Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 20 maggio 2013

Le peggiori scuse per non andare a lavoro

Come abbiamo già avuto modo di dire in altri, precedenti post, il lunedì mattina non ci piace proprio per niente. Le ragioni? No, inutile star lì a perder tempo con una lista infinita di buoni motivi che indurrebbero chiunque a spegnere la sveglia (anzi a lanciarla contro il muro) e rigirarsi sul fianco. Meglio non pensarci. Anzi, meglio ancora dar retta agli esperti e pensare in positivo: “Chissà qual lieta novità mi attende una volta giunto in ufficio…! Forse è perfino arrivata la pratica del perito Armaroli…”; “Perbacco, ho proprio voglia di rivedere i miei cari colleghi dopo un lungo, noioso fine settimana, passato lontano da loro”; “Che meraviglia, finalmente potrò viaggiare ancora una volta sul mio treno preferito…, meglio ancora se non c’è posto per sedersi, così potrò apprezzare di più il panorama che scorre fuori dal finestrino…”. E poi, come non lanciare un pensiero ecumenico alla collettività: “Il mio lavoro…, ah il mio lavoro: se non ci fossi io a fare ciò che faccio…, sai come ne soffrirebbe l’umanità…!”.
Eppure, nonostante tutto quest’ottimismo, resta pur sempre qualcuno preda del malumore quando c’è da tornare a lavoro. Ma anche a scuola. Quando andavo alle medie e poi alle superiori (delle elementari ormai ho perduto quasi del tutto i ricordi, purtroppo) era sempre una tragedia: svogliatezza, stanchezza, depressione, giramenti di testa. Nulla tuttavia se paragonato a ciò che accadeva a mio fratello: dolori addominali tipo parto, nausea, gastrite. Almeno questo era ciò che dichiarava lui. Non so se si trattasse di patologie reali, psicosomatiche o di finzione bell’e buona. Fatto sta che quando i miei astutamente dicevano “poverino…, sta veramente male: andiamo di corsa all’ospedale”, egli si riaveva all’improvviso, sanato d’incanto da quelle parole miracolose. Una volta tuttavia, ricordo, non desistette e pretese che il medico curante lo visitasse: un compagno di classe gli aveva insegnato un metodo infallibile per rimediare una bella settimana di riposo. Il segreto stava nel fingere una bella bronchire. Quando il dottore l’auscultò, egli cominciò a rantolare in maniera assai mirabile. Diagnosi confermata e pasticche di antibiotico per dieci giorni. Tutte scaricate nel cesso, naturalmente. Un paio di giorni fa sul Telegraph è stata pubblicata una curiosa ricerca condotta dalla Benenden Health, società britannica di Mutuo Soccorso: “The worst excuses for missing work” (le scuse peggiori per non andare a lavoro). Il sondaggio, che ha coinvolto oltre mille datori di lavoro e dipendenti, ha svelato un universo di personaggi tragicomici al cui confronto il Ragionier Fantozzi e il Geometra Filini appaiono come due stakanovisti serissimi e indefessi. Nella lista ci sono alcuni classici intramontabili come: “sono stato punto da un insetto”; “ho il raffreddore”; “ho passato una notte in bianco”. E fin qui tutto normale, direi. Non manca ovviamente tutto il campionario sulle morti improvvise e inaspettate di parenti e affini vari: di fronte all’angosciante prospettiva di trascorrere una spaventevole giornata lavorativa in ufficio, i lavoratori non si fanno alcuno scrupolo a far morire nonni, suocere, zii, e familiari vari, fino al settimo grado. Tutto per finta, grazie a Dio: a quanto ci consta non si è ancora arrivati al delitto perfetto pur di sfangarla a lavoro. In un caso addirittura pare che il lavoratore abbia denunciato la scomparsa della propria madre. E con humour tutto inglese si aggiunge tra parentesi: “This was the second time the person used this excuse”. Se saliamo però di qualche gradino sulla scala dell’assurdo, eccoci proiettati all’improvviso nel regno del fantastico: “una lattina di fagioli mi è caduta sull’alluce”; “nuotavo troppo velocemente e ho sbattuto la testa sul bordo della piscina”; “il freno a mano della mia macchina si è rotto e la vettura si è schiantata contro un lampione”. Tutti accidenti abbastanza usuali, verrebbe da dire: a chi non è mai capitato di scendere in strada e vedere la propria auto accartocciata contro un palo in fondo alla discesa? Sono cose che capitano…! E come dimenticare poi gli animali da compagnia? “Il mio cane ha preso un grosso spavento e non me la sento di lasciarlo solo”. Giustamente: tutti pronti ad indignarci per i maltrattamenti agli animali, e quando poi un’anima candida dimostra affetto verso il miglior amico dell’uomo, ecco che si fa della facile ironia. Ma non ci sono solo i cani, naturalmente: “il mio criceto è morto”; “il mio pesciolino è malato”, per non parlare dei guai di gatti, rettili e pennuti vari: se le cocorite improvvisamente smettono di pettegolare c’è da prendere paura…! Ci sono poi tutti gli incidenti domestici: “sono rimasto chiuso in casa perché s’è rotta la serratura della porta”; “mi sono bruciato la mano col tostapane”; “il cane ha mangiato le mie scarpe”; “ho ingoiato acquaragia”; “ho un dito intrappolato nel rubinetto del bagno”. Dio mio, la vita è tutto un rischio…! E per strada? “Sono scivolato su di una moneta”; “mi si sono rotti i pantaloni mentre venivo a lavoro”. Certo entrare in ufficio con un bello squarcio sulle natiche non è affatto simpatico. E per le donne poi? Mai pensare di cambiare colore ai capelli nell’imminenza del ritorno a lavoro: “la parrucchiera mi ha fatto una tintura disastrosa”. In questa variegata classificazione non potevano mancare poi i lavoratori schizofrenici: “ho le allucinazioni (a sfondo mistico)”; e gli alcolisti anonimi: “ho bevuto troppo e mi sono addormentato sul pianerottolo di qualcuno - non so dove mi trovo”. E per chiudere in bellezza ecco la categoria più originale, quella degli amatori sfrenati e senza vergogna: “mi sono fatto male facendo sesso”; “la mia nuova ragazza mi ha morso in un posto delicato”. Che dire, di fronte a tanto acume intellettuale, si resta senza parole. Eppure, stando ai dati dell’inchiesta, è risultato che ben il 60 per cento dei manager aziendali non credono affatto ai loro sfortunati dipendenti. Soprattutto quando le scuse sembrano piuttosto deboli e nel cielo splende un magnifico sole. Ma tu pensa…! E per suffragare questa loro intuizione, non si esimono dal ricercare sui social network le prove dell’inganno. Non sia mai che qualche allocco, oltre ad aver marcato visita con la frode, in quella giornata non abbia postato su Facebook anche qualche bella foto scattata in località balneare. Dall’indagine emerge che più della metà dei dipendenti hanno timore di chiamare il capo per mettersi in malattia, e preferiscono mandare un’e-mail. A loro volta i capi, astuti come volpi, una volta ricevuta l’e-mail lacrimosa, telefonano immediatamente allo sfortunato dipendente e gli fanno il “terzo grado”. In media è risultato che i lavoratori inglesi hanno “bigiato” almeno quattro volte nella loro vita (che pivelli…!) e il 30 per cento di loro hanno preso giorni di malattia a causa dello stress. Un terzo di costoro inoltre dichiarano che l’azienda nella quale sono impiegati non è in grado di far fronte alla malattia dei propri dipendenti a causa della penuria di personale. E che spesso, la causa delle assenze è dovuta all’eccessivo carico di lavoro.
E per concludere un piccolo suggerimento: tra le scuse più credute pare che vi siano quelle legate a virus intestinali, vomito e dolori addominali. Viceversa se lamentate torcicollo, mal di schiera e dolori muscolari, dall’altra parte del telefono ci saranno solo smorfie di derisione e incredulità. Ecco, se proprio vi va di restarvene in panciolle per qualche giorno, abbondate con i particolari raccapriccianti, colori, odori, vischiosità delle secrezioni e quant’altro: vi crederanno sulla parola.

Fonte: http://www.telegraph.co.uk/health/healthnews/10062020/Worst-excuses-for-missing-work-revealed.html

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