Un paio di giorni fa è comparsa sui giornali una notizia piuttosto originale, vale a dire una sentenza di condanna per “stalking condominiale” emessa nel padovano nei confronti di un uomo di 43 anni. Il provvedimento del giudice, giunto alla fine di un lungo iter processuale - in cui il reo ha collezionato ben otto denunce per la stessa tipologia di reato - , ha stabilito che l’uomo dovrà abbandonare immediatamente l’appartamento in cui vive con la fidanzata, e non potrà più avvicinarsi allo stabile se non a distanza di minimo cinquecento metri. Si, ma qual è la colpa che si imputa a questo stalker? L’articolo 612 bis del Codice Penale, richiamato dalla sentenza e introdotto con la legge del 2009, fa riferimento ai cosiddetti “atti persecutori”. Tale fattispecie di reato, come si ricorderà, venne introdotta nell’ordinamento come tutela contro il fenomeno sempre crescente di violenza fisica e psicologica sulle donne angariate dagli ex partner. Ora però, con questa interpretazione giurisprudenziale, tale tutela viene estesa per analogia anche a tutte quelle situazioni in cui c’è una perdurante attività di molestia, che procura alterazioni dello stile di vita o stati di ansia. Nello specifico le molestie persecutorie messe in atto dal reo consistevano in performance amorose particolarmente focose e rumorose – nel cuore della notte ovviamente – , associate a musica a tutto volume e oggetti scagliati contro le pareti. E per chi protestava, minacce e insulti da trivio. I vicini, stanchi di sopportare tutte queste angherie, si sono rivolti alla giustizia, e finalmente hanno ottenuto l’allontanamento coatto del “simpaticone”.
Ogni anno, stando agli ultimi dati forniti dall’Anaci, l’associazione nazionale amministratori condominiali e immobiliari, ben due milioni di italiani sono coinvolti in furibonde liti condominiali. Una cifra record che ci da la dimensione del grado di litigiosità del nostro pacifico popolo. Liti condominiali e sinistri stradali: il core business degli studi legali d’Italia. Quando andavo all’Università, il mio professore di procedura civile spesso ci parlava delle cause tra condomini. Usava sempre parole sarcastiche per definire gli atteggiamenti delle parti in lite, quasi uno sberleffo verso individui che, avendo perso quello che era il reale oggetto del contendere, si abbeveravano con piacere alla fonte della rabbia e della vendetta fine a se stessa. Per il puro gusto dello sfogo violento. Tant’è vero che, diceva sempre il professore, quando si arrivava a sentenza, nessuna delle parti manifestava gioia o entusiasmo: nemmeno la parte vincitrice. “Eh ora che si fa? – pare che fosse la domanda più ricorrente rivolta agli avvocati – Come procediamo da domani?”. “Come che si fa? Abbiamo vinto. Finisce qui!”. “No…, davvero? Quanto mi dispiace…”. Sono passati alcuni anni da quelle lezioni, ma non credo la faccenda sia mutata di molto. Anzi, probabilmente si è ulteriormente aggravata se diamo per buoni i dati dell’Osservatorio nazionale sullo stalking, secondo i quali, soltanto a Roma quello condominiale rappresenta il 27% dei casi di violenza. L’Anammi, l’associazione nazional-europea degli amministratori di immobili, ha provato a stilare una lista di comportamenti che maggiormente inducono alla lite condominiale: al primo posto ci sono i rumori e gli odori provenienti dagli altri appartamenti, poi l’invasione delle aree comuni, l’innaffiatura di piante sul balcone, la presenza degli animali domestici, il bucato in esposizione, mozziconi o briciole gettati dalla finestra. Che poi, diciamolo, sono i dispettucci più utilizzati dai rancorosi condomini per infliggere sofferenza al vicino antipatico. D’altra parte la convivenza gomito a gomito non è per nulla facile, bisogna pur ammetterlo, e il concetto di “normale tollerabilità” di cui parla il Codice Civile a volte è pura utopia. Oggi in Italia otto persone su dieci vivono in un condominio, e stante la difficile crisi economica che ci troviamo a vivere, le tensioni sociali e personali rischiano di esplodere in maniera sempre più virulenta. Prima di trasferirmi a Crema, ho vissuto per molti anni in un condominio di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. Si trattava di uno stabile piuttosto signorile, ma non si faceva mancare nulla del campionario classico di cui stiamo parlando: arabeschi sulle carrozzerie delle automobili, soppressione fisica di animali da compagnia, stratagemmi per far suonare i citofoni nel cuore della notte (scotch o chewingum opportunamente posizionati sulla pulsantiera), mozziconi di sigaretta lanciati con eleganza da un balcone all’altro, spazi comuni occupati impunemente e altre amenità simili. Certo la vita di condominio non è semplice, occorre un grande spirito di adattamento e sacrificio. Una notte ricordo che un inquilino del settimo piano, gonfio di Barbera all’inverosimile, sbagliò clamorosamente a pigiare il piano giusto sull’ascensore, e cominciò a suonare il campanello pensando di essere di fronte alla sua porta di casa. Mia madre era incinta del secondo figlio e mio padre a lavoro. Spaventata a morte si rifiutò ovviamente di aprire, e questi cominciò a inveire e picchiare contro la porta. Per fortuna il nostro dirimpettaio, esasperato da quel chiasso, uscì sul pianerottolo e con poche parole aggraziate (“Vattene a casa tua, ubriacone… prima che ti prenda a calci”) risolse la situazione. Ma questo in fin dei conti è un episodio senza dolo, scusabile tutto sommato. A chi non è mai capitato di tornare a casa un po’ alticcio e di rischiare la figuraccia. Ben altri sono i comportamenti che fanno perdere il lume della ragione. Nell’appartamento sopra al nostro, per esempio, viveva una ragazzina che all’epoca frequentava le scuole medie. Ebbene costei, tutti i santi pomeriggi accendeva lo stereo e lo mandava a tutto volume. C’era da impazzire, anche perché nella mia famiglia c’è da sempre l'usanza di concedersi il riposino dopopranzo. E quella fottuta musica non permetteva di chiudere occhio. E così prendemmo l’abitudine di staccarle il contatore della corrente: me ne occupavo io personalmente con gran piacere. E la peste, sola in casa a quell’ora, desisteva dal riattaccare la corrente. Forse per paura di aprire la porta. Certo ne sarà andata a male di roba nel frigorifero, soprattutto d’estate: danni collaterali, direbbero gli americani.
E poi c’erano le terrificanti riunioni condominiali. Ricordo lo sguardo di mio padre quando la sera doveva recarsi a questi tragici appuntamenti: aveva l’espressione di Luigi XVI un attimo prima di mettere la testa sotto la ghigliottina. D’altra parte sapeva perfettamente di andare incontro a discussioni mortifere: non per nulla circa i due terzi dei presenti si addormentavano già alla lettura del verbale di apertura. Tra l’altro spesso questi incontri si trasformavano improvvisamente in accesi match di box: ecco perché il nostro vicino di casa si portava sempre appresso un ombrello con manico di robusta radica anche nella stagione della grande siccità. Data la tensione orrenda causata da quella costrizione insopportabile, per un nonnulla poteva scoppiare la rissa. Una volta due tizi arrivarono alle mani in un tempo record: due minuti e quindici secondi dall’apertura della riunione. Per futili motivi ovviamente. Nell’ampio salone, al termine di un feroce battibecco da pettegole, risuonò improvviso un rotondo rumore di manrovescio, seguito da un silenzio irreale. Poi tutto d’un tratto si udì una vocetta da capretta brianzola uscire dalle labbra tumefatte dell’aggredito: “Se ho sbagliato a parlare… allora picchiami”. La sala attonita, non credette alle proprie orecchie.
Ma anche quando andavo dai miei nonni l’estate c’erano problemi di convivenza tra vicini. Il tizio del piano di sotto per esempio, non gradiva che mio nonno innaffiasse le piante dato che l’acqua scorrendo finiva sul suo balcone. E se mio nonno diceva «Ma scusami tanto, quando piove non si bagna lo stesso il tuo balcone?», questi rispondeva arrogante «L’acqua di Cristo va bene, la tua no». E così il pover’uomo era costretto a innaffiare nelle ore più tarde della notte, sperando che il rognoso stesse già dormendo.
E poi c’era uno zio che era un virtuoso del lancio del mozzicone di sigaretta: egli posizionava la cicca tra medio e pollice, rincagnava leggermente il capo nelle spalle, e con uno scatto di molla lo faceva finire nel giardino della casa del dirimpettaio. E immancabilmente diceva: «Questo al Capitano...». Il termine "Capitano" ovviamente era uno sberleffo, essendo che questi indossava sempre uno stupido cappello da marinaio per coprire la calvizie.
Come si vede si tratta di piccoli sgarbi quotidiani, gesti di ordinaria piccolezza umana: nulla di particolarmente cruento, s’intende, fatto salvo che alla lunga questa determinazione nel provocare un danno all’altro, questa premeditazione rancorosa, questa ostinazione solipsistica, innesca inevitabilmente una terrificante spirale negativa del conflitto. Che, nei casi peggiori, arriva alle estreme conseguenze.
Viviamo un’epoca buia di rabbia, violenza e scontri? Senza dubbio. Abitare in palazzoni di nove-dieci piani, con centinaia di persone stipate una affianco all’altra, come tante termiti nel termitaio, può essere terreno fertile per i conflitti? Assai probabile. Che fare dunque? Date le circostanze e considerato che ormai viviamo in un contesto fortemente urbanizzato, non ci resta che sopportare. Fino a che è possibile sopportare, s’intende. Se poi vi dovesse capitare la sventura di trovarvi come vicini un branco di scimmie urlatrici, non abbiate timore di denunciarli per “atti persecutori”: da oggi la legge è dalla vostra parte. In alternativa, e per i più pacifici, prendete su armi e bagagli, e partite senza voltarvi alla volta della steppa mongola. Da quelle parti per incrociare lo sguardo col vicino occorre il telescopio.
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