Il mattino seguente nel gruppo c’è un po’ di mestizia. Lorenzo e Dominique ci lasciano. Per il primo la cosa era già ampiamente programmata dato che aveva assunto già altri impegni. Il secondo invece, nonostante stia apprezzando oltre ogni misura l’esperienza, deve fare i conti con il budget compromesso all’ultimo dall’acquisto della bicicletta nuova. E così, di primo mattino, mentre noialtri siamo ancora seduti al tavolino della colazione, Lorenzo e Dominique prendono la via della stazione: il primo treno li condurrà sulla costa; un secondo verso Ancona; e per finire l’ultimo, su a nord. A casa. In eredità riceviamo dai nostri amici tutto ciò che a loro non servirà più, vale a dire integratori alimentari, sali minerali, barrette energetiche, creme solari, frutta secca e altro ancora. Un gran bel lascito. E in più, dato che la mia mantellina per la pioggia è rimasta a Loro Piceno, Lorenzo mi lascia la sua.
Prima di partire, noi superstiti, ci concediamo ancora qualche attimo di riposo. Al sole che scalda l’aria frizzante di quest’inizio giornata. E si riparte. Abbandonando Ascoli da Porta Romana, imbocchiamo la Statale n.4, “Salaria”. Una strada molto trafficata che ad ogni incrocio ci spingerà a cercare strade alternative. Ma non c’è molto da fare: la direzione è obbligata. Dopo una ventina di chilometri siamo ad Acquasanta Terme. Se non fosse per tutte le vetture che ci sfrecciano a poca distanza, ci sarebbe da incantarsi a guardare il paesaggio: a nord i Sibillini, a sud i Monti della Laga, e tutto intorno boschi di castagni plurisecolari, querce, faggi e abeti bianchi.
Entrati in città ci aggredisce subito il tipico odore delle sorgenti sulfuree e, come era facilmente immaginabile, ci si para dinnanzi una gran quantità di turisti termali accalcati intorno agli stabilimenti. Si fugge via il più rapidamente possibile. Usciti dall’agglomerato intravediamo un cartello che indica l’Abbazia di San Benedetto. Ovviamente non c’è il chilometraggio. Decidiamo comunque di visitarlo. Salendo lungo il crinale ancora dei cartelli che indicano le frazioni nei paraggi: “Pito”, “Umito”, “Pomaro”. Chissà che vita passa in questi luoghi? Immerso nel paesaggio collinare, il Monastero ci appare all’improvviso nella sua armoniosa e luminosa costruzione in travertino. Tra queste mura vi risiede la Comunità femminile della Congregazione Benedettina Camaldolese. È un luogo di pace e silenzio, e se avessimo tempo sarebbe il posto ideale per riposare e meditare.
Ma la strada ci chiama e così, si riparte. Una dozzina di chilometri seguendo le gole scavate dal fiume Tronto ci conducono fino ad Arquata. In questo luogo geografico s’incontrano tre regioni: Marche, Umbria e Lazio. E a pochi chilometri di distanza c’è l’Abruzzo. Dalla nazionale c’è un bel “tiro” fin su in paese, e dopo un breve momento di confronto, si decide di salire. Il centro s’inerpica su di un cucuzzolo dalle pareti lisce e scoscese e dalla sommità di esso, dove vi è una rocca medievale, lo sguardo spazia su monti dai nomi roboanti: Vettore, Guaidone, Ceresa, Comunitore, Ventosola, Serra. Sono le sentinelle dei Sibillini e dei Monti della Laga. I turisti del posto, che poi sono persone che abitano le terre basse di questa zona, ci riferiscono che il paese ormai è abbandonato e che non vi sono più né servizi né esercizi commerciali. Per trovare qualcosa occorre scendere sulla statale e proseguire in direzione Roma. Un uomo di mezza età, che ha l’aria di chi la sa lunga, ci consiglia di restare alti in quota, e di percorrere il tracciato della “Vecchia Salaria”. È la strada che stiamo cercando. E così, lasciataci alle spalle Arquata, c’inoltriamo lungo questa strada deserta e bellissima, a tratti invasa da sterpaglie e pietrame caduto dall’alto. La lingua d’asfalto consunta e sbrecciata segue la vallata rimanendo sul fianco alto della costa. E lo sguardo si perde laggiù, verso l’infinito. Niente da dire, i romani ci sapevano fare con la viabilità. Superiamo Tufo, Grisciano, Tino, paesini ai confini del mondo, e giungiamo ad Accumoli (855 metri). Siamo ormai nel Lazio, o meglio nella Sabinia per essere precisi. Abbiamo una fame spaventevole. Fortunatamente troviamo un piccolo alimentare un attimo prima che chiuda. Frutta e altri generi di conforto, come al solito. Tra i vicoli del paesino, subito dopo un arco di pietra, scorgiamo anche un bar incredibilmente aperto sebbene non vi sia anima viva nel raggio di venti chilometri. Gelato meritato.
Si ridiscende fino a lambire il Lago di Scandarella e da qui inizia l’ultima salita, quella che ci porterà ad Amatrice (950 m s.l.m). L’ingresso in città è quanto di più caotico si possa immaginare. Per la strada maestra che attraversa l’abitato c’è un traffico paragonabile solo al centro di Milano nel tardo pomeriggio di un giorno lavorativo. E noi che immaginavamo un tranquillo paesello di montagna, silenzioso e immerso nella quiete dei monti e dei ruscelli. In cui ovviamente si mangia un’ottima “amatriciana”. In realtà Amatrice, come ci dirà un locale, ha circa duemila abitanti, e nel corso dell’anno è un luogo decisamente bucolico. In agosto viceversa si trasforma e facilmente si arriva alle ventimila presenze. Con tutto ciò che ne consegue. Ed infatti muoversi per queste strette viuzze è quasi impossibile, oltreché sommamente rischioso per l’incolumità fisica. Anche qui, infatti, imperversano automobili di ogni genere, guidate da persone nervose e arroganti. E non c’è pertugio che esse non sondino con i loro musi roventi in cerca di transito o parcheggio. E la cosa che più stupisce è l’indifferenza dei pedoni, ormai assuefatti a quest’orrore. Appena il tempo di una bibita fresca, e si riparte alla volta del nostro albergo che dista circa un chilometro dal centro.
Nel tardo pomeriggio, tanto per non lasciarci dietro inopportuni rimpianti, scendiamo di nuovo in paese per una visita turistica. Ci si ferma su di un belvedere e, cartina alla mano, cerchiamo di individuare le varie cime che fanno da corona all’altipiano sul quale sorge Amatrice: Monte Gorzano (2.400 metri, la vetta più alta del Lazio), Pizzo Moscio, Cima Lepri, Pizzo di Sevo. I rilievi dei Monti della Laga sono incredibilmente verdi e il motivo risiede nella composizione delle rocce delle montagne: non calcari, ma arenarie e marne che, impedendo all’acqua di filtrare nel terreno, consentono alla stessa di alimentare costantemente fiumi, torrenti e ruscelli. In centro, per quel poco che ci concede il traffico selvaggio, riusciamo a dare un’occhiata alla Chiesa quattrocentesca di Sant’Agostino, con il suo bel rosone e l’austera torre campanaria; poco più oltre vi è la Torre Civica in mattoni grezzi; e ancora le Chiese di Sant’Emidio e San Francesco, con il suo bel portale tardo-gotico. Quest’ultima tristemente chiusa. Cerco, come ho già fatto nei giorni precedenti, qualche cartolina da conservare o spedire all’amico Salvo. Uno degli ultimi esseri viventi della Terra, a parte me, a gradire il genere. Ne trovo qualche esemplare in una tabaccheria. E sono di una bruttezza rara. Scelgo le meno peggio e mi dileguo al volo senza salutare. È quasi ora di cena e dunque si ritorna a baita.
Questa sera a tavola siamo in quattro: è la prima volta che ci si ritrova senza Dominique e Lorenzo. Provo una sensazione strana, come di inadeguatezza e forse estraneità alla situazione. L’atmosfera del gruppo, venendo meno due suoi importanti componenti, si è inevitabilmente alterata. D’altra parte Dominique era garanzia di allegria e di spasso, e le sue uscite comiche e a volte fanciullesche (soprattutto quando parlava di donne) avevano un effetto rilassante e davano leggerezza; Lorenzo viceversa, con la sua calma flemmatica, la sua tranquillità quasi atarassica, unita alla bontà d’animo e all’altruismo, rappresentava la pietra angolare del gruppo, una certezza, un punto d’equilibrio su cui tutti sapevano di poter contare. E tutto ciò, all’improvviso, è svanito. E così, per un paio di giorni, mi troverò a inseguire un nuovo assetto, un nuovo ritmo esistenziale con i miei ultimi compagni di viaggio. E in alcuni momenti, non trovando di meglio, preferirò cercare nella solitudine delle pedalate in fuga e nella bellezza dei luoghi che attraverserò, le risposte alle mie domande.
La bella cameriera ci suggerisce, ovviamente, di provare la loro “amatriciana”. Le diamo retta, ma al momento del dunque qualcosa non ci torna. Per un equivoco innescato da una richiesta particolare di Alfio, i piatti che ci vengono deposti sul tavolo sono privi di sugo di pomodoro. L’amatriciana senza pomodoro??? Possibile??? Chiediamo spiegazioni e la cameriera, rammaricandosi, ci risponde che aveva inteso che volessimo provare la “gricia”, ovvero l’amatriciana tradizionale, quella originale. Ad ogni modo, al palato, il gusto è straordinario: guanciale a cubetti (incredibilmente croccante), pecorino, olio d’oliva, peperoncino. Niente di più, eppure straordinario. E fosse finita…! Il nostro feroce appetito ci spinge a ordinare anche una porzione gigante di pappardelle ai funghi porcini e carne alla brace. Il tutto innaffiato da un ottimo Montepulciano d’Abruzzo. E per concludere Ratafià e Genzianella, due amari (piuttosto dolci…) tipici di queste terre, ottenuti rispettivamente dalla lavorazione dell’amarena e della genziana. Il tutto per 52 euro in quattro: 13 euro a testa.
Prima di andare a letto, ci concediamo una passeggiata nell’antico borgo di San Cipriano, fatto di case basse di pietra, viuzze e piazzette su cui un tempo la vita pulsava. In queste zone fino ai primi del ‘900 abitavano migliaia di persone, impiegate soprattutto nella pastorizia. Oggi di veri residenti ne sono rimasti pochissimi, e come spesso capita, solo nei fine settimana si assiste ad un ritorno di vita. L’aria a queste quote è frizzante e il cielo è incredibilmente terso: se non fosse per la luna quasi piena, si potrebbero contare una ad una tutte le costellazioni.
Durante la notte, avverto un senso di pesantezza allo stomaco: d’altra parte con tutto quello che mi sono scofanato…! Provo a resistere, ma l’unico modo per uscirne è buttare tutto fuori. Tornando a letto rinfrancato, odo la voce d’oltretomba di Alfio: «Sei vivo…?».
Risposta: «Se domani mi trovate rigido, fate scrivere sull’efitaffio “Caduto nell’adempimento del proprio dovere”. Mi sembra più bello…» [continua...].
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