Qualche mese fa, per l’esattezza a marzo di quest’anno, è stata pubblicata una ricerca realizzata dal Censis per conto della Federazione Ipasvi (Federazione Nazionale Collegi Infermieri professionali, Assistenti sanitari, Vigilatrici d’infanzia). Il titolo che i media hanno perlopiù associato ai risultati di tale ricerca è stato: “Gli italiani promuovono gli infermieri”. Ed in effetti dal sondaggio è emerso, quasi a sorpresa dato i frequenti scandali legati alla cosiddetta “malasanità”, che quattro italiani su cinque giudicano positivamente l’operato degli infermieri.
Un risultato che sicuramente farà piacere alla categoria, soprattutto considerato che, secondo la stragrande maggioranza gli italiani, tale professione, non solo gode di un riconoscimento sempre maggiore nell’opinione pubblica per il suo alto valore sociale, ma “sarà sempre più importante nella sanità italiana”. Nello specifico, tra le altre doti e qualità apprezzate e dimostrate dal personale infermieristico, vi sarebbero “le competenze tecnico-professionali” (55%), la “capacità di relazionarsi con i pazienti e i familiari” (51%) e “la cortesia e la gentilezza” (44%). «Sono dati che non ci sorprendono – ha commentato la Presidente della Federazione Ipasvi Annalisa Silvestro – da sempre gli infermieri sono coloro che si trovano più vicini ai pazienti e alle loro famiglie. Quello che però ci dà ulteriore soddisfazione è che dall’indagine emerge anche la sempre maggior consapevolezza, nell’opinione pubblica, del ruolo che gli infermieri rivendicano nel contesto del sistema sanitario italiano».
Di certo è una gran bella notizia questa, e dimostra che, pur nelle difficoltà economiche e sociali che attraversa il nostro Paese, c’è ancora qualcosa che funziona, e soprattutto ci sono ancora persone che, con il loro lavoro e il loro impegno – non privo di sacrifici – , riescono a contribuire al benessere della Nazione. Il che è un grande passo avanti, considerate tutte le critiche – spesso ingenerose – che da sempre si scatenano sul servizio sanitario nazionale. Nel film Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmuller, per esempio, c’è una scena girata in un ospedale: i pazienti sono abbandonati a loro stessi, gli infermieri non soccorrono i malati perché a quello ci devono pensare i portantini e i degenti sono accatastati gli uni sugli altri senza rispetto. Insomma un vero inferno. E così, quando il protagonista del film, disperato per lo stato di salute di una sua conoscente, chiede ad un paziente dove sono i medici e gli infermieri, questi risponde caustico: «Se…, state fresco: quelli se ne fottono. Fòttono e se ne fottono».
Negli ultimi decenni, occorre dirlo, la professione dell’infermiere è molto cambiata. Inizialmente concepita come attività prettamente femminile, basata soprattutto sulla carità esercitata da suore e nobildonne, divenne col tempo sempre più una professione scientifica, fino all’istituzione, nel 1990, del “diploma universitario di primo livello in scienze infermieristiche”. Diploma trasformato nel 2001 in laurea con corso triennale e superamento di un esame finale.
E dunque ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi dell’ormai superato “infermiere generico”, al quale serviva solo la scuola dell’obbligo per indossare un camice.
Nella famiglia di mia madre, ci sono diversi infermieri. Cominciò suo fratello negli anni ’70, appunto come “generico”, ed in seguito altri epigoni seguirono le sue orme. Egli arrivò alla professione avendo alle spalle anni e anni di falegnameria e carpenteria dura, e nulla più. I suoi eredi, al contrario, hanno dalla loro preparazione, competenza e formazione specifica. Quando ci si riuniva per feste e avvenimenti particolari, costoro davano grande sfoggio di cultura medico-infermieristica ed intrattenevano parenti e amici sulle esperienze maturate soprattutto in Pronto Soccorso, la cosiddetta “prima linea”. Tra gli altri ascoltatori c’era anche uno zio particolarmente critico sul mondo della sanità. Era sempre pieno di livore e risentimento, cultore assoluto del luogo comune sulla “malasanità”, e pronto a irridere e vituperare ospedali, medici e infermieri, di ogni ordine e grado. Forse tale atteggiamento era conseguenza di brutte esperienze personali, forse no. Ad ogni modo, se c’era una cosa che lo mandava fuori dei gangheri, era la presunta sbruffoneria, altezzosità e arroganza di tutte queste figure in camice. E così una sera uno dei suoi nipoti cominciò a vantarsi delle sue esperienze. Mio padre, presente al dibattito e attratto da quel racconto, chiese: «E dimmi un po’, cosa vi fanno fare adesso in ospedale? Potete mettere anche i punti?».
«E sì, zio – rispose costui tronfio per quell’interessamento – , mettiamo i punti, facciamo gli elettrocardiogrammi…». E qui, approfittando di una brevissima pausa, si inserì abilmente lo zio rancoroso: «Ungono lo spiridione sulle ferite». Che tradotto in italiano sarebbe più o meno: “aspergono le ferite col disinfettante”. E sì perché un tempo lontano, gli infermieri per disinfettare le ferite usavano un lungo randello con del cotone legato all’estremità, intinto nell’ittiolo. E così, quella frase buttata lì, con sufficienza e sarcasmo, assumeva una carica comica di altissima efficacia. Tant’è che mio padre non trattenne una risata improvvisa.
A seguire il poveretto, per riguadagnare i punti perduti, cominciò a raccontare dei corsi di formazione a cui aveva partecipato, di quanto tempo avesse passato in sala operatoria, del perché e del percome potesse a tutti gli effetti definirsi “paramedico”. Lo zio sopportava malamente tutte quelle “smargiassate” e covava un rancore potenzialmente letale.
Ad un tratto l’infermiere giocò la sua carta vincente, l’asso nella manica che avrebbe schiantato qualsiasi ulteriore ostacolo verso il suo completo riconoscimento: «E poi…, mi mette un po’ in imbarazzo dirlo, sapete…, ma visto che ci siamo…! Ecco, dal mese prossimo ci mandano anche all’Università…, per un corso triennale». E così dicendo si scherniva fintamente e si attendeva un plauso unanime. Ma purtroppo non aveva fatto i conti con il classico oste: «Ah sì… – disse lo zio pieno di sferzante causticità – , e dunque vi mandano all’Università?».
«E sì zio, all’Università di Bari…».
«Bene, molto bene, sono contento: così finalmente v’insegnano un po’ d’educazione…!».
Ci fu uno scoppio di riso improvviso e quasi unanime. Certo qualcuno si offese, qualcun altro fece finta di non aver sentito: si sfiorò l’incidente diplomatico. Ad ogni modo, e per fortuna, la situazione si risolse senza grossi traumi: si era pur sempre in famiglia.
Non trascorse molto tempo che anche lo zio rancoroso ebbe bisogno dei servigi della sanità pubblica. E così s’accordò col nipote per avere un trattamento di favore per una visita specialistica. L’appuntamento era per le ore nove del mattino di un giovedì di mezza primavera. «Non preoccuparti zio – disse l’infermiere rassicurante – ci vediamo nell’astanteria del reparto: me ne occupo io personalmente di questa faccenda, stai tranquillo».
Lo zio si presentò puntualissimo, ma del nipote nemmeno l’ombra. Gli altri pazienti – una folla mostruosa – vedendo quell’omino in nervosa attesa, gli consigliarono pietosamente di prendere il numerino e di mettersi bel seduto. Ma egli sapeva di non averne bisogno, egli avrebbe saltato per incanto quella coda. Sempre che il nipote si fosse degnato di raggiungerlo, s’intende. E così, dopo una mezzoretta d’attesa cominciò a chiedere a colleghi e portantini, ma nessuno seppe dirgli come e dove rintracciarlo. A quel punto si sedette sulla panchina in preda allo sconforto e al malumore. Le speranze ormai l’abbandonavano e d’altra parte non poteva neanche andare da chissà chi a dire “sono qui per una visita: mi ha raccomandato mio nipote”.
Fatto sta che intorno a mezzogiorno, da un corridoio laterale, spuntò la sagoma pimpante dell’infermiere: fischiettava e se ne andava guardandosi intorno con le mani in tasca. Lo zio non credeva ai suoi occhi: «Pasquale…! Ma insomma….!».
«Ah zio, e tu che ci fai qua?».
«Come che ci fai qua? Sono qui che t’aspetto dalle nove di stamattina…».
L’infermiere solo allora si rese conto di essersi dimenticato clamorosamente di quell’appuntamento. C’era da vergognarsi fino a Natale. E non potendo confessare apertamente quella triste verità, s’inventò lì per lì di essere stato impegnato fino ad allora in sala operatoria. A quel punto, gli consigliò di tornare il giorno successivo, che senza dubbio avrebbe avuto “il fatto suo”.
Non so come andò a finire la faccenda: di certo questo episodio non contribuì a far ricredere lo zio rancoroso sulle sue convinzioni.
Che diamine, dico io, in fin dei conti sarebbe bastata un po’ di buona volontà… e magari un’agendina. Alle volte ci si perde per quisquilie, cose banali e di poco conto, e poi è una parola risalire la china.
“Fòttono e se ne fottono”. Dispiace.
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