Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

giovedì 12 settembre 2013

Marche & Abruzzo - Nona parte

Dopo colazione ci congediamo da Stefano augurandogli buona fortuna. A lui e a tutti gli eroi che cercano di riportare la vita in questa distruzione. Ma prima di partire, un’ultima domanda: «Dove si va per la Fontana delle 99 cannelle?». «Oh, è facile: scendete giù per questa via, lungo borgo Rivera e la trovate. È semplicissimo. Buon viaggio». E così facciamo. La strada scende quasi a picco, strettissima, con curve a gomito e un acciottolato a tratti insidioso. I freni durano fatica a fermare la corsa delle biciclette che diverrebbe folle e incontrollata in un attimo. Tanto che si rende necessaria una regolazione volante. Che detta così sembra gran cosa: in realtà si tratta semplicemente di girare un perno per tendere di più il cavo del freno. Si scende ancora, altri tornanti, altro stridore di pattini sul cerchione. E finalmente, in corrispondenza della Chiesa di San Vito, eccoci di fronte al monumento più conosciuto dell’Aquila. Secondo forse solo alla Basilica di Collemaggio. Costruita nel 1272 ad opera dell’architetto Tancredi da Pentima, la fontana è un prodigio della geometria, ancor prima di un’opera d’arte idraulica. La sua pianta trapezoidale, posta su di un’area concava e ribassata, si presenta con tre fronti e colpisce per il suo impatto prospettico. Tanto da provocare quasi uno stordimento visivo. Anche perché dalle 99 cannelle presenti lungo il perimetro e sopra le cinque vasche, si levano senza sosta sonorità di cascata d’alta montagna che creano un caos sensoriale, in cui è “dolce naufragare”. Il perché di quel numero 99 è ancora un mistero. Alcuni sostengono che i mascheroni dai quali scende l’acqua rappresentino i signori dei novantanove castelli che contribuirono alla fondazione dell’Aquila. Altri mettono in dubbio tale teoria. Di certo c’è che tale opera fu realizzata a beneficio di tutta la cittadinanza. E per preservarne l’assoluta indipendenza e dunque la possibilità di utilizzo da parte di tutti, venne tenuta nascosta la sorgente dalla quale attingeva acqua. Ed anzi leggenda vuole che il povero Tancredi da Pentima, ultimati i lavori, sia stato giustiziato affinché non potesse un giorno rivelare tale segreto. Accidenti che bel ringraziamento…! La fontana, peraltro, dispone di un piano orizzontale per il lavaggio del bucato, e pare che fino al primi decenni del secolo passato, fosse ancora utilizzato dalle massaie della zona.
È giunta l’ora di ripartire. Superato l’Arco San Jacopo della Rivera ci si lascia alle spalle la città e si prende direzione Sulmona. Oggi dovrebbe essere una giornata relativamente tranquilla, con pochi chilometri e ancor meno dislivelli. È stata appositamente disegnata in previsione della tappa successiva, che ci condurrà a sfidare le aspre altezze della Majella. In realtà, come vedremo, la giornata ci riserverà molte sorprese. Ed infatti, percorsi neanche venti chilometri, siamo nei pressi di Fossa: prima divagazione. Una serie di cartelli sovrapposti indicano: “Chiesa di Santa Maria ad Cryptas”, “Convento di Sant’Angelo”, “Monastero di Santo Spirito”. Che la strada punti decisa verso la montagna non ci sconvolge più di tanto: in fondo oggi è una tappa d’alleggerimento…! E così, scalate rapidamente tutte le marce disponibili, entriamo in paese. Fossa è un piccolo borgo medievale, costruito alle pendici del Monte Ocre. Da qui comincia la catena del Sirente Velino. C’è una necropoli risalente all’Età del Ferro qui intorno, ma a noi interessano soprattutto gli eremi. In paese non c’è anima viva, e le tracce lasciate del sisma sono ben visibili. Qui il terremoto ha fatto cinque vittime, e l’intera popolazione è stata evacuata più a valle, oltre la ferrovia, in una delle famigerate “new town”. Proseguendo sulla strada incrociamo due uomini di mezza età, abitanti del posto quando ancora qui c’era vita. Sono qui per una passeggiata, e per non perdere familiarità con questi luoghi. Ci raccontano del cataclisma, e del dopo. Ora abitano giù, con tutti gli altri. Nelle loro parole c’è una profonda amarezza per quello che hanno subito, ma dimostrano anche una grande forza d’animo, un coraggio fiero e indomito. Tipico delle genti di montagna. D’altra parte qui ce l’hanno nel sangue la danza della terra. Chiediamo loro com’è stata la ricostruzione, se hanno sentito la vicinanza dello Stato. E già mi aspetto, e forse mi auguro qualche frase di profondo risentimento. E invece parlano con grande rispetto e stima per ciò che è stato fatto per loro: la popolazione è stata assistita nel migliore dei modi fin da subito e in sei mesi ogni famiglia ha ricevuto un’adeguata sistemazione. «Certo le nuove case sono laggiù…, c’è caldo e sole tutto il giorno…! Qui avevamo il fresco, eravamo all’ombra della montagna…». Ma sono le uniche parole di scontento che udiamo. «E quando è previsto il ritorno a casa» - chiedo in punta di piedi. «Eh chi lo sa…! Prima di sistemare il paese, devono mettere in sicurezza la montagna…». Le parole cadono su di una mano che volteggia in aria: come a dire che ne passerà di tempo. Chiediamo informazioni circa i due eremi. Il primo, quello di Sant’Angelo, si trova in alto, a strapiombo su di una rupe. Ma è inagibile. Il secondo invece è aperto al pubblico. I nostri due interlocutori ci consigliano di continuare a seguire la strada e di superare senza timore le transenne che incontreremo poco più avanti. Sono lì da quattro anni, ma non c’è alcun pericolo. E così facciamo. Il Monastero Fortezza di Santo Spirito risale al XIII secolo ed appartenne all’ordine dei cistercensi. Le sue possenti mura si affacciano su di una terrazza che, dalle pendici del Monte Ocre, guarda la valle modellata dal fiume Aterno. Quando arriviamo c’è uno strano movimento di persone vestite da gran festa. Pensiamo subito ad un matrimonio. In realtà la cerimonia si è svolta ieri, e costoro sono gli invitati che hanno trascorso la notte ospiti del Monastero. Ora riconvertito a struttura ricettiva. Nelle sue enormi sale vi sono affreschi medievali, ed in una di esse vi è allestita la mostra delle Madonne lignee d’Abruzzo. Alcune risalgono al primo medioevo e sono di assai pregevole fattura.
E così, dopo una breve visita si riparte. Scendiamo giù per una strada dissestata, fino a che non incrociamo nuovamente la provinciale. Da qui si prosegue lasciandoci ancora una volta “divagare” da un altro cartello: “Grotte di Stiffe”. Ma sì, non s’è mica detto che questa è una tappa di puro trasferimento? E dunque concediamoci pure qualche chilometro in più fuori programma. Prima di giungere a destinazione, passiamo davanti alla “new town” di Villa Sant’Angelo, un’altra piccola storia nel dramma del terremoto. Un piccolo villaggio fatto di casette basse di legno, ben ordinate e con un piccolo giardino intorno. Qui i morti furono 17, ed il paese è tutto da ricostruire. Quando Dio vorrà, naturalmente. Proseguendo sento nuovamente la bicicletta affondare troppo sotto le mie pedalate: si tratta della terza foratura. Mi fermo a sostituire la gomma e nel frattempo Alessandra e Alfio vanno ad informarsi circa queste grotte. La visita guidata dura circa due ore. Ed il costo è di dieci euro. Ripartiamo senza indugio. Un leggero saliscendi ci conduce a Fontecchio, altro grazioso borgo medievale. Proseguo da solo mentre gli altri si fermano a visitarlo. Ci ritroviamo poco dopo sulla strada che, abbandonata la provinciale, sale verso Secinaro. Fa un caldo atroce, sono senz’acqua e la salita infierisce senza pietà. Avrei volentieri evitato quest’ultima fatica, ma Alfio ci teneva troppo a visitare il castello di Gagliano Aterno. E questa è l’unica strada che possiamo percorrere. E dunque, dopo un lungo tragitto per lo più in salita ed esposto al sole, eccoci a Gagliano. Abbiamo bisogno di riposarci e recuperare le forze. Tra l’altro non ci siamo ancora fermati per la sosta pranzo. Il castello ovviamente è chiuso a causa dei danni provocati dal sisma e così ci accomodiamo ai tavolini dell’unico bar del paese. Il frigo dei gelati e delle bibite viene letteralmente saccheggiato. Il titolare parla con un cliente del posto, e la nostra presenza non passa inosservata. Anche perché in giro non c’è anima viva a parte noi. Entrambi ci chiedono notizie del nostro viaggio. Racconto il minimo indispensabile e attacco con le mie domande. E così scopro due interlocutori inaspettatamente esperti di storia antica. Mi raccontano che in questi luoghi i romani trovarono pane per i loro denti durante la Guerra Sociale del I secolo a.C. Siamo nella terra dei Peligni e poco distante ci sono i resti di Corfinium, la prima capitale della Lega Italica. Tra questi monti e più giù, verso il Sannio, tra il 91 e l’88 a.C. Piceni, Vestini, Marrucini, Frentani, Peligni, Marsi e Sanniti, combatterono per la loro libertà. E ne pagarono le atroci conseguenze. E dunque, come non visitare Corfinium? In fondo si tratta solo di allungare di qualche chilometro. Dai 650 metri di Gagliano scendiamo velocemente ai 490 di Castelvecchio Subéquo. Qui riprendiamo la Statale n.5, l’antica “Via Tiburtina Valeria” e, seguendo la traccia del fiume Aterno, c’immergiamo nelle spettacolari Gole di San Venanzio. Alle nostre spalle i Monti del Sirente-Velino; di fronte le prime avvisaglie della Majella. Nel mezzo la verde pianura alluvionale su cui si intravede Sulmona. Superata Raiano, raggiungiamo i resti di Corfinium: due monumentali portali in pietra, con apposta una targa: “In questi luoghi sorgeva l’antica Corfinium, cuore della terra Peligna, assurta a capitale dei Confederati nella Guerra Sociale del I secolo a.C. e ribattezzata ITALIA - sacro nome primieramente qui acclamato, auspicio all’unione di tutte le genti della Penisola, nella Patria Comune. Nel bimillenario ovidiano - MCLVIII”.
E si riparte seguendo la Statale n.17 dell’Appennino Abruzzese e Apulo Sannitica. Prima di entrare a Sulmona ci sarebbe da dare un’occhiata ancora all’Abbazia di Santo Spirito al Morrone, edificata per volere di Celestino V nel 1241, e alla Villa di Ovidio. Ma ormai abbiamo oltre 90 chilometri nelle gambe. Per oggi può bastare. E per fortuna che si trattava di una tappa di alleggerimento. Seguendo le indicazioni del navigatore di Alfio percorriamo tutto Corso Ovidio, passiamo davanti all’elegante Complesso della Santissima Annunziata, superiamo la Piazza XX Settembre, con la statua bronzea di Ovidio, e ci attestiamo di fronte alle splendide arcate dell’antico acquedotto fatto edificare da Manfredi di Svevia nel 1256. Nell’attesa che il navigatore si raccapezzi, un sorso d’acqua dalla Fontana del Vecchio, altro piccolo gioiello medievale. Da che siamo entrati a Sulmona la nostra attenzione è stata rapita dai moltissimi negozi che espongono e vendono confetti di ogni genere e gusto. D’altra parte è da secoli che qui si produce questa piccola delizia. “Pelino”, ad esempio, sottolinea con orgoglio che la sua attività data fin dal 1783. E così sulle bancarelle e nelle vetrine si vedono i classici confetti alla mandorla, al cioccolato, alla nocciola. Ma oltre a questi ce ne sono anche alla frutta, al pistacchio, alla liquirizia, al rosolio. E anche i colori sono assai vivaci e variegati. Alcuni negozi poi espongono delle composizioni floreali realizzate con intrecci di confetti: i girasoli sono deliziosi. Alessandra è tentata di acquistarne qualche esemplare per la nipote Cecilia, ma di fronte alla prospettiva di dover stipare quel prodigio di fragilità nelle borse da bici, rinuncia. Ci si accontenta di un semplice assaggio opportunamente raccolto in un sacchetto di plastica. Il navigatore non dà segni di vita e così chiediamo informazioni ai locali. Ci rispondono con molta cortesia e gentilezza. La cadenza degli abitanti di queste terre ha per me un che di familiare: lasciateci alle spalle le parlate sabine dell’aquilano (qualcosa di assai prossimo al dialetto romano), siamo in una zona storicamente legata alla cultura sannita, e dunque campana. Ed infatti il modo di parlare di queste genti ha molto del dialetto napoletano. Questo viaggio, oltre a tutto il resto, ci sta regalando anche un’inaspettata scoperta dei diversi idiomi in uso nei luoghi che visitiamo, e il mutamento repentino degli stessi, ci da la misura delle distanze che le nostre gambe stanno macinando.
Alla fine riusciamo a rintracciare il nostro bed and breakfast. Si trova a due passi dal centro. Per pochi euro a testa disponiamo di un intero appartamento, con tanto di uso cucina. E se non fosse così tardi potremmo approfittarne per prepararci qualcosa da noi. Peraltro Simona sarebbe anche un’ottima cuoca…! Ma come pretendere che le donne si mettano a spadellare dopo un’intera giornata passata in bicicletta? E così, ottimamente consigliati dal titolare del bed and breakfast, ce ne andiamo da “Clemente”: grigliata di carne, con annessi arrosticini, e Montepulciano d’ordinanza. Cosa chiedere di più alla vita? Un Lucano, forse? Ma quale Lucano...! Siamo in Abruzzo? E allora un bel Ratafìa.

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