Allora, diciamola tutta, non se ne può più di vedere sui social network foto di bimbi in fasce, di leggere commenti entusiastici di novelli genitori che si vantano della loro meravigliosa prole, che magnificano la prima passeggiatina, il primo verso, la prima parola pronunciata (che udite udite…, ad una prima analisi sommaria sarebbe “mamma…”. Uhau, che grande novità…). Amici, amiche, amici di amici, ex fidanzate, parenti e conoscenti vari, tutti, nessuno escluso, sentono l’esigenza incontenibile di divulgare urbi et orbi la lieta novella. Augusto scrive: “È fantastico osservare Tommasino fermarsi a vedere un filmato e scuotere la testa… più o meno a ritmo…”; Gennaro commenta un video: “I primi incerti passetti…, quanta tenerezza…”; Aurora aggiunge: “Un extraterrestre di 45 centimetri… é una emozione indescrivibile…”. E poi foto, foto di tutti i generi e gusti, bimbi nelle culle, bimbi vestiti da Carnevale, con i pannolini, senza pannolini, al parchetto, in groppa al pony, in braccio al nonno. Un’alluvione apocalittica di informazioni dettagliatissime, testi di una banalità imbarazzante e immagini inguardabili che lasciano senza parole.
Bisognerebbe che qualcuno una volta tanto si prendesse la briga di dire a tutti costoro: “Sentite cari, va bene tutto…, capisco la vostra gioia incontenibile, il desiderio di condividere questo momento magico (per voi…) con l’Universo Mondo, ammetto pure che si tratta di qualcosa di meraviglioso, di sublime (sempre per voi…)…, ma non è che potete venirci a rompere impunemente le palle ogni giorno con le vostre faccende domestiche”. D’accordo che c’è la libertà di espressione, va bene che ognuno può fare quel che gli pare, scrivere ciò che vuole e divulgare tutte le immagini che ritiene opportuno, ma ogni “limite ha una pazienza”, come diceva il Principe Antonio de Curtis, in arte Totò. Ora non c’è dubbio che la nascita di un figlio cambia tutte le prospettive, dà nuove priorità, offre una diversa lettura del mondo, nessuno potrebbe negarlo, ma è pur sempre una faccenda strettamente personale, limitata alla sfera familiare. Quando andiamo a far visita a una parente o a un’amica che ha partorito, quello che c’interessa vedere (fatto salvo che, non sempre, ma il più delle volte si tratta di un puro obbligo formale) è il suo figliolo, mica quello di altri. Sì d’accordo, una batteria di neonati fa tenerezza, muove al sorriso, provoca gioia, tutto verissimo. Ma è un sentimento superficiale, volatile. Ed infatti, appena usciti dal reparto, ci dimentichiamo in fretta di tutto e torniamo alla nostra vita. Si dice, ma i bambini sono tutti belli…! Ecco, a parte che non è del tutto vero. Qualche tempo fa per esempio un collega mi raccontava di quando era stato in Kosovo per una missione umanitaria: «Allora, te la dico tutta…, le donne erano belle, ma belle davvero…! I bambini invece…, brutti, ma brutti…, da non poterli guardare in faccia». A dire il vero non è che si potesse dare del tutto retta a costui, soprattutto dopo pranzo, ma la cosa mi aveva colpito. E ancora un altro collega un giorno, a proposito del pargoletto del capo, mi disse: «Ma poi hai visto quant’è brutto il figlio? Non ho mai visto uno sgorbio simile. Con un naso così grosso potrebbe esibirsi come fenomeno da baraccone al Circo Medini».
Ecco, al di là del folclore un po’ malato di simili personaggi, questo ci fa capire che se un bimbo non fa parte della nostra vita, se non c’è “coniunctio sanguinis” per dirla alla latina, il coinvolgimento che possiamo provare verso di lui è assai limitato.
Che poi, tanta e tale è alle volte la volontà di esibire, di vantarsi, che si sfiora veramente il ridicolo. “Du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas” diceva Napoleone. Ed infatti, di fronte a cotanta esibizione, la prima obiezione che salta in mente ad un essere umano dotato di normale equilibrio è: “La miseria…, saranno mica i primi che mettono al mondo un bambino…!”. In fin dei conti nel regno animale ogni giorno, ogni secondo, nascono nuove vite, miliardi di esseri viventi vengono al mondo nell’anonimato più assoluto, senza che nessuno ne sappia niente. Tutto ciò non è giusto, mi oppongo: a questo punto voglio vedere su facebook e tweeter anche le foto del cucciolo di nutria. Lo pretendo.
Un tempo il rapporto che si aveva con i bambini era del tutto diverso. La nascita di un bambino non era un evento raro come oggi, le città erano piene di adolescenti di tutte le età. Le donne, al contrario di oggi, ne mettevano al mondo tantissimi, fino a che erano in età fertile. Un po’ perché la mortalità era altissima (fino al 50%), un po’ perché servivano braccia da lavoro. I genitori non mostravano grande tenerezza, cercavano di non affezionarsi. La morte era così presente nella vita di tutti i giorni, che legarsi troppo ad un figlio poteva rappresentare un dazio eccessivamente alto da pagare alla dogana del dolore. Ecco perché, ad esempio, nei primi mesi di vita le famiglie facoltose, ma non solo, davano la prole a balia. Le famiglie, nonostante l’altissima mortalità infantile, erano comunque numerosissime, e l’educazione rigidissima. Dice il professore Barbero in Dietro le quinte della Storia: “L’infanzia era considerata un’età difettosa […], i bambini bisognava guarirli dall’infanzia. Gli adulti credevano che nell’educazione fossero obbligatori il rigore, le punizioni e che fosse controproducente mostrare indulgenza”.
Fino a pochi decenni fa questo era il modo che avevano i genitori di relazionarsi con i figli. Addirittura si diceva: “I bimbi vanno baciati solo quando dormono”. Dal nostro punto di vista quel modo di comportarsi era sbagliato, inumano. I nostri antenati in realtà non erano troppo diversi da noi, l’amore e le pulsioni che provavano verso i figli erano pressoché le stesse di oggi. Ciò che è cambiato nei secoli è il modo di esprimersi, di manifestare i propri sentimenti, perché ogni epoca forma e istruisce le generazioni in modi diversi, li plasma con idee e comportamenti differenti.
Oggi i bambini, essendo diventati molto più rari di un tempo, sono al centro totale dell’attenzione, ci si annulla in loro molto più che nel passato. Soprattutto in presenza di figli unigeniti. Per loro non c’è mai un attimo di respiro, mai un momento di tregua: corsi di nuoto, lezioni di tennis, sezioni di danza, partite di calcio, inglese, informatica. Irrimediabilmente stressati fin dalla più tenera età. Loro e le sfortunate madri, costrette a correre come matte per consentire questi assurdi e dannosi tour de force. In questi figli disgraziati i genitori riversano tutte le loro aspettative, tutte le speranze di realizzazione, le aspirazioni represse; essi rappresentano il riscatto, la personificazione in fieri del successo che ad essi è stato negato perché il “mondo è tanto crudele”. Ed è così che questi bimbi divengono delle rappresentazioni sacre, degli oggetti preziosi da ostentare, da mostrare al mondo. E da preservare e far crescere nella più avvolgente bambagia. Mi raccontava qualche giorno fa un’amica, insegnante in una scuola elementare, che ormai il rapporto dei maestri con i genitori degli alunni è diventato ingestibile. Non c’è più quasi nessuno disposto ad accettare una critica al proprio figlio, nessuno che dia più retta alla parola dell’insegnante: «Se metto una nota sul diario a un ragazzino e dico di farla firmare, i genitori mi rispondono indietro tutto». Ecco, fino a qualche decennio fa lo stesso ragazzino, non solo non sarebbe stato difeso dai genitori, ma le avrebbe anche prese dagli stessi.
Oggi le prospettive sono cambiate e il mondo non è più lo stesso. Nel campo dell’editoria per esempio gli unici giornali che non risento della crisi sono quelli di gossip, quelle riviste patinate traboccanti di mamme e papà vip, di celebrità che si fanno immortalare col pancione, di sale parto allestite come set fotografici. Milioni di lettori si appassionano di tali vicende, s’identificano con i loro beniamini, ne imitano il modo di vestirsi, danno ai loro figli gli stessi nomi dei figli dei vip. E così vivendo di luce riflesse, s’illudono di diventare un po’ famosi anche loro. Nel passato l’unica nascita a cui ci si interessava era quella del figlio del Re. E non perché ci fosse dietro quell’invidia morboso che caratterizza i nostri tempi, ma perché la nascita del “delfino” era garanzia di stabilità dinastica e quindi di pace e armonia nel regno. In caso contrario si sarebbero aperte delle sanguinose guerre di successione, e il popolo ne avrebbe pagato, come al solito, le conseguenze. Non per nulla l’accusa più grossa che veniva rivolta a Maria Antonietta d’Austria, era quella di non dare un successore a Luigi XVI. Di tutto il resto delle nascite dell’Universo non fregava niente a nessuno.
Oggi invece, grazie a questi portentosi social network, ognuno può sentirsi per un momento come un sovrano di casa reale, famoso e ammirato - lui e la sua amata prole - con poco sforzo e poco costo. Basta qualche foto e qualche sagace commento per venir fuori finalmente dall’anomia in cui ci ha relegato questo mondo in cui siamo diventati tutti dei numeri.
Che poi non interessi a nessuno, poco importa. La fiera della vanità e dell’effimero da oggi è aperta a tutti.
Nessun commento:
Posta un commento