Il 29 maggio del 1953, due uomini (Sir Edmund Hillary e Tenzing Norgay) salivano per la prima volta sulla vetta più alta del Mondo, l’Everest. Un’impresa ai limiti dell’impossibile, considerata l’arretratezza delle tecnologie e dell’abbigliamento dell’epoca, la carenza dei materiali, la mancanza di conoscenza dei luoghi e della via di salita e la falsa convinzione che a quelle quote non ci fosse la possibilità di sopravvivere. E invece, a dispetto di tutto e di tutti, alle 11,30 di quella mattina, dopo aver risalito il Colle Sud e la cresta sud-est, il trentatreenne neozelandese, e lo sherpa nepalese, posarono i loro piedi sulla cima inviolata. Davanti ai loro occhi il mondo come nessuno l’aveva mai visto prima d’allora. In segno di ringraziamento, pare che Hillary depose sulla neve una croce, mentre Tenzing biscotti e cioccolato. I due non poterono restare che pochi minuti lassù: a causa di un problema con l’erogatore dell’ossigeno, dovettero subito prendere la via del ritorno. Mesi e mesi di preparazione, raccolta di fondi, studio, pratiche burocratiche; una fatica immane portata a compimento tra mille incognite, paure, senza certezze: e il tutto per una manciata di minuti sulla vetta con lo sguardo all’orizzonte, là dove si distingue la curvatura della Terra. La quint’essenza dell’avventura. In questi giorni, in occasione del 60esimo della prima scalata, il campo base dell’Everest si è trasformato in una vera e propria cittadina dell’alta quota: mille gli ospiti saliti da Kathmandù, settecento da Lhasa. Un unico obiettivo: la vetta. In questo paesaggio lunare, fatto di ghiaccio, morene e desolazione (il silenzio ormai solo un ricordo), centinaia di tende di tutti i colori danno accoglienza a danarosi clienti desiderosi d’immortalare la loro anonima vita con un’impresa “eroica”. Si arriva a pagare fino a 80mila dollari per il pacchetto completo de-lux: camera da letto e soggiorno, più studio con postazione Internet e bagno privato. In attesa del proprio turno di salita, si godono panorami mozzafiato e acclimatazione crogiolandosi al sole. E nel frattempo scrivono su Twetter o Facebook delle loro sensazioni, delle loro speranze, dell’epopea che presto si scriverà sulle loro ardite gesta sul tetto del Mondo. E gli sherpa che fanno? Dopo aver portato fin lassù tonnellate di materiale, aiutati peraltro dagli elicotteri (un tempo andava tutto a forza di gambe e braccia), si impegnano quotidianamente ad attrezzare la via di salita con corde fisse, scalette, funi inchiodate nel ghiaccio e nella roccia. Il tutto per rendere possibile ciò che sarebbe impossibile ai dilettanti. Sono decenni ormai che la montagna sacra, la Madre del mondo come la chiamano tibetani, è diventata terreno di conquista per spedizioni commerciali. Paghi una certa cifra ed hai la certezza quasi matematica di arrivare in cima. Jon Krakauer nel 1996 partecipò come giornalista della rivista Outside ad una di queste spedizioni. Si trattava di un’occasione unica per un appassionato di montagna come lui, il sogno di una vita. Ciò che descrisse nel libro pubblicato un paio d’anni dopo tuttavia (Into thin air – Aria sottile), è uno degli atti d’accusa più veritieri e spietati contro questo genere di attività. Il 10 maggio, dopo un lungo periodo di acclimatazione a diverse quote, finalmente raggiunge la vetta insieme a molti dei suoi compagni professionisti e dilettanti. Sono tutti sfiniti. Nel primo pomeriggio, quando ancora alcuni scalatori sono nei pressi della cima, una tempesta improvvisa li aggredisce, costringendoli ad un bivacco disperato. Krakauer riesce a riparare presso le tende del Colle Sud, ma nove alpinisti, compresi Rob Hall e Scott Fisher, due capi-spedizione, rimangono per sempre tra i ghiacci del Sagarmatha. Rob Hall, prima di morire assiderato chiama la moglie col telefono satellitare e le dice: “Ciao tesoro, come va? Spero che tu sia comoda in un bel letto caldo”. È l’ultima volta che i due si sentono. Krakauer descrive minuziosamente tutto ciò che accade in quei drammatici giorni, tutta l’approssimazione con cui clienti e professionisti si avvicinano alla vetta (alcuni clienti, dice l’autore, non sono neanche in grado di allacciare da soli un paio di ramponi). Ci sono scalatori improvvisati che utilizzano addirittura gli sherpa per farsi trainare in salita a dispetto di quanto detto in pubblicità: “Allora, avete sete di avventure? Forse sognate di salire in cima a una montagna altissima? La Adventure Consultants è l’agenzia che fa per voi. Specializzati negli aspetti pratici della realizzazione dei sogni, collaboriamo per farvi raggiungere la vostra meta. Non vi trascineremo di peso, dovrete lavorare sodo, ma vi garantiamo la sicurezza e il successo”. Promesse inconsistenti come s’è visto: di fronte alla furia della natura, nessuno può garantire alcunché.
Ad oggi l’Everest è stato conquistato migliaia di volte (5.104 al 2010), non senza peraltro grossi tributi di sangue (oltre 200 vittime). L’alpinista più giovane ad aver raggiunto la vetta è Jordan Romero, all’età di 13 anni; l’alpinista più anziano è il nepalese Min Bahadur Sherchan, 76 anni. Nel maggio del 1996 Hans Kammerlander ha compiuto la prima discesa dalla vetta con gli sci; nel 2001 Marco Siffredi è venuto giù in snowboard. La montagna sacra, come una qualsiasi pista di Courmayeur.
Quando Walter Bonatti diede l’addio all’alpinismo, lo fece in aperta polemica con un mondo che non riconosceva più. Per lui la via di montagna era soprattutto conoscenza, rispetto, lealtà, sfida senza utilizzo di mezzi in grado di svilire l’impresa, di eliminare l’imponderabile legato all’avventura. Quando in un’intervista un giornalista, gli chiese “Se uno viene da lei e le offre, non so, 100mila lire per andare sul Dente del Gigante, lei lo porta?” egli risponde: “Mi sono sempre considerato una pessima guida, in quanto ho sempre fatto dell’alpinismo accademico. Io in montagna son sempre andato e andrò sempre con amici. Non posso concepire che una guida possa fare dell’alpinismo dietro compenso. In montagna ci si lega per la vita e per la morte”.
Ecco, oggi invece ci si lega per denaro. E così, là dove un tempo vi erano grandi imprese individuali, oggi abbiamo colonne interminabili di improbabili eroi in cerca di notorietà. Tant’è vero che gli stessi professionisti, per riscuotere un quarto d’ora di successo, sono costretti ad inventarsi gesti sempre più eclatanti, sempre più arditi (e stupidi). Un giorno un giovane alpinista chiese a Messner come avrebbe potuto diventare famoso. E questi gli rispose: dal momento che ormai tutto è stato conquistato, l’unica è provare con le traversate (si sale da un versante e si ridiscende dall’altro). Una risposta intrinsecamente patetica. Come mettere tonnellate di sale per dare un minimo di sapore ad una minestra insulsa. L’impresa solitaria, il gesto che fa sgranare gli occhi di stupore non esiste più: oggi abbiamo agenzie turistiche disposte a portarci in capo al Mondo in cambio di un assegno. Non c’è più nulla di eroico in tutto ciò. Scrive Massimo Fini: «Soldini va per mare con una barca di diciotto metri, così attrezzata, tecnologica, computerizzata e perfetta che potrebbe guidarla anche un bambino. E quando arriva a destinazione dice: “E tutto merito del lavoro d’equipe”. Ma che gusto c’è? Va per mare per cercare gli “interminati spazi” i “sovrumani silenzi”, la “profondissima quiete” della natura, la solitudine, e sta tutto il giorno attaccato al telefonino a parlar con questo e con quello […]. Ma che senso ha? Stia a casa, che è meglio. O anneghi, una volta per tutte».
Ecco appunto: state a casa…!
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