Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

lunedì 15 aprile 2013

L’eroe senza medaglie

Venerdì scorso, sull’ammiraglia Rai, e in prima serata, è stato trasmesso un nuovo, fantasmagorico programma, d’intrattenimento: “Eroi di tutti i giorni”. In uno studio da cerimonia hollywoodiana, con tanto di pubblico di prima qualità (non retribuito, probabilmente), luci e riflettori delle grande occasione e scenografia sapientemente curata, sono andati in scena i gesti di coraggio e di eroismo di alcune persone cosiddette “comuni”, premiate per le loro virtù “eroiche”. A consegnare i trofei, sono stati chiamati alcuni personaggi preclari del jet-set, da Massimiliano Rosolino a Martina Colombari, da Ettore Tirabassi (quello del Commissario Rex) a Enzo Iacchetti. Fin da subito, devo essere sincero, sono stato assalito da un forte senso di nausea. C’era il ragazzino tutto azzimato e impomatato che entrava in scena preceduto da un filmato che lo rappresentava come un cherubino sceso dal cielo; e poi c’era la bimbetta salvata dalle acque, esposta come la personificazione stessa del miracolo, e per questo intimorita e spaventata da tutta quella confusione; e poi c’era l’altro “eroe”, quello che vedendo l’amico privo di sensi, parte con un massaggio cardiaco (imparato da autodidatta guardando i telefilm alla televisione: sic) e continua a massaggiare nonostante questi respiri: c’è da meravigliarsi che il poveretto sia sopravvissuto. A questo punto non ce l’ho più fatta ed ho cambiato canale. Scoprendo solo allora che c’era Crozza alle prese con la parodia di Maroni. Spettacolare.
Perché mi ha dato tanto fastidio questo programma? Ma la ragione è molto semplice: elevare a spettacolo un atto di eroismo, o presunto tale, equivale a svilire in radice tutto ciò che c’è di buono in un gesto come questo. Fare qualcosa per il prossimo, anche e soprattutto a rischio della propria incolumità, è forse l’azione più nobile che possa compiere un uomo, ed è nobile e degna di lode, proprio perché è disinteressata, spontanea e priva di calcolo. Che senso ha conferire un trofeo per un gesto d’altruismo? Chi mai potrà essere all’altezza di consegnare un riconoscimento per un atto di eroismo? E poi, perché? Per gloriarsi del bel gesto, per esporre a mo’ di vanto il proprio eroismo? Quando si decide di aiutare qualcuno lo si fa perché è la parte più profonda di noi stessi che ci spinge, è il senso di umanità che ci fa stringere intorno ai nostri simili. Se c’è qualcuno che affoga, gli si tende la mano istintivamente (si trattasse anche del peggior politicante della prima repubblica…), senza pensare a nulla. Spesso senza neanche valutare i rischi per la propria vita. Ed infatti molte volte accade che i soccorritori rimangano vittime a loro volta. Ebbene, tutto ciò, stride in maniera assordante con lo spettacolo che è andato in onda l’altra sera. L’eroe è per definizione un personaggio schivo, lontano dai riflettori, avvolto da un alone di mistero. Non per nulla nell’antichità classica l’eroe era un semidio, un’entità trascendentale che correva in aiuto dell’uomo, ma che ne restava lontano, inafferrabile, indefinibile. Prometeo, Ercole, Achille, erano figure epiche, mitologiche, modelli da seguire ed emulare, eppure irraggiungibili ed ineguagliabili. L’eroe per essere tale dev’essere un’ombra che passa benefica accanto al prossimo e poi si dilegua; dev’essere anonimo, completamente avulso dall’ordinarietà. Anche perché la presenza costante di un eroe nelle nostre vite ci costringerebbe ad un continuo raffronto con noi stessi, con le nostre piccolezze e miserie quotidiane, e alla lunga ci renderebbe antipatico perfino questo simulacro di perfezione. Quando il 10 giugno del 1981 Alfredino Rampi cade nel pozzo artesiano di Vermicino, nessun soccorritore è in grado raggiungerlo: il cunicolo è troppo stretto e nessuno riesce a calarsi laggiù. Angelo Licheri, tipografo sardo di 37 anni, quella sera, come tutti gli italiani, guarda alla televisione quella tragedia e si rende conto che forse, con il suo fisico esile, riuscirà a calarsi laggiù. Non ci pensa un attimo ed esce. E alla moglie che gli chiede dove stesse andando, risponde “a prendere le sigarette”. È quasi mezzanotte quando gli legano una corda alle caviglie, gli sistemano una torcia elettrica sulla fronte e lo calano a testa in giù. Angelo scende fino a sessanta metri di profondità, nell’oscurità più spaventosa. Raggiunge Alfredino, gli parla, gli pulisce la bocca, cerca di afferrargli la mano, ma non vi riesce a causa del fango e dell’angustia del buco. A quel punto, dall’alto, i soccorritori lo tirano su: da che è sceso sono trascorsi 45 minuti (contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione). Angelo è in stato confusionale e scoppia a piangere per la disperazione di non essere riuscito a salvare la vita di quel bambino. Alfredino verrà dichiarato morto il mattino seguente. Angelo Licheri, in seguito a quei drammatici accadimenti, divenne per tutti “l’Eroe di Vermicino”. I media avevano pronti per lui riflettori, trasmissioni televisive, interviste sui giornali, le autorità si preparavano ad insignirlo di medaglie, targhe e titoli onorifici. Ma egli rifiutò sempre tutto, sostenendo di non sentirsi l’eroe di cui tutti parlavano. E così come era entrato in sordina sulla scena, alla stessa maniera se ne tornò nell’anonimato della sua vita di periferia. Senza chiedere nulla, senza ostentare nulla. Da perfetta “persona comune”. Ecco, questo è un eroe.

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