Al mattino mi sento incredibilmente bene, ed ho anche molto appetito. I compagni continuano ad osservarmi, cercando di capire se effettivamente la mia condizione fisica si è ristabilita. Li rassicuro.
E dunque, dopo un breve giro di compere, si parte alla volta di Campotosto. Salendo verso le cime, ci s’immerge in un bosco fresco e profumato di essenze resinose. Cerri, castagni e pioppi, man mano che si sale, lasciano spazio a pinete e faggete di montagna. Superato Cornillo Nuovo, si sale ancora, fino a che la vegetazione non comincia a diradarsi, lasciando campo alla prateria d’altura. E la vista comincia a vagare verso spazi infiniti, verso monti e vallate che scolorano all’ultimo orizzonte. Un cartello segnaletico avvisa che in questo punto termina la “Strada Regionale del Lago di Campotosto”: significa che stiamo entrando in Abruzzo. I luoghi che sto attraversando sono talmente belli e mi riempiono di tale euforia che non riesco a condividere con alcuno questo piacere. E così m’involo solitario in questa meraviglia, assaporando con voluttà ogni sensazione che i sensi trasmettono alla mia mente. Poi, dopo un dolce saliscendi, ecco il muro della diga che preannuncia il lago. Continuo, smanioso di avvistarlo. All’improvviso, dopo l’ennesima curva, si materializza davanti a me un ampio specchio d’acqua azzurro, incorniciato da un cielo terso, nel quale ballano candidi batuffoli di cotone. Sullo sfondo il Gran Sasso, in tutta la sua imponenza. È una visuale quasi onirica e non posso che fermarmi a contemplare tale spettacolo. Mi sento bene, in ottima forma. Mi sembra di non essere mai stato meglio in vita mia. Nell’attesa che gli amici mi raggiungano trovo il tempo di scrivere un messaggio a Dominique e Lorenzo: “Lago di Campostosto, 1.300 metri. Davanti a noi il Corno Grande del Gran Sasso. Una bellezza che lascia senza fiato”. E quasi subito arriva la risposta di Lorenzo: “Cavoli, chissà che spettacolo. In questo momento vi invidio, in salita un po’ meno. P.S. News meteo per i prossimi tre giorni: sempre sole”. Dominique invece starà ancora dormendo. D’altra parte con tutti gli arretrati che aveva da smaltire con Bianca, si leverà non prima di mezzogiorno…!
Una volta riunito il gruppo si continua compatti. Lungo le sponde del lago si susseguono lunghe file di auto parcheggiate e campeggi. Giunti nell’abitato di Campotosto ci fermiamo a prendere acqua presso una fontana. C’è una gran folla di vacanzieri ed alcuni capannelli di ciclisti. Alfio ne approfitta per chiedere informazioni sulla strada migliore da seguire per giungere a l’Aquila. Un tale gli consiglia la Strada del Vasto, “una delle più belle strade del Centro Italia”.
Simona però a questo punto è ansiosa di fare il bagno: lei è fatta così, quando vede uno specchio d’acqua deve buttarcisi dentro. E così si scende su di una spiaggetta. La segue solo Alfio in questa sua nuova avventura. Io preferisco non sfidare la sorte dopo ciò che mi è accaduto durante la notte. Alessandra invece neanche prende in considerazione la cosa. Proseguiamo per una decina di chilometri, fino a che non raggiungiamo il Valico delle Capannelle, dopo di che si svolta per Assergi. Si sale ancora di quasi centocinquanta metri e così raggiungiamo la quota più alta dell’intero tour (1.400 m s.l.m.). Da queste parti un tempo passava l’Antica Via Cecilia, la strada romana che metteva in comunicazione Amiternum (l’Aquila) con Teramo. Per secoli fu luogo di transito della transumanza diretta verso l’Agro Romano, e nel periodo dell’Unità d’Italia, ricovero di briganti. Oggi invece, a seguito dell’apertura del traforo del Gran Sasso, questa strada ha perso importanza ed è percorsa solo dai residenti e dai turisti. Soprattutto motociclisti.
Proseguendo lungo la dorsale del Parco Nazionale del Gran Sasso, sfiliamo sotto l’imponente Monte Corvo (2.632 metri), e a seguire, dopo una serie di lunghi tornanti in discesa, ecco pararsi davanti a noi il Corno Grande, la cima più alta dell’intera catena (2.912 metri). È la stessa strada che tante e tante volte hanno percorso il ciclisti del Giro d’Italia per salire a Campo Imperatore. Ed infatti, poco prima di entrare ad Assergi, ecco l’indicazione. Con la relativa funivia. L’ipotesi di fare una puntatina lassù ci aveva solleticato nelle prime ore della mattinata, ma la voglia di arrivare in fretta a l’Aquila e il dislivello non indifferente per raggiungere la cima (oltre mille metri da dove ci troviamo) ci fanno desistere senza troppi rimpianti. E dunque dall’altipiano piombiamo a tutta velocità nel capoluogo di regione abruzzese. Siamo scesi di oltre settecento metri di quota e il caldo è diventato insopportabile. Varchiamo Porta Napoli e, seguendo il bel viale alberato che porta in centro, sentiamo crescere, insieme alla stanchezza, anche la curiosità di vedere in che stato si trovi la città a distanza di quattro anni dal terremoto. La zona periferica sembra quasi integra, a parte qualche cantiere, e la cosa ci rincuora. Mano a mano però che ci avviciniamo alla zona centrale, la faccenda cambia. All’incrocio tra via Crispi e via XX Settembre ci si para davanti tutta la gravità della situazione: palazzi diroccati, barriere contenitive, ponteggi, traversine, nastri che delimitano le zone di pericolo. Ci sale in gola un groppo che ci lascia ammutoliti. Solo osservando dal vivo queste scene si può capire la gravità di quel maledetto sisma. Proseguendo lungo Corso Federico II, altre scene analoghe ci parlano della furia che ha imperversato da queste parti. E tutto ciò, unito al caldo insopportabile, al silenzio quasi religioso e alla totale assenza di persone per strada, lascia in bocca una sensazione straziante. Come di una città ferita a morte e abbandonata. Raggiungiamo Piazza Duomo e cerchiamo informazioni per raggiungere la Locanda Aquilana. In realtà, guardando la mappa, sarebbe semplicissimo rintracciarla, dato che si trova alle spalle del Duomo. Nella sostanza però, a causa delle “zone rosse” in cui è assolutamente vietato transitare a causa del pericolo di crollo, siamo costretti a fare un lungo giro. Ed ovviamente ci perdiamo. E perdendoci, casualmente finiamo proprio in una di queste strade chiuse al transito. Non è raro infatti che le transenne vengano spostate da qualcuno e che dunque l’accesso, anche involontario, avvenga senza accorgersi del pericolo. E così ci troviamo a percorrere una di quelle vie rimaste inchiodate a quella tragica notte del 6 aprile del 2009. Il nostro sguardo attonito penetra dentro porte scardinate, si posa su architravi incrinati, su muri fessurati e abbattuti. E dentro quelle case, rimaste esattamente come allora, ancora s’intravedono gli ultimi segni di quella vita che, scampata miracolosamente alla morte, non vi ha fatto più ritorno. Tavoli, sedie, un divano polveroso, un attaccapanni con ancora appeso un giacchino blu. Da una sezione di casa diroccata si vedono delle piastrelle azzurre. Forse era un bagno. Mette i brividi questa scena. E ancor più fa impressione osservare le catene poste dai proprietari sulle porte delle case: sono il simbolo della voglia di preservare, di ricostruire, di tornare a vivere in questi luoghi. Eppure la ruggine che già è comparsa da tempo su tali catene, dà la dimensione del tempo trascorso, e dell’affievolirsi inesorabile della speranza.
Dopo lungo girovagare, ed anche grazie alle indicazioni degli Alpini della divisione Aquila presenti sul luogo, finalmente riusciamo a raggiungere il nostro posto tappa. Esso si trova nel cuore della “zona rossa” e solo grazie alla tenacia dei suoi gestori, è stato possibile riaprire. Nella via della locanda, proprio di fronte ad essa, vi è un palazzo completamente ingabbiato da possenti travi di metallo; appena girato l’angolo diverse palazzine gravemente danneggiate; un caseggiato di quattro piani è crollato e solo una porzione di esso è rimasto in piedi. Col tetto pesantemente accartocciato su se stesso. Sembra di essere finiti in una città bombardata.
Ad accoglierci c’è Romina, e la sua allegra famiglia. Da poco hanno finito di servire il pranzo, e sono tutti molto stanchi. Con i loro modi cordiali e cortesi ci fanno sentire subito a casa. Ed in questo immenso disastro, ci appare quasi surreale questo loro modo di ironizzare su quello che ci circonda.
Ci vengono assegnate le stanze e dopo breve tempo siamo di nuovo in giro per la città. Quello che più colpisce di queste strade è il silenzio, un silenzio che si placa solo nelle zone dove la tenacia abruzzese sembra aver sconfitto la catastrofe. E poi ci sono i negozi chiusi, le botteghe artigiane con le vetrine polverose e i cartelli che indicano le nuove aperture fuori città. Chissà quanta vita è passata per questi luoghi, e quanto tempo ci vorrà ancora per restituire agli aquilani la loro città?
E così, nel tardo pomeriggio ci troviamo diretti alla Basilica romanica di Collemaggio, prima tappa del nostro itinerario turistico. Per raggiungerla passiamo davanti alla Chiesa di San Bernardino e poi giù dalla scalinata che porta verso via Fortebraccio e lo Stradello dei Poeti. Un angolo molto suggestivo della città. Da quel poco che abbiamo visto, l’Aquila è una città stupenda. Anche qui però i segni della devastazione sono sconvolgenti e lungo la rampa che da Costa Mandatario risale verso il centro, le prime erbacce cominciano ad infestare i gradoni in pietra. Segno inequivocabile dell’abbandono della zona.
La Basilica di Collemaggio ci appare in tutto il suo splendore al termine di un ampio prato rettangolare circondato da abeti, sul quale giocano a rugby dei ragazzi. Il rugby è lo sport più amato da queste parti e molti nazionali italiani provengono da questa regione. In questa splendida basilica, Pietro Angelerio da Morrone, santo eremita, il 5 luglio del 1294 divenne Papa Celestino V. Primo e unico papa incoronato al di fuori di Roma. Già ci pregustiamo l’ingresso, quando un uomo anziano ci fa notare che la basilica è stata dichiarata inagibile qualche giorno fa, e dunque chiusa al pubblico. Pare che la facciata si sia scostata di quasi venti centimetri dall’intero edificio e dunque è assolutamente necessario rimettere mano alla ristrutturazione. Ci suggerisce di restare qualche giorno in città perché, in occasione della “Perdonanza”, la festa che ricorda l’indulgenza plenaria istituita da Celestino V lo stesso anno della sua elezione, la basilica verrà aperta al pubblico.
È un grave colpo, ma non ci possiamo fare nulla. Torniamo sui nostri passi e con grande sorpresa e piacere, notiamo che la città si è rianimata. Per le vie aperte al transito, soprattutto sul Corso Vittorio Emanuele II, il salotto buono della città, vi è una discreta folla e quel che più stupisce è la presenza di tantissimi giovani e giovanissimi. Il che fa ben sperare per il futuro di questa terra martoriata. Breve visita al Forte Spagnolo, anch’esso inagibile a causa del sisma, e poi un meritato aperitivo sul corso. Cena condita con lo zafferano della zona, breve passeggiata in Piazza Duomo e a letto. Domani è un altro giorno [continua...].
Nessun commento:
Posta un commento