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Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

giovedì 6 dicembre 2012

La maleducazione? Bandita per legge

Qualche giorno fa i giornali si sono occupati di una notizia alquanto singolare. In un paesino dell’Oise, dipartimento francese della regione della Piccardia, il sindaco si è inventato una normativa che introduce per legge l’obbligo della gentilezza. L’originalissimo regolamento è stato affisso sulla porta d’ingresso del Municipio ed è rivolto soprattutto – vi si legge in grassetto – “a coloro che si sentono eternamente insoddisfatti, rancorosi, perseguitati, scontrosi ed altro”.
Il primo cittadino francese si è visto costretto ad emanare tali disposizioni, perché una bella mattina una persona si è presentata negli uffici comunali ed ha cominciato a inveire e trattare gli impiegati come “dei cani”. Ecco, al di là del fatto che neanche i cani andrebbero trattati male - e se la Brambilla sapesse di questo paragone il caro sindaco passerebbe un brutto quarto d’ora - , il suo non è solo un provvedimento volto a tutelare l’onore e la dignità dei lavoratori, ma una campagna di sensibilizzazione verso un tema ed un valore che sembra ormai perso nelle nebbie della modernità: la gentilezza. Al primo articolo vi si legge: “Gli abitanti del paese sono tenuti a osservare le norme sociali in materia di gentilezza e cortesia”. E subito dopo, all’articolo due, le conseguenze dell’inadempimento: “Chi non si atterrà a tale disposizione sarà immediatamente invitato ad andarsene”. Grandioso. Che portento di sindaco. Entri in un ufficio pubblico senza salutare? «Prego signore, faccia fagotto e se ne vada…». Certo però una società che deve introdurre per legge la buona educazione, lascia pensare. Buona educazione che dovrebbe essere il piedistallo, il fulcro della legge morale, quella che portiamo nel più profondo del nostro animo. Ed invece eccola comparire a sorpresa tra le norme del diritto vigente. Tra gli altri doveri a cui da ora in poi sono assoggettati tutti i cittadini vi si legge: “È fatto obbligo a tutti di dire buongiorno quando si arriva, arrivederci quando si va via, per favore e grazie quando si chiede e si ottiene qualcosa”. Fa quasi sorridere di tenerezza questo comma. A dire il vero queste prescrizioni non richiedono un grande sacrificio alla popolazione, e di sicuro non dovrebbero riscuotere più antipatia di una qualsiasi Imu. A ben vedere si tratta di elementari norme di buonsenso, prima ancora che di buona educazione. Come si fa ad instaurare un dialogo, un rapporto umano con una persona senza neanche salutarsi? Sembrerebbe scontato, eppure, se si è giunti a questo, vuol dire che siamo davvero al punto più basso della storia della convivenza civile. Il regolamento, molto completo peraltro, introduce anche un’eccezione di non punibilità: vale a dire la “causa di forza maggiore”. Se per dire, in strada ci sono due tali che si accoltellano selvaggiamente, non è fatto obbligo dire “buongiorno” entrando di corsa in un Commissariato di Polizia. Ma qui direi che siamo al limite. Anche perché, viceversa, la scena sarebbe alquanto ridicola e surreale: «Agente, presto…, si scannano là fuori…». «Ma che fa, non bussa prima di entrare? Non saluta? Se ne eschi cialtrone, forza…, smammare».
Come spesso accade per questo genere di notizie, siamo di fronte alla classica provocazione, una boutade mediatica per attirare l’attenzione. Un po’ di pubblicità fatta a fin di bene, ma senza conseguenze pratiche. In altre parole, nessuno strumento normativo potrebbe autorizzare il sindaco a mandare via dal suo paese bifolchi e villani: sarebbe come ammettere l’esilio come condanna per la maleducazione. Un provvedimento decisamente abnorme e lontano da qualsiasi logica giuridica. E questo nonostante l’opinione favorevole degli utenti del web: tre quarti dei commenti, a quanto pare, approvano le decisioni del sindaco. Ma le leggi, come si sa, non vanno mai fatte sull’onda dell’emotività e del furor di popolo. Cavour sosteneva che “le riforme vanno fatte un attimo prima che i cittadini ne avvertano l’esigenza”. Ma a quanto pare siamo fuori tempo massimo.
Ed in effetti, chi di noi non si è mai irritato per gli atteggiamenti incivili, per l’arroganza, la strafottenza e la prepotenza altrui? Avete mai provato a passeggiare per una grande metropoli il lunedì mattina? Ormai ci si prende a spallate, ci si urta, volano pedate sul coccige e sgambetti, nella più assoluta normalità. Un tempo se urtavi qualcuno ti scusavi. Oppure se costui ti risultava antipatico all’impronta, ti preparavi a fare a cazzotti. Ora invece non c’è più neanche il riconoscimento della persona umana, siamo tanti corpi privi di valore, inutilmente ingombranti e degni solo d’indifferenza. Degli ostacoli da dover superare il più agevolmente possibile, per ottenere ciò che desideriamo.
E giù in metropolitana ad ora di punta? La giungla selvaggia, la vera lotta per la sopravvivenza: chi supera questo genere di prova, potrebbe essere arruolato come socio onorario di Bear Grylls, quel pazzoide del programma tv “Wild”: per chi affronta tutti i giorni l’inferno della metrò, mangiare un serpente scuoiato o bere la propria urina è una passeggiata. Altro che parco Krouger e Serengheti. I documentaristi della BBC dovrebbero girare i loro filmati nelle viscere delle nostre città: vincerebbero a mani basse il primo premio al Festival di Berlino.
E le strisce pedonali? Vi siete mai chiesti a cosa servano, dato che nessun automobilista italiano, non solo non si ferma, ma anzi accelera in prossimità di esse. Tanta e tale è questa cattiva abitudine, che i disgraziatissimi pedoni, quando per incanto una macchina si ferma, ringraziano quasi commossi. E si avviamo all’attraversamento felici e con una rinnovata fiducia nell’umanità. Peccato che poi, superata la linea di mezzeria, dall’altra parte della strada arrivi come un falco un enorme suv, lanciato a tutta velocità. E quel che resta purtroppo sull’asfalto ha la consistenza della frittata di cipolle.
Molti danno la colpa di questo imbarbarimento alla famiglia moderna, incapace di educare i propri figli. A dirla tutta spesso s’incrociano davvero dei ragazzini maleducati, irrispettosi, volgari. Mai come in questi ultimi tempi si sentono delle bestemmie atroci uscire sempre più spesso dalle bocche di latte dei ragazzini. Quand’ero un marmocchio, una semplice imprecazione, causava lavate di bocca col sapone. Oggi invece, sempre più spesso, si trovano genitori disposti a perdonare, comprendere e giustificare gli atteggiamenti dei loro figlio. E la scusa che più di ogni altra viene avanzata per discolpare la prole è: “Si comporta così perché in fondo è timido”. E a questa conclusione mi torna alla mente l’acuto, anche se un tantino drastico, suggerimento di Paolo Villaggio: “Niente prediche, niente preghiere, ma attaccateli per i piedi al soffitto del salotto e frustateli senza pietà. E poi vietate merendine e televisione. E se non rispettano queste regole buttate il televisore dalla finestra. Anche con il rischio di uccidere un sacerdote omosessuale di passaggio” (Sono incazzato come una belva, 2004).
Ma educare è un compito assai arduo, e se non si è stati alla scuola dell’educazione, difficilmente si diventerà buoni insegnanti. Il fatto è che il nostro popolo ha da sempre avuto una sorta di ammirazione per il furbetto, per colui che se la sfanga, che la passa liscia, e che in ultima analisi ottiene ciò che vuole, fregandosene delle regole. Costui è visto come un dritto, uno che la sa lunga, che mette a servizio del suo interesse l’astuzia, la furbizia e l’abilità di muoversi nelle difficoltà. E da ciò, quasi per capillarità, ne discende un pensiero insidiosissimo, ma assai accattivante: “Se l’ha fatto lui, lo faccio anche io”. E purtroppo in un paese dove il senso del pudore e il rispetto per il prossimo è merce sempre più rara, questa figura di novello Cicikov, diventa per incanto eroe del nostro tempo, esempio da seguire ed emulare.
Non per tutti fortunatamente. Una volta lessi uno scritto di Umberto Eco (A passo di Gambero, 2006) in cui si raccontava di un suo viaggio negli States. Lo scrittore, terminata una conferenza nel Midwest, sbarca all’aeroporto di La Guardia. Ha pochissimo tempo per raggiungere il J.F.K. e prendere la coincidenza per tornare in Italia. È in enorme ritardo e davanti a lui c’è una coda interminabile ai taxi. Rischia di perdere il volo. Dopo qualche minuto di impaziente attesa, Eco esce dalla fila e, come niente fosse, salta la coda accampando una scusa banale. È cosciente di fare un’azione scorretta, ma non ha altra scelta. Si aspetta che da un momento all’altro i passeggeri in attesa gli si scaglino contro, così come avverrebbe in un qualsiasi luogo d’attesa in Italia. Eppure non succede niente. Al che, decisamente sorpreso, abbassa il bavero del cappotto che aveva tirato su a protezione, e getta uno sguardo verso la fila. Davanti a lui solo espressioni di sbigottimento e stupore: profondo stupore. Quei passeggeri erano rimasti semplicemente impietriti da quell’atteggiamento. Nessuno avrebbe mai immaginato un gesto di quel genere, era fuori da ogni logica, da ogni sfera dell’agire umano: assolutamente imponderabile. Lì la fila è sacra, si rispettava sempre e comunque, a qualunque costo. E' qualcosa di insito nelle regole non scritte della convivenza civile. E dunque quella era un’esperienza nuova, una sorpresa eclatante, e che lasciava senza parole.
Ecco, dove esiste la civiltà, non c’è neanche bisogno di leggi scritte. Men che meno contro la maleducazione.

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