinfiammatorio: niente da fare; mio padre mi ha passato sottobanco una pozione per l’ipertrofia prostatica: peggio che andar di notte. Alla fine, in assenza di miglioramento, mi sono deciso a consultare il medico curante. Due ore e trenta minuti di anticamera nella sala d’attesa dei disgraziatissimi mutuati. Quando finalmente è giunto il mio turno, mi sono accomodato (con molta attenzione…) davanti al dottore e gli ho spiegato ciò che era accaduto. Alle mie parole “mi sembra di avere un limone sotto lo scroto” (avrei voluto dire “un melone” ma mi sembrava esagerato) il dottore mi ha guardato come fossi un marziano appena sceso dalla navicella. Poi, dopo avermi chiesto l’età, mi ha fissato a lungo con grande scetticismo e diffidenza. Come se avesse davanti a se una specie di mitomane. A seguire, come illuminato d’improvviso, ha puntato il computer ed ha battuto qualcosa sulla tastiera. Ne sono venute fuori due prescrizioni: ecografia trans-rettale, più visita neurologica (lapsus freudiano prontamente corretto con visita urologica). Io ero in balia completa degli eventi, e non ho realizzato prontamente la gravità di quel pronunciamento: soprattutto del primo. La sera stessa ho chiamato un mio caro amico di Roma, ed essendo egli sfortunatamente esperto della materia, ho chiesto chiarimenti e consigli. Ed è stato allora che ho compreso appieno ogni singolo dettaglio degli esami diagnostici a cui mi accingevo ad andare incontro…! Sarà un caso, ma da quel preciso momento ho cominciato ad avvertire un miglioramento della mia condizione che non reputo eccessivo definire prodigioso. Il giorno successivo ho provato a prenotare l’ecografia, ma la prima data utile era a gennaio: troppo in là. Anche qui parrà strano, ma non mi è affatto dispiaciuta la notizia…! Tornato dal dottore ho riferito il tutto e questi mi ha prescritto una semplice ecografia all’addome inferiore: decisamente più simpatica e meno “invasiva” della precedente. E così domani, nonostante la criticità sia quasi del tutto rientrata, mi sottoporrò a tale indagine.
Come sono stato in questi giorni? Decisamente male, soprattutto a livello psicologico. È strano a dirsi, ma per sentirsi uno straccio basta davvero un’inezia: si perdono le certezze, si cade in preda all’angoscia, si perde il sonno, c’è inappetenza. Nel mio caso, peraltro, non c’è neanche la possibilità di trovar conforto nell’alcol, essendo quest’ultimo tassativamente controindicato per tale patologia. Ecco, tutto questo per dire che è facile fare ironia sulle malattie altrui, ma quando ci si trova da quest’altra parte della staccionata le cose cambiano. Cosa vuol dire questo in soldoni? Che non ci occuperemo più di tali argomenti? Scordatevelo: anzi, proprio perché abbiamo sondato le profondità della natura umana, ancora di più potremo – quando e se sarà il caso – trattarne con più competenza. D’altra parte si sa, ridere è la miglior medicina che esista al mondo.

venerdì 8 novembre 2013

Equazione bicicletta - felicità: ecco le prove

L’ho sempre detto e pensato, la bicicletta, prima di essere un mezzo di trasporto - il più efficiente che l’uomo abbia mai creato - è soprattutto una porta per la felicità. Il perché è presto detto: pedalare a cavallo delle due ruote ci riporta agli anni lontani dell’adolescenza, all’ebbrezza della velocità, alla seduzione del rischio da equilibrista improvvisato, alla libertà conquistata e che apre le porte dello spazio finito di un cortile condominiale. Pedalare, oltre agli echi ludici e nostalgici del passato, è anche gioco, socializzazione, interazione con l’ambiente che ci circonda, piacere per il mondo che ci rimbalza sul viso. Il movimento e l’esercizio fisico inoltre migliorano la circolazione, bruciano calorie mantenendoci in forma, creano endorfine regalando benessere psico-fisico al nostro organismo. Tutt’altra cosa rispetto all’isolamento obbligato dell’automobile, o alle sensazioni da palombaro che provano i motociclisti. Per non parlare delle sciagure quotidiane che affliggono i disgraziatissimi pendolari dei mezzi pubblici.
La mia prima bicicletta, tutta mia intendo, la ottenni verso i dieci-undici anni. Prima di allora usavo quella di mia madre, una Graziella pieghevole che grazie al suo snodo centrale entrava facilmente in ascensore. Andai a comprarla con mio padre presso il negozio di un “ciclista” (così si chiamano in gergo gli esercenti che riparano e vendono biciclette nuove e usate). Questi era un tizio grassoccio, semicalvo, con lo sguardo un po’ losco, e indossava una salopette blu alla Cipputi. Ci mostrò una serie di biciclette d’occasione e dopo lungo tira e molla sul prezzo, acquistammo una Atala blu da passeggio con cambio a sei marce. Più di quanto potessi mai sperare. Tornando verso casa in sella al mio nuovo bolide, mi pareva di volare. In realtà si trattava di un bel “cancello” (altra espressione tipica del gergo ciclistico), ma come prima bicicletta poteva andar bene. L’unica cosa che dovetti fare d’urgenza, fu cambiare i copertoni: erano talmente consumati che in più punti spuntava la camera d’aria. Ovviamente di questa usura ce n’accorgemmo solo dopo un paio di giorni: come era giusto che fosse…!
Su questa bicicletta i miei orizzonti si allargarono in maniera definitiva e il Parco di Monza, per esempio, divenne una delle prime conquiste: sette chilometri…, tanta era la distanza che separava il luogo dove abitavo da questa meravigliosa oasi di natura. Io e la mia Atala diventammo inseparabili. Di bello aveva che, pur essendo utile e funzionale, non aveva alcuna velleità da gran dama: non era appariscente, né suscitava sentimenti d’invidia o brama di possesso. Ed è per questo che, a differenza delle biciclette superlusso dei miei amici, essa non fu mai oggetto di furto. Potevo lasciarla ovunque, senza precauzioni particolari, ed ero certo che al mio ritorno l’avrei ritrovata. Al mio amico Marco invece, negli anni delle scuole superiori, rubarono impunemente la bellezza di tre mountain bike.
Furono più di dieci gli anni di onorato servizio della bicicletta azzurra Atala. Nel ’98 ne acquistai un’altra, una city-bike con cambio Shimano a diciotto velocità. Per lungo tempo fui tentato di portare la vecchia bici in discarica, ma ogni volta mi mancava il coraggio. Poi un giorno, rispondendo ad un ragazzo senegalese che bussava a casa per vendermi qualche mercanzia, ebbi l’illuminazione: presi la bicicletta e gliela offersi in regalo. Per quel ragazzo fu un dono gradito e inaspettato; per me la consapevolezza di averla salvata dall’oblio.
Ma tornando al punto di partenza, ovvero la relazione tra bicicletta e felicità, recenti indagini comparate tra di loro hanno dimostrato che l’assunto è tutt’altro che campato per aria: stando ai dati raccolti ed elaborati dalla European Cyclists’ Federation, i Paesi in cui si pedala di più sono anche quelli che occupano una posizione più alta nella classifica riportata nel World Happiness Report, ovvero la graduatoria delle nazioni più felici. E così, per esempio, si scopre che sul gradino più alto si colloca la Danimarca, ovvero la nazione in cui la bicicletta è il mezzo di trasporto più utilizzato. A ruota seguono l’Olanda, la Svezia e la Finlandia, paesi in cui le vendite delle biciclette sono altissime, l’attenzione e la sicurezza dei ciclisti è imperativo categorico ed il ciclo turismo una realtà diffusissima. L’Italia invece, nonostante il mercato delle biciclette sia in continua crescita (il 2012 è stato l’anno del sorpasso delle due ruote sulle automobili), si colloca nientemeno che al 45esimo posto nella classifica delle nazioni più felici. Ma noi siamo un caso a parte…! Ma al di là dell’aspetto “felicità”, emergono altri dati che non dovrebbero lasciare indifferenti data la situazione economica: stando sempre alla European Cyclists’ Federation, i benefici derivanti dall’uso della bicicletta nei 27 Paesi dell’Unione europea ammonterebbero a 217 miliardi di euro all’anno (minori spese, benefici sulla salute e minore mortalità, riduzione del traffico, abbassamento delle emissioni nocive etc…).
Un’altra buona ragione per lasciare l’auto a casa e inforcare le due ruote (a pedali).

Fonti: http://www.tgcom24.mediaset.it/perlei/2013/notizia/viaggiare-in-bicicletta-rende-piu-felici_2007906.shtml
http://life.wired.it/news/mobilita/2013/10/30/bikeconomics-tutti-i-vantaggi-di-una-societa-in-bicicletta.html
http://www.npr.org/blogs/parallels/2013/10/24/240493422/in-most-every-european-country-bikes-are-outselling-cars

giovedì 7 novembre 2013

Storie di ordinaria modernità…

Ricevo e pubblico:
“Santo cielo è pazzesco, sono ancora sul tram…! A volte mi chiedo se non sia meglio che lasci questa città e me ne vada. Stare a Roma è diventato veramente difficile. Senti che Odissea: vado per prendere il tram numero 5, ma c’è talmente tanta gente che vi rinuncio. Allora opto per la metropolitana, così scendo nel sottosuolo, ma che accade? Un fiume di stronzi in attesa sulla banchina, scene da far west con assalto selvaggio alla diligenza in arrivo. In questi frangenti non ci sono più regole, niente più misericordia per nessuno…! Lascio passare ben tre treni (stracolmi) sperando che al quarto ci sia spazio sufficiente per non viaggiare come una sardina in scatola: seee…, col cavolo! Manco pe’ gnente…! Allora mollo e torno in superficie per prendere quel fottuto tram cui avevo rinunciato. Sicché sono ancora qua sopra: con la sgradevole sensazione che qualche vicino di posto abbia dato sfogo alla sua incontrollabile esuberanza intestinale. Ho perso tantissimo tempo. Pensa che con 100mila euro posso prendere un villino nei pressi di Bracciano: se solo avessi il coraggio di andarmene…! Nun j ‘a faccio ppiù…!”.

I valori degli italiani

Nel lontano 1976, Erich Fromm dava alle stampe Avere o essere. Secondo il sociologo tedesco, una società che ha come stella polare l’essere sarà imperniata sulle persone; al contrario, una società che punta tutto sull’avere, sarà imperniata sulle cose: sete di denaro, fama, potere etc…!
L’aut-aut tra avere ed essere non è un’alternativa che si imponga al comune buon senso. Sembrerebbe che l’avere costituisca una normale funzione della nostra esistenza, nel senso che, per vivere, dobbiamo avere oggetti. Inoltre, dobbiamo avere cose per poterne godere. In una cultura nella quale la meta suprema sia l’avere — e anzi l’avere sempre più — e in cui sia possibile parlare di qualcuno come una persona che «vale un milione di dollari», come può esserci un’alternativa tra avere ed essere? Si direbbe, al contrario, che l’essenza vera dell’essere sia l’avere; che, se uno non ha nulla, non è nulla.
Nell’ultima parte del trattato vi sono alcune ricette per uscire da questa triste situazione: alcune di queste appaiono di una sorprendente attualità… Bisogna metter fine all’attuale situazione, in forza della quale un’economia sana è possibile solo a prezzo della condizione patologica degli esseri umani. Il primo decisivo passo verso tale meta è che la produzione sia organizzata ai fini di un “consumo sano”. Tutti i metodi di lavaggio del cervello usati dalla propaganda politica e dalla pubblicità industriale devono essere messi al bando. Lo iato tra nazioni ricche e nazioni povere deve essere colmato. Molti dei mali delle attuali società scompariranno con l’introduzione di un reddito minimo garantito: gli esseri umani hanno un incondizionato diritto a vivere, indipendentemente dal fatto che compiano o meno il loro “dovere verso la società”.
Sono passati quasi quarant’anni da che Fromm scriveva queste osservazioni, eppure pare che la situazione non solo non sia migliorata, ma anzi sia peggiorata. La crisi economica non ha fatto che accentuare lo stato di ansia delle persone, l’isolamento degli individui, la paura e la diffidenza verso il futuro. Ed inoltre, a differenza di quei lontani anni ’70, oggi quello che è venuto meno è addirittura la speranza. D’altra parte questa è la prima generazione che si trova a vivere in condizioni peggiori di quella precedente: ed è probabilmente la prima volta nella storia dell’Umanità. Fromm diceva che per abbandonare lo stato dell’avere e raggiungere quello più evoluto dell’essere, bisogna cambiare la società, puntare su valori condivisi, su altruismo, solidarietà, partecipazione attiva. Fino a che non ci fosse stato questa presa di coscienza, ognuno avrebbe continuato a pensare al proprio particolare, alla competizione, all’accaparramento patologico, al solipsismo. Dovendo tirare qualche somma, verrebbe da dire: “Ne abbiamo ancora di strada…”. Stamane tuttavia, è apparso sui giornali l’indagine Censis “I valori degli italiani 2013”. A quanto pare c’è ancora speranza. Ecco come apre l’articolo pubblicato da Avvenire:
Che cosa spinge gli italiani a cercare ogni giorno la propria realizzazione? Se fino a oggi la risposta doveva essere cercata alla voce «individualismo» oppure ad altre come «egoismo» o «competizione», in un futuro più prossimo di quanto non si creda la ricerca dovrebbe essere indirizzata in altre direzioni: «socialità, altruismo, collaborazione». In una parola «i valori». È per alcuni versi sorprendente il quadro che emerge da una indagine del Censis, presentata ieri a Roma, sotto il titolo I valori degli italiani 2013, il ritorno del pendolo. Indagine che potrebbe essere riassunta come segue: «L’egoismo è stanco, cresce la voglia di ritrovare l’altro. Cittadini preoccupati, ma non disperati». E allora che c’entra l’immagine del pendolo? Lo ha spiegato Giulio De Rita, ricercatore del Centro, presentando i dati: «I numeri dicono che la crisi antropologica ha consumato il suo slancio. Ma questo non vuol dire che l’egoismo, la passività, l’irresponsabilità, il materialismo stiano improvvisamente svanendo. Anzi sono al loro punto massimo, ma mostrano di non avere la forza necessaria per andare oltre». Di qui la metafora del pendolo. «Le energie per un’inversione di rotta ci sono tutte, ma si tratta di un’energia potenziale, che ancora non si è attivata e che è impossibile sapere dove ci porterà», ha chiosato De Rita. Tuttavia la speranza che il classico bicchiere attualmente mezzo pieno si riempia completamente esiste eccome.

L’articolo completo: http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/censis-italiani-altristi-e-motivati-cresce-la-fiducia.aspx

lunedì 4 novembre 2013

La fine della guerra

«Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12
La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco slovacca ed un reggimento americano, contro settantatre divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d’Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza. Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Diaz».

Con queste parole magniloquenti e “leggermente” retoriche si chiudeva per l’Italia la Prima Guerra Mondiale. Oggi, a distanza di 95 anni, nelle piazze e davanti ai palazzi dei Municipi della penisola si festeggia la vittoria, l’impresa eroica che restituisce le terre irredente al suolo patrio. È talmente un’epoca lontana per noi, e non parlo solo in termini temporali, che si fa fatica a comprendere quell’atmosfera, quelle ragioni e quelle dinamiche che hanno condotto a quel cataclisma mondiale. Per noi, cittadini occidentale del 21esimo secolo la guerra è un concetto antropologicamente incomprensibile, inafferrabile: come voler spiegare ad un pasciuto benestante cosa significhi provare la fame. Quando andavo al liceo la professoressa di storia usava spesso dire: “Quella dei vostri genitori è la prima generazione che non è andata in guerra…!”. Il che, se ci si pensa, è davvero un’asserzione sensazionale: significa cioè, che dalla Seconda Guerra Mondiale, e a risalire, c’è sempre stato un’occasione per chiamare alle armi. Poi, con l’avvento dell’incubo nucleare, lo stato di belligeranza si è concluso. Almeno per noi occidentali. Eppure, nonostante questo portentoso deterrente, di guerre sotto i nostri occhi ne sono scorse a decine: Corea, Vietnam, Afghanistan, Iraq, Serbia, Kosovo, Cecenia, Israele-Palestina, Turchia (Kurdistan), India (Kashmir) etc…! Senza parlare di tutte le guerre più o meno dimenticate in Africa. Ma c’è di mezzo la televisione, e dunque è come se si trattasse di un grande spettacolo hollywoodiano (inframmezzato dalle pubblicità che consigliano prodotti per la stitichezza cronica): se si può assistere ad una tragedia come la guerra, stando comodamente seduti a tavola, o spaparanzati sul divano, l’idea che passa nel nostro cervello è che sia tutto più o meno finto.
L’Italia in quella primavera del 1915 andò in guerra sull’onda dell’entusiasmo di personaggi come D’Annunzio («Voi volete un’Italia più grande non per acquisto, ma per conquisto, non a misura, ma a prezzo di sangue e di gloria…» - Quarto, 5 maggio 1915 - commemorazione della Spedizione dei Mille). In realtà la maggior parte degli italiani, come giustamente appuntava Giolitti nei suoi diari, era contraria alla guerra e l’intera nazione era impreparata per un evento di tale portata («Ma quale guerra! Se non abbiamo nemmeno un generale che valga una lira!»). Ma nonostante ciò, ci s’imbarcò in un’avventura spaventosamente irta di incognite. Con il Patto di Londra, l’Italia rinnegò la Triplice Alleanza stipulata con Austria e Germania nel 1870, e si schierò a fianco della Francia e dell’Inghilterra. E questo nonostante prima la Germania, e poi anche l’Austria, fossero disposte a cedere alle richieste italiane purché si mantenesse uno stato di neutralità: ovvero Trento e Trieste, la Venezia Giulia, Istria e Dalmazia e il Dodecaneso. Ma ormai era troppo tardi, il demone della guerra era già all’opera. E così, il 23 maggio del 1915, il Governo presieduto da Antonio Salandra comunica la dichiarazione di guerra alla sola Austria. Un patetico tentativo di non inimicarsi i ben più pericolosi tedeschi. Da quel momento l’Italia si trova a combattere una guerra spietata su di un fronte di 750 chilometri, vale a dire dal Mare Adriatico al confine svizzero. Al termine del conflitto i morti italiani saranno 600mila.
Ecco, tutto questo è stato la Prima Guerra Mondiale e molto altro ancora. L’Italia in quell’immane tragedia divenne una nazione: siciliani e piemontesi, calabresi e lombardi, s’incontrarono veramente per la prima volta, e nelle trincee e sotto il fuoco nemico, affrontarono il destino comune sentendosi un popolo. Mi fa una certa impressione scoprire che, nei paesini più sperduti dell’alto cremasco, quelli che di solito percorro durante le mie lunghe pedalate in bicicletta, vi sono lapidi e monumenti in ricordo dei caduti. La guerra non risparmiò neanche queste ultime periferie dell’Impero. Leggendo i nomi di quelle vittime, si scopre che erano quasi tutti parenti tra di loro, fratelli, cugini, cognomi che si rincorrono con una frequenza tale da dare la misura della sciagura che colpì queste piccole comunità.
L’Europa, con la Grande Guerra, non solo paga un tributo di vittime senza pari (le cifre più attendibili parlano di oltre 26 milioni di morti - di cui il 50 per cento civili), ma perde per sempre la sua egemonia - economica prima, e culturale dopo - a livello mondiale.
Ecco perché è giusto festeggiare oggi la fine della guerra.

sabato 2 novembre 2013

‘A LIVELLA

Ogn’anno, il due novembre, c’è l’usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll’adda fa’ chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.

Ogn’anno puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch’io ci vado, e con i fiori adorno
il loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza.
 
St’anno m’è capitata ‘n’avventura…
dopo di aver compiuto il triste omaggio
(Madonna), si ce penzo, che paura!
ma po’ facette un’anema ‘e curaggio.
 
‘O fatto è chisto, statemi a sentire:
s’avvicinava ll’ora d’ ‘a chiusura:
io, tomo tomo, stavo per uscire
                                                                                           buttando un occhio a qualche sepoltura.
 
“QUI DORME IN PACE IL NOBILE MARCHESE
SIGNORE DI ROVIGO E DI BELLUNO
ARDIMENTOSO EROE DI MILLE IMPRESE
MORTO L’11 MAGGIO DEL ‘31”.
 
‘O stemma cu ‘a curona ‘ncoppa a tutto…
… sotto ‘na croce fatta ‘e lampadine;
tre mazze ‘e rose cu ‘na lista ‘e lutto:
cannele, cannelotte e sei lumine.
 
Proprio azzeccata ‘a tomba ‘e stu signore
nce steva n’ata tomba piccerella
abbandunata, senza manco un fiore;
pe’ segno, solamente ‘na crucella.
 
E ncoppa ‘a croce appena si liggeva:
“ESPOSITO GENNARO NETTURBINO”.
Guardannola, che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!
 
Questa è la vita! ‘Ncapo a me penzavo…
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s’aspettava
ca pure all’atu munno era pezzente?
 
Mentre fantasticavo stu penziero,
s’era ggià fatta quase mezanotte,
e i’ rummanette chiuso priggiuniero,
muorto ‘e paura… nnanze ‘e cannelotte.
 
Tutto a ‘nu tratto, che veco ‘a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse ‘a parte mia…
Penzaje; stu fatto a me mme pare strano…
Stongo scetato… dormo, o è fantasia?
 
Ate che’ fantasia; era ‘o Marchese:
c’ ‘o tubbo, ‘a caramella e c’ ‘o pastrano;
chill’ato appriesso’ a isso un brutto arnese:
tutto fetente e cu ‘na scopa mmano.
 
E chillo certamente è don Gennaro…
‘o muorto puveriello… ‘o scupatore.
‘Int’ a stu fatto i’ nun ce veco chiaro:
so’ muorte e se retireno a chest’ora?
 
Putevano stà ‘a me quase ‘nu palmo,
quando ‘o Marchese se fermaje ‘e botto,
s’avota e, tomo tomo... calmo calmo,
dicette a don Gennaro: “Giovanotto!
 
Da voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me che sono un blasonato?!
 
La casta e casta e va, si, rispettata,
ma voi perdeste il senso e la misura;
la vostra salma andava, si, inumata;
ma seppellita nella spazzatura!
 
Ancora oltre sopportar non posso
la vostra vicinanza puzzolente.
Fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente”.
 
“Signor Marchese, nun è colpa mia,
i’ nun v’avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa’ sta fessaria,
i’ che putevo fa’ si ero muorto’?
 
Si fosse vivo ve farrie cuntento,
pigliasse ‘a casciulella cu ‘e qquatt’osse,
e proprio mo, … ‘nd’a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n’ata fossa”.
 
“E cosa aspetti, oh turpe malcreato,
che l’ira mia raggiunga l’eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!”.
 
“Famne vedé… piglia sta violenza…
‘A verità, Marché, mme so’ scucciato
‘e te senti; e si perdo ‘a pacienza,
mme scordo ca so’ muorto e so’ mazzate…!
 
Ma chi te cride d’essere… nu ddio?
Ccà dinto, ‘o vvuò capì, ca simmo eguale…?
… Morto si’ tu e muorto so’ pur’io;
ognuno comme a ‘n’ato è tale e qquale”.
 
“Lurido porco…! Come ti permetti
paragonarti a me ch’ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?”.
 
“Ma qua’ Natale… Pasca e Ppifania!!
T’ ‘o vvuo’ mettere ‘ncapo… ‘int’ ‘a cervella
che staje malato ancora ‘e fantasia…?
‘A morte ‘o ssaje ched’è…? È ‘na livella.
 
‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’ ‘o punto
c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme
tu nun t’he fatto ancora chistu cunto?
 
Perciò, stamme a ssenti… nun fa’ ‘o restivo,
suppuorteme vicino - che te ‘mporta?
Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie… appartenimmo â morte!”.
 
(Antonio de Curtis - Totò)