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Paesaggi di Majella |
Il mattino seguente ci si sveglia con calma e si fa colazione a casa. Alessandra è scesa giù al forno per comprare pane caldo e biscotti caserecci al vino. Come se quello di ieri sera non fosse bastato…! Oggi è il giorno dell’ardimento, della salita epica: dai 400 metri di Sulmona si sale ai 1.300 di Passo San Leonardo, nel cuore della Majella. Su questa tappa, fin dall’inizio, si è molto discusso. Ce l’avremmo fatta a salire fin lassù con le borse cariche e dopo nove giorni di corsa su e giù per i monti? Questa era la domanda delle domande. Il piano “B”, in caso di risposta negativa, prevedeva di tornare su verso Popoli e di lasciarci a oriente le Montagne del Morrone. Ma ciò significava perdersi la Majella. Questa mattina però c’è una sana consapevolezza delle nostre forze: i 700 e passa chilometri che abbiamo nelle gambe ci hanno regalato una condizione fisica strepitosa e nessuno pensa neanche lontanamente di tirarsi indietro. E così si parte.
Imbocchiamo la lunghissima via dei Cappuccini e dopo alcuni chilometri incrociamo la Statale n.17. Tiriamo dritti: davanti a noi massicci calcarei solcati da ripidi e aspri valloni: è il biglietto da visita della Majella. Proseguiamo per un altro paio di chilometri lungo un falsopiano in salita, ma poi, all’improvviso, ecco i primi tornanti e le prime rampe che portano verso Pacentro. Si sale abbastanza dolcemente per circa quattro chilometri, ma l’ultimo strappo prima di entrare in paese è una fucilata nelle gambe. Ci si ritrova ansanti davanti alla fontana posta al bivio. In questo punto i blog dei cicloamatori consigliano di fare scorta d’acqua: da ora, e fino al passo, non ci sono altre fonti. Eseguiamo alla lettera. Si riprende a salire. Le pendenze sono medio-alte e l’ombra quasi inesistente. Dalla nostra però abbiamo l’orario mattutino e un venticello fresco che spira da occidente. Una serie di ripidi tornanti, alternati a lunghi rettilinei, ci portano rapidamente in quota. E Pacentro rimpicciolisce e scolora stagliandosi sulla piana. Le pendenze mutano continuamente e in alcuni passaggi sfiorano il dieci per cento. Ma noi saliamo senza fatica. E la faccenda ha quasi del prodigioso. Siamo ormai nel cuore della montagna e la strada che s’addentra sinuosa tra le rocce è bellissima e solitaria. Come al solito spingo un rapporto lungo, troppo lungo per i miei compagni e in breve mi trovo a pedalare da solo. D’altra parte si sa, in montagna ognuno deve dar retta al proprio passo. Si sale ancora e gradualmente la vegetazione d’alto fusto lascia spazio alle praterie d’alta quota. Gli ultimi chilometri sono un falsopiano in salita che conduce ad un bivio: a destra Campo di Giove; a sinistra Pescara e Passo San Leonardo. Mancano tre chilometri allo scollinamento. E sono quelli più belli perché la fatica ormai è finita e ci si può godere lo spettacolo della natura. Tutto intorno s’innalzano Monte Amaro (2.795, la vetta più alta della Majella), Monte Acquaviva, Monte Morrone. E non hanno più l’aspetto minaccioso di chi vuol sbarrare il passo, ma il volto cordiale di chi accoglie un vecchio amico. Sotto il cartello che indica la fine della salita il mio contachilometri segna 23. Di cui 19 di salita: due ore e dieci minuti di fatica, alla velocità di dieci chilometri all’ora circa. Non male, direi.
I compagni mi raggiungono dopo una ventina di minuti, e sono tutti entusiasti per l’impresa. Alessandra più di tutti. Da ora in poi è tutta discesa o quasi. Prima di ripartire ci regaliamo una lunga pausa di recupero. Accanto a noi si fermano altri due ciclo-viaggiatori, due ragazzi che, partiti da Abbatéggio, raggiungeranno Roccaraso. Uno di questi è milanese e non riesce a contenere il suo entusiasmo per la bellezza di questi luoghi. L’altro è di Pescara, e non ha molte energie da spendere in conversazioni frivole…! E si riparte. La discesa che porta verso valle è stretta e tortuosa, e in alcuni punti c’è del brecciolino assassino. La prudenza è d’obbligo. Superiamo di slancio Sant’Eufemia a Majella e a seguire la bellissima Caramanico Terme. Abbiamo abbandonato la provincia dell’Aquila e siamo entrati in quella di Pescara. Ancora una serie di saliscendi e finalmente, dopo un’ansa che aggira la stretta gola sulla quale si erge Roccamorice, eccoci a fine tappa.
Il paese è piccolissimo e seduti ai tavolini dei bar ci sono gruppetti di pensionati che giocano a carte.
Come premio della nostra fatica quotidiana siamo alla ricerca della crema di caffè: quella che piace tanto ad Alessandra. Alfio si fionda nel primo bar come un marines sulla spiaggia di Mogadiscio, ma ne esce poco dopo con aria sconsolata: “Al massimo ci fanno un caffè shakerato”. Proviamo in quello dopo, e questa volta Alfio esce con i pugni alzati e il sorriso del vincitore.
Raggiungiamo il nostro albergo e la stanchezza si fa sentire. E poi i letti sono così comodi…! Ancora un attimo di esitazione e ci sarebbe l’oblio. E dunque, con una forza di volontà che non sapevo di possedere, mi tiro su e mi preparo ad uscire: c’è ancora un’ultima cosa da vedere prima di chiudere questa giornata. Alessandra e Simona mi guardano perplesse. Alfio dorme. «Se non parto subito non mi muovo più» - commento - «Vi chiamo quando sono là, così vi dico anche com’è la strada».
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Roccamorice |
E così riprendo la bicicletta e riparto. Prima di lasciare il paese seguendo la Provinciale n.22, la statua bronzea di un uomo con la valigia ed un bimbo che piange attaccato alla sua gamba: è il monumento che la cittadinanza ha dedicato “Ai fratelli emigranti- sempre nel cuor l’amor di patria”. La strada sale, dai 520 metri di Roccamorice si arriva subito ai quasi 800 del bivio: da una parte Block Hause, la vetta dove si arrampica e d’inverno si scia; dall’altra l’Eremo di Santo Spirito a Majella e San Bartolomeo in Legio. Quest’ultimo è la mia meta. C’è un caldo soffocante. Scendo giù lungo una stradina solitaria che s’immerge sempre più nel bosco e, dopo circa trecento metri, ecco un altro bivio: a sinistra Santo Spirito, a destra San Bartolomeo. Certo sarebbe bello visitarli entrambi, ma non c’è tempo. E poi Santo Spirito si trova a più di mille metri di quota: impensabile dopo la tappa di oggi. Mi accontento di San Bartolomeo. La strada diventa sterrata e, dopo aver superato un bed & breakfast sorvegliato attentamente da un mostruoso pastore abruzzese (nel senso del cane…), si perde lungo un sentiero stretto e infestato di erbacce e ciottoli acuminati. Solo ora mi accorgo che, nella foga di liberarmi dei bagagli, ho dimenticato di portare con me una camera d’aria di riserva. Proseguo speranzoso, ripetendo tra me e me: «Ho già dato, ho già dato in abbondanza…! E poi, come si dice: “Non c’è due senza tre…!”. Quartum non datur». Chiamo Alessandra e la ragguaglio sulla strada da seguire. Si scende ancora più giù, lungo un declivio pietroso che degrada verso la forra. Sul sentiero ci sono anche dei gradoni: difficili da scendere con la bicicletta al seguito, ancor più inquietanti pensando alla risalita. Ad un tratto un segnavia indica dieci minuti a piedi per San Bartolomeo. Lascio la bicicletta perché è diventato impossibile proseguire con essa. Non ho la catena per legarla, ma non credo che ci possa essere un pazzo disposto a portarsela in spalla fin sulla strada. Salendo in cima ad uno sperone roccioso mi affaccio su di un burrone: in fondo alla gola, ad una cinquantina di metri, scorre il torrente Capo la Vena e si odono le voci di alcune persone. Dell’eremo nessuna traccia. Non riesco a capire dove esso si possa trovare, dato che non c’è proprio lo spazio materiale per costruire un bel niente in questo abisso. Poi ad un tratto, superato un grosso masso, ecco aprirsi davanti a me una scaletta vertiginosa scavata nella roccia. Un altro prodigio dell’ingegno umano. Ed ecco l’eremo. In questo luogo, costituito da una piccola cappella e da due ambienti ricavati nella roccia viva, Pietro dal Morrone, futuro Papa Celestino V (quello del “gran rifiuto”) ebbe la sua residenza intorno al 1274, e qui si trattenne per almeno un paio d’anni. Questo personaggio dantesco continua ad accompagnarci e a scandire le nostre tappe. Fin dal Santuario di Loreto. Sulla balconata che si affaccia a strapiombo sul dirupo c’è una vasca per la raccolta dell’acqua piovana e la facciata della chiesetta è affrescata con un’immagine del Cristo benedicente, e con una della Madonna col Bambino ampiamente danneggiata. All’interno, sull’altare, una statua in legno di San Bartolomeo. Quello che colpisce tuttavia è la posizione di questo luogo: immerso nella meraviglia del creato, isolato dal mondo e quasi inaccessibile. D’altra parte per l’eremita, già in fama di santità da vivo, era necessario un luogo ben protetto e appartato. E questo è quanto di meglio si potesse trovare in tutta la Majella. È giunto il momento di rientrare. Recupero la bicicletta e risalgo le scalette grondando sudore. E i tafani banchettano. Una comitiva scendendo mi sfila e mi fissa con pietà. Una donna mi dice qualcosa, ma non riesco a capire. Rispondo solo: «È un pellegrinaggio…, mi daranno l’indulgenza…».
Tornato sulla strada indosso lo smanicato in tela leggera e mi butto in discesa: ora sì che è davvero finita. Dopo qualche chilometro di folle velocità incrocio gli amici che stanno risalendo. Mi fermo e do loro gli ultimi ragguagli. Alessandra ci prova e mi chiede di andare con loro. «Non ci penso minimamente…» - rispondo di malagrazia. E così nel tardo pomeriggio sono di nuovo a Roccamorice.
Sulla piazza del belvedere mi ripago della fatica con una birra fresca. Seduto ad un tavolo c’è un vecchio, in compagnia della badante rumena. Mi piace l’idea di scambiare due parole con qualcuno del posto e dunque gli rivolgo una domanda. Il tipo è sordo come una campana stonata, e per farmi udire sono costretto ad urlare come un internato di manicomio. Scopro che costui è uno dei tanti emigrati tornato a casa a trascorrere gli ultimi anni della sua vita. A Roccamorice, degli oltre tremila abitanti del 1950 ne sono rimasti meno di un terzo. Il vecchio è stato prima in Belgio, a lavorare nelle miniere di Marcinelle; e poi se n’è andato in Venezuela. E qui è rimasto per oltre trent’anni. Tra le altre cose mi racconta di aver conosciuto Ernesto Guevara del la Serna, “El Che”. Non so perché, ma mi sorge il dubbio che mi stia dicendo una frottola. Il discorso langue: non è facile dialogare urlando. E così, guardando il meraviglioso panorama che ci circonda, gli dico come ad accomiatarmi: «Certo che vivente in un posto bellissimo…». Il vecchio non capisce e devo ripetere. Al che mi fissa con uno sguardo perplesso e pieno di disincanto: «Qui non c’è niente…! I ragazzi se ne vanno…». Gli chiedo di cosa vivesse la gente prima dell’emigrazione. Mi risponde che c’era un po’ di pastorizia, un po’ di agricoltura. Quel poco che si poteva strappare alla terra. In quel volto solcato da rughe simili ai dirupi di queste vallate e in quegli occhi stanchi c’è la storia di tutta un’epoca, l’epopea di uomini e donne partiti in cerca di fortuna e spesso mai più ritornati. Con una valigia e niente più. Come quella statua al bivio.
In serata ci si ritrova tutti insieme a tavola per la cena. Oltre a noi e a qualche sparuto avventore dei dintorni, c’è una comitiva di una decina di francesi di mezza età. Come diavolo siano finiti in questo sperduto angolo del nostro paese è un mistero insondabile.
Gli arrosticini sono straordinari e il vino non è da meno. Domani il nostro viaggio si concluderà ad Ortona ed è già ora di bilanci. Il sentimento che prevale è la soddisfazione: quest’esperienza ci ha regalato un pizzico di eternità [continua…].
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