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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 20 settembre 2013

I soldi non fanno la felicità, ma essere felici paga

Che i soldi non facciano la felicità è risaputo. Anche se non si è mai capito chi abbia coniato questo proverbio. Qualcuno sostiene che il primo a pronunciare queste parole sia stato un tizio povero in canna, dopo aver letto la favola di Esopo, quella della volpe e l’uva. Di certo sappiano chi ha completato il concetto, aggiungendo “senza dubbio stanno parlando dei soldi degli altri” (Woody Allen). Qualcun altro, poi è andato più oltre: “Se i soldi non danno la felicità… figuriamoci la miseria!!?”. E ancora: “Si potrebbe obiettare che i soldi, è vero, non danno la felicità, però aiutano, eccome se aiutano!”. E via discorrendo. Nella sostanza però il concetto non cambia: fior di studi scientifici hanno scandagliato negli anni questo delicato rapporto che lega l’essere umano al denaro, all’avere, all’accaparramento, e dai risultati sembra davvero che la ricchezza abbia poco a che fare la felicità. Eric Fromm in Avere o Essere? scrive: «Marx affermava che il lusso è un vizio esattamente come la povertà e che dovremmo proporci come meta quella di “essere” molto, non già di “avere” molto». Poi però, ne L’arte di amare, aggiunge: «La felicità dell’uomo moderno: guardare le vetrine e comprare tutto quello che può permettersi, in contanti o a rate». E in questa considerazione amara e sarcastica, c’è tutto la sua visuale pessimistica sulla china che il genere umano ha intrapreso dal dopoguerra in poi.
Il professore Satya Paul, docente di economia presso la University of Western Sydney, ha preso per buono il vecchio proverbio, ma ha provato ad invertire i fattori e si è chiesto: “Ok, money can’t buy happiness, but being happy pays?”. Ovvero, assodato che i soldi non fanno la felicità, è possibile che le persone felici guadagnino di più delle persone infelici? E cioè che la felicità consenta un maggior successo in campo economico? Per dare una risposta a tale domanda il Professor Paul ha preso in esame i dati relativi all’indagine “Household, Income and Labour Dynamics in Australia”, comparandoli con i livelli di felicità dichiarati da 9.300 persone, negli anni 2001 - 2005. Il risultato ha dato conferma all’intuizione: le persone felici e ottimiste erano più attive e più produttive. E oltre a ciò, avevano un livello di stress lavorativo più basso rispetto a coloro che si dichiaravano infelici e pessimisti. La ricerca ha evidenziato che le persone soddisfatte e in armonia con loro stesse e con l’ambiente lavorativo, guadagnavano 1.766,70 dollari australiani (circa 1.200 euro) in più rispetto a chi, su una scala da 0 a 10, dichiarava un livello di soddisfazione pari a 0. Ma non finisce qui perché lo studio ha dimostrato che esistono due categorie di lavoratori felici e soddisfatti: ci sono quelli che lavorano più ore perché amano il proprio lavoro (con conseguente busta paga più pesante) e quelli che lavorano meno per poter godere di un maggior equilibrio tra lavoro e vita. In entrambi i casi, le persone felici tendono a lavorare meglio e ad essere più produttive, e dunque a guadagnare di più rispetto a quelle insoddisfatte. Dalla ricerca emerge inoltre che le cattive condizioni di salute di un lavoratore incidono negativamente sulla produttività e che conseguentemente il reddito tende a calare fino a 793,83 dollari all’anno (576 euro); che i laureati guadagnano tendenzialmente 8.408 dollari in più all’anno rispetto agli altri lavoratori; e che le donne guadagnano 8.781 dollari in meno rispetto ai maschi. Chi vive in una grande città australiana poi, tende a guadagnare circa duemila dollari in più rispetto a chi vive in una piccola, e la paga più alta si consegue all’età di 50 anni.
Cosa se ne trae da tutto ciò? In primo luogo che o il proprio lavoro piace, o è meglio cambiare aria. Restare comporta insoddisfazione, infelicità e, come abbiamo visto, reddito più basso. Certo la situazione odierna non consente grosse opportunità, e lasciare il certo (anche se vomitevole) per l’incerto comporta un coraggio da leoni. Ma occorre anche pensare a se stessi, alla propria esistenza, e se nel futuro non si vede altro che noia e angoscia, c’è davvero da chiedersi cosa sia davvero importante. Martha Medeiros scrive: “Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, chi rinuncia ad inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta di fuggire ai consigli sensati”. Massimo Fini, contro-corrente come al soltio, fa un passo oltre: «Nella situazione ideale si troverebbero i disoccupati e i cassintegrati, se non fossero morsi dal tarlo di non avere ciò che altri posseggono. Vivere senza lavorare è sempre stato il sogno dell’uomo, finché ha avuto la testa». E aggiunge: «Qualche anno fa, in una grigia giornata dei primi di ottobre, mi trovavo in uno dei splendidi Bagni liberty di Agrigento […]. La spiaggia era deserta. C’era solo un ragazzo a qualche sdraio di distanza. Attaccai discorso. Mi raccontò che per quattro mesi d’inverno lavorava come muratore a Torino, il resto lo passava nella sua città natale vivendo di quanto aveva guadagnato e potendo contare su quella rete familiare che al Sud esiste ancora. “Certo” disse “non posso permettermi la Porsche, ma ho a mia disposizione il tempo”. “Caro ragazzo” risposi “tu forse non lo sai, ma sei un filosofo”. Noi, invece, siamo tutti degli emeriti coglioni» (Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2013).

Fonte: http://www.smh.com.au/lifestyle/life/money-cant-buy-happiness-but-being-happy-pays-20130917-2tx7o.html

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