L’avarizia, detta volgarmente tirchieria o taccagneria, è uno degli aspetti più sgradevoli del carattere di una persona. Ancor più della cattiveria, dell’arroganza e finanche della volgarità d’animo. A differenza dell’avidità, che è la brama di accrescere il proprio possesso, l’avarizia è il desiderio patologico di conservare meticolosamente ciò che già si possiede.
Moliere tra gli altri - già Plauto aveva trattato l’argomento con l’Aulularia - ci ha lasciato un ritratto assai comico di questo genere di persona nella commedia l’Avaro. Arpagone, interpretato anche da Alberto Sordi in una pellicola del 1990, è il prototipo del taccagno, colui che santifica il Dio denaro sull’altare del voluttuario, colui che sacrifica qualsiasi altro valore, compreso l’amore dei figli, a vantaggio del possesso, dell’accumulo.
Non appena hai a che fare con un tirchio, ti rendi subito conto di che persona hai di fronte. Nel regno animale è una tra le specie più oneste e trasparenti che esistano: almeno negli atteggiamenti. Il tirchio infatti non riesce a nascondere nulla, non è ipocrita, e anche se non si esprime a parole, basta un gesto, uno sguardo per capire che intenzioni abbia.
Ora uno studio americano, condotto dalla Claremont Graduate University, ha dimostrato inequivocabilmente che la colpa di questo atteggiamento risiederebbe nel livello di testosterone presente negli individui. «La nostra conclusione - afferma la neuro-economista Karen Redwine, coordinatrice della ricerca - è che il testosterone rende gli uomini tirchi». E dunque la spiegazione a questo punto potrebbe risiedere, non tanto nelle attitudini caratteriali di ogni uomo, modellate dal contesto socio-culturale in cui vive ed è cresciuto, quanto nella meccanica biologica. «Il testosterone - continua la Redwine - blocca l’azione nel cervello dell’ossitocina, la molecola della generosità». Conclusione di tale studio? Quanto più livello di testosterone avremo in circolo, più saremo attaccati al vil denaro. Come a dire che più si è macho(s), più si è tirchi.
Nella mia vita ho incontrato davvero tanti tirchi, personaggi che raggiungevano livelli di avidità patologica. Il mio primo incontro con un soggetto di tal fatta avvenne allo stadio di San Siro. Avevo cinque o sei anni ed ero andato con mio padre a vedere Milan - Cesena. Con i romagnoli giocava ancora Schachner: un’era geologica fa. Insieme a noi c’era anche un mio amico di scuola, accompagnato dal padre. Prima di sederci sulle tribune adocchiai un venditore ambulante e chiesi a mio padre di comprarmi un bel caramellato. E questi me lo concesse. E così cominciai a sgranocchiarmelo sotto gli occhi carichi di cupidigia del mio amico. All’intervallo passò un bibitaro ed io ancora a chiedere: questa volta rimediai un cornetto al cioccolato. Anche il mio amico chiese a suo padre, ma questi gli rispose con un grugnito: «Giannetto, tu il gelato non lo vuoi…, è chiaro? Tu non lo vuoi…!». Terminata la partita ci fermammo presso un baracchino e questa volta ottenni, senza troppi sforzi, un meraviglioso nocciolato candito. A quel punto mio padre, intenerito dallo sguardo lacrimoso del mio amichetto, chiese al genitore: «Ma tu non gli compri niente a Giannetto?». E questi, ancor più alterato: «Ah, no…, non se ne parla neanche. Già ha avuto la partita…! E poi quelle schifezze fanno anche male ai denti». In realtà mio padre aveva acconsentito a comprarmi tutti quei dolciumi perché quella era una giornata speciale: era la prima volta che andavamo allo stadio insieme e voleva che quell’esperienza restasse scolpita nella mia mente. Si trattava in sostanza di un unicum, un’occasione che difficilmente si sarebbe ripetuta. D’altra parte anche i romani antichi dicevano “semel in anno licet insanire”. Ma il padre del mio amico la pensava diversamente.
Negli anni poi, ho conosciuto altri tirchi di altissimo livello, anche tra gli amici più ristretti. Conobbi Mario al liceo, e per anni frequentammo la stessa compagnia. Quando uscivamo si presentava sempre col portafogli semi-vuoto, a cena sceglieva immancabilmente il piatto meno costoso - a meno che non si dividesse il conto, s’intende - e non prendeva mai la sua automobile. Non telefonava mai, e se proprio doveva fare una comunicazione urgente, faceva tre squilli brevissimi e buttava giù. Ed immancabilmente trovava il pollo che lo richiamava: cioè io. Aveva poi la simpatica abitudine di chiedere sempre lo sconto, in qualsiasi luogo si trovasse: «Io sono cliente fisso, tu lo sai bene. L’altro castagnaro voleva incartarmi tre caldarroste in più…, c’ha provato il furfante…! Ma io gliel’ho detto, “sono cliente di Biagio mi dispiace”. Vanno bene due euro per il sacchetto da mezzo chilo?». Era così tirchio che una volta lo vidi mercanteggiare, fino allo sfinimento, con un ambulante boliviano, pur di avere lo sconto su un flauto da tre euro. Durante il servizio di leva poi, riuscì a mettere da parte circa due milioni di vecchie lire con la paga di caporale. Il suo attaccamento al denaro era talmente maniacale che le banconote le chiamava affettuosamente “fratellini”, e sul portafogli c’era una decalcomania con il simbolo stradale di senso unico. Una volta facemmo un viaggio in Grecia e, siccome voleva realizzare un grosso affare con il cambio in nero, affidò una gran parte della somma sanguinosamente stanziata, ad un losco cambia-valute abusivo. Quando dopo qualche minuto si accorse di essere stato fregato clamorosamente, cercò di rintracciarlo per le vie del Pireo, ma non cavò il classico ragno dal buco. Per punirsi dell’imbroglio subito fece tutto il viaggio successivo, da Atene a Ios, sulla prora della nave a petto scoperto, prode come uno spartano. All’arrivo aveva un febbrone da cavallo. Un’altra volta invece eravamo a Bormio, per la settimana bianca. Dopo la sciata del mattino ci recammo alle terme. Mario non voleva entrare, ma dai e dai, riuscimmo a convincerlo. Quando seppe che con il biglietto d’ingresso si potevano fare tutte le saune che si desiderava, non ebbe più freni. In due ore circa di permanenza nel centro benessere, si praticò la bellezza di sette saune consecutive. All’uscita si afflosciò al suolo come un conigliotto selvatico. Era completamente disidratato, però respirava.
Un altro bell’esemplare di spilorcio raro lo trovai in fiera: si trattava di un collega. Al mattino, prima di iniziare il servizio, mi recavo al bar con lui per far colazione. Prendevo sempre un latte macchiato e una brioche. Egli invece, dato che era anche abbastanza ingordo, divorava minimo tre paste dolci. E se non gli bastava il suo cappuccino, "pucciava" assai elegantemente anche nel mio latte macchiato. Quando poi si presentava alla cassa per pagare, dichiarava sempre una brioche. E mentre la cassiera batteva lo scontrino, mi strizzava l’occhio come per dire: “Hai visto quanto sono dritto?”. Una brutta mattina però, alla cassa non trovò la cassiera, ma il titolare: «Cosa paga il signore?».
«Dunque, pago caffè e brioche».
«Benissimo: sono venticinque euro e trenta centesimo».
Mario rimase di sale: «Come dice, scusi? Lei sta scherzando, vero? Un caffè e una brioche venticinque euro?».
«Beh, sa com’è, c’erano una ventina di brioche arretrate…».
Fu una delle figure più infami a cui mi sia dato di assistere.
E si potrebbe andare avanti con gli esempi…! Qualche tempo fa morì un lontano zio e, subito dopo il funerale, tutti i parenti si ritrovarono uniti intorno alla famiglia colpita dal lutto. Nel meridione c’è l’usanza di portare generi alimentari di conforto durante tali circostanze, e anche quella volta non mancò proprio nulla sulla tavola. Nell’ampia cucina vi erano enormi quantità di brioche, maritozzi e paste dolci; e poi diversi termos di te, latte e caffè. Un tale, marito di una parente molto stretta del morto, cominciò ad ingozzarsi in maniera oscena. Tutti conoscevano le sue stranezze e la sua taccagneria, ma quella volta sembrava non avere remore. E a chiunque gli passasse a tiro, suggeriva con molta foga: «Prendi, prendi ancora un babà…, o anche un tarallo con la crema…! E’ tutto gratis…! Coraggio, non essere timido». Fatto sta che, trascorsa la giornata tra pianti e lamenti dei congiunti, nel cuore della notte il pover’uomo cominciò ad urlare disperato. Tutti pensarono subito che fosse il dolore per la dipartita del parente, la causa di quello strazio. La realtà invece era tutt’altra, ed aveva assai poco di struggente: si trattava di un’indigestione di portata quasi letale.
Un’altra volta ero in un supermercato di Morbegno per far la spesa con amici. Ad un tratto Leonardo, straordinario intenditore di vino, si stacca dal gruppo e tira su una bottiglia di Marzemino riserva. Costosissima. Quando Daniele, detto il Profeta, si accorge della cosa, sbotta irridente: «Ma chi è che ha preso quella bottiglia? Siamo forse impazziti?». Lorenzo gli risponde che è stato Leonardo. E così il Profeta, approfittando dell’assenza del nostro amico, impegnato nella difficile scelta del digestivo, afferra la bottiglia e si dilegua verso il bancone dei vini. Dopo un paio di minuti torna con una fiasca da cinque litri di Folonari: «Costa di meno e ce n’è pure di più…». Quando Leonardo si accorge della sostituzione, dà in escandescenza: «E il mio Marzemino?». «Niente, niente costava troppo…» - risponde il Profeta sbrigativo. «E se me lo compro io e me lo scolo tutto da solo?». «Ah beh, libero di farlo».
Alla sera bevemmo tutti il Folonari. Eravamo una banda di taccagni matricolati.
Nessun commento:
Posta un commento