A dire il vero noi ce n’eravamo già accorti da un pezzo, e l’avevamo anche denunciato a più riprese da queste colonne. Di cosa stiamo parlando? Del crollo del Q.I. (quozienti intellettivo). Certo in mancanza di prove scientifiche non potevamo che arrivarci per deduzione. D’altra parte, quando dopo cinquemila anni di civiltà, si giunge a trascorrere ore ed ore della propria vita davanti ad una slot-machine, in attesa che escano tre prugne, c’è poco da dubitare. A darne notizia è la rivista scientifica Intelligence che nel numero di questo mese pubblica uno studio condotto dall’Università di Amsterdam, dall’Ateneo di Umea in Svezia e dall’University College di Cork. Secondo i ricercatori nell’arco di un secolo, o poco più, il quoziente intellettivo medio degli occidentali è diminuito di circa 14 punti. O perbacco, e noi che pensavamo di aver raggiunto l’apice della conoscenza e dell’apertura mentale - e dunque dell’intelligenza - grazie ai progressi della scienza e della tecnologia, oltreché a quelli legati alla miglior educazione, igiene e alimentazione. Tutte sciocchezze, a quanto pare. Comprese le teorie di James R. Flynn, il maggiore studioso del campo, secondo cui il Q.I. crescerebbe con il passare delle epoche ad un media di circa tre punti ogni decennio. Lo studio afferma che, a partire dalla fine dell’Ottocento, epoca di grande sviluppo delle capacità umane, è stato tutto un lento ed inesorabile decadimento dell’intelletto. In realtà, se vogliamo dare retta alle ultime teorie evoluzionistiche, il decadimento avrebbe radici assai più profonde, e andrebbe retrodatato ad un epoca addirittura preistorica. Vale a dire al momento esatto in cui i nostri antenati hanno smesso di essere dei semplici cacciatori-raccoglitori e, divenendo stanziali, hanno preso a trarre la loro sussistenza dall’allevamento del bestiame e dalla coltivazione della terra. Dove un tempo dunque la penuria di cibo e l’aleatorietà dell’esistenza garantivano la perfetta selezione genetica (solo i “migliori” sopravvivevano), con il sopraggiungere di una società diversa, basata su gruppi di individui più numerosi, più coesi e meglio organizzati, e dove la sicurezza e l’alimentazione erano più costanti e garantite, ecco che questo fattore si attenua e tendono a sopravvivere (e a tramandare i propri geni alla prole) anche i “peggiori”.
Facendo un raffronto tra i dati odierni e quelli racconti a fine ‘800, pare che il Q.I. medio degli abitanti del mondo occidentale sia diminuito di 1,23 punti ogni decennio. Decadimento riscontrato peraltro anche nel test sulla reattività visiva: mentre nel 1889 un uomo rispondeva ad uno stimolo dopo 183 millesimi di secondo, nel 2004 il tempo era salito a 253 millesimi di secondo. E non si salvano nemmeno le donne (188 a 261) che pure, si sa, sono infinitamente più intelligenti degli uomini. A prescindere (?!?!?!). Ma alla domanda cosa esattamente spiega questo declino, cosa rispondono i ricercatori? Forse qualcosa che abbia a che fare con la facilità di accesso alle informazioni (basta un click per arrivare ovunque) che ha svilito il gusto e l’esercizio della ricerca e della conquista? No, tuttaltro, ecco come risponde Jan te Nijenhuis, docente di psicologia dell’University of Amsterdam: “Women of high intelligence tend to have fewer children than do women of lower intelligence”. Ovvero le donne più intelligenti fanno meno figli e ciò causa un abbassamento generale della media del livello intellettivo della popolazione. Il perché non è detto, ma forse si può intuire: grandi successi legati al proprio lavoro e al proprio intelletto, potrebbero (condizionale d’obbligo) far passare in secondo piano l’istinto della maternità. Rita Levi Montalcini una volta dichiarò in un’intervista di non nutrire alcun rimpianto per non avere avuto figli: «A mio padre, quando avevo sei anni, in un periodo tipicamente vittoriano, ho detto “io non mi sposerò e non avrò figli”. E lui rispose “non ti approvo, ma non posso impedirtelo”».
Ciò non vuol dire ovviamente che solo le meno intelligenti fanno figli. A maggior ragione se diamo retta ad una ricerca condotta qualche anno fa dall’Università di Pittsburgh, che mise in correlazione l’intelligenza delle donne con il loro aspetto esteriore. Dai risultati emerse che le donne più formose, ovvero quelle caratterizzate da vita stretta e fianchi larghi, avevano un Q.I. superiore alle altre, soprattutto alle supermagre. Risultati speculari anche per i figli delle donne esaminate. La ragione di tutto ciò, secondo gli studiosi, andrebbe ricercata nel grasso presente attorno ai fianchi e alle cosce delle cosiddette “donne-clessidra”, garanzia di più alti livelli di Omega 3, un acido che è essenziale per lo sviluppo del cervello durante la gravidanza. Viceversa pare che il grasso attorno alla vita apporti maggiori livelli di Omega 6, un acido meno adatto allo sviluppo del cervello. È dimostrato scientificamente, peraltro, che gli uomini sono molto più attratti dalle donne-clessidra, piuttosto che da altri tipi. E la ragione sarebbe ancora una volta da ricercare nella storia dell’evoluzione: fianchi larghi erano garanzia di fertilità, propensione alla gravidanza e facilità per il parto. E dunque discendenza e sopravvivenza della specie.
E così non solo più belle e attraenti, ma anche più intelligenti e con figli geni.
È proprio vero, “a chi tutto e a chi niente”.
Fonte:
http://www.huffingtonpost.com/2013/05/22/people-getting-dumber-human-intelligence-victoria-era_n_3293846.html
http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca/donne-curve/donne-curve/donne-curve.html
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