Nella noiosa e mortifera giornata lavorativa, trascorsa a traccheggiare sbadigliando tra pratiche ributtanti e progetti insulsi, c’è un momento quasi magico che giunge più o meno puntuale ogni giorno a salvare i disperati impiegati: la pausa caffè. A metà mattinata e nel primo pomeriggio, questo rito imperdibile è considerato da sempre l’àncora di salvezza di ogni ambiente lavorativo. Il perché è più che scontato: si stacca la cosiddetta “spina”, si scambiano due parole con i colleghi, ci si confronta, si divaga. Bastano pochi minuti in genere per rinfrancare lo spirito e per dare nuovo slancio - perlopiù apparente, occorre dirlo - alle apatiche prestazioni lavorative degli svogliati dipendenti. E tutto ciò a dispetto di quello che pensano la maggior parte dei titolari, manager e dirigenti d’azienda, per i quali meno pause equivalgono a più produttività. Parola oscena, che andrebbe cancellata dal vocabolario.
Ora a dar consistenza e dunque maggior legittimità a questo momento di pausa lavorativa, giunge uno studio condotto dall’Università di Copenaghen, e pubblicato sulla rivista Symbolic Interaction, su dipendenti del pubblico impiego: dai dati emergerebbe infatti che la pausa caffè avrebbe un ritorno vantaggioso sia per lo stato psico-fisico del lavoratore, sia per il rendimento produttivo. E questo sarebbe dovuto al fatto che quel piccolo momento di socializzazione tra colleghi aiuterebbe l’impiegato a resistere allo stress da ufficio. E dunque ad essere più efficiente sul posto di lavoro. Un altro studio del dipartimento di psicologia della New York University, pubblicato sulla rivista Neuron, ha dimostrato che durante le pause il cervello recupera e riesce a “carburare” meglio, con ricadute positive sulla produttività. Il che tradotto in termini monetari significa che al datore di lavoro conviene lasciare qualche minuto di pausa al dipendente, perché in questo modo il dipendente gli fa guadagnare qualche quattrino in più. Il concetto è espresso in maniera piuttosto rozza, ma quando si parla di denaro non v’è altro modo di esprimersi.
Verso metà mattinata dunque, si assiste a questo particolarissimo rito corale che si manifesta sempre nelle stesse identiche forme: un impiegato comincia ad agitarsi quasi impercettibilmente dietro la propria scrivania, provocando scricchiolii fastidiosi e rumorini vari; dall’altro lato dell’ufficio qualcuno recepisce il messaggio in codice e comincia a fare qualche leggero versaccio gutturale (tipo sbruffi, soffiate nervose, schiocchi di labbra etc…); al centro della stanza un terzo si allontana dallo schermo del computer e si stiracchia abbandonandosi violentemente sullo schienale della sedia. E da lì è tutto un precipitare degli eventi, fino a che non ci si alza quasi all’unisono e ci si dirige verso la saletta del caffè. Non senza aver dato uno sguardo di sottecchi al capo-ufficio, sperando che non si sia accorto di nulla. Questi naturalmente ha visto tutto e, pur masticando parole e pensieri di una ferocia inaudita, fa finta di nulla.
Davanti alla macchinetta ovviamente si forma il capannello e si da il via alla chiacchiera libera. Di solito si attacca con qualcosa di inerente al lavoro, ma è solo il pretesto per rompere il ghiaccio: del lavoro non frega niente a nessuno. In quei momenti ognuno butta là quel che vuole, al pari di un condannato al 41-bis al quale sia stato detto: “Bon, hai dieci minuti di tempo per dire quello che ti pare”. E così si parla di qualsiasi argomento, dal cinema alle vacanze, dall’abbigliamento alla cucina. Il che va ancora bene, per carità. La faccenda diventa invece insostenibile qualora in ufficio ci sia una collega diventata da poco mamma, o ancora peggio, nel caso il suo pargoletto sia giunto in età scolare. La conversazione in quel caso viene monopolizzata dalla componente femminile del gruppo che non fa che sorridere, entusiasmarsi e spesso commuoversi per le prodezze del giovane virgulto: per il nuovo vestitino, il nuovo zainetto, le lacrime del primo giorno d’asilo o di scuola. In questo caso l’unica alternativa per non farsi travolgere dallo sconforto è scolare il più in fretta possibile il proprio fetido caffè e uscire dall’ufficio per fumare una sigaretta. In perfetta solitudine.
Viceversa, qualora il ragionamento viri sul più classico dei temi da luogo lavorativo, vale a dire il pettegolezzo, conviene trattenersi. Primo perché c’è sempre qualcosa di salace da non perdersi in queste circostanze; e secondo perché la vostra assenza potrebbe innescare inevitabilmente un ulteriore pettegolezzo su voi stessi. Meglio essere sempre presenti quando si diffonde il demone della chiacchiera. E dunque improvvisamente si abbassa il tono della voce, ci si stringe a “coorte” e si sussurrano confidenze che innescano immancabilmente sorrisini maligni e bordate di “ooohhh”, “ma daaaiiii”, “ma dici sul seriooooo?”. E in quei piccoli momenti di entusiasmo elettrizzante e socializzazione goliardica sulla pellaccia di un altro povero disgraziato, si ritempra lo spirito degli impiegati e si allontana lo stress. E se qualcuno poi si erge a moralizzatore improvvisato e manifesta un certo qual disappunto, ecco pronta la frase fatta che va bene per ogni situazione: “Ma si dai, noi non ridiamo di lui: ridiamo con lui…”. E così anche la coscienza è salva.
Cosa non si farebbe pur di tirare la giornata…!
Nessun commento:
Posta un commento