Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

venerdì 1 febbraio 2013

Allora, passi tu a prendere il fumo…?

Un paio di giorni fa, nel corso di un’udienza in camera di consiglio, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, hanno stabilito che il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti non è reato. La Suprema Corte era chiamata a rispondere su un quesito riguardante la legge “Fini-Giovanardi”, vale a dire se il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti fosse o meno “penalmente rilevante nella duplice ipotesi di mandato all’acquisto o dell’acquisto comune”.
La sentenza nella sostanza afferma che il consumo di droga in gruppo non è reato se non c’è la cessione, cioè se non c’è spaccio. In altre parole, se un gruppo d’amici, dopo una cena elegante – ora vanno tanto di moda – , tira fuori qualche canna di hashish acquistata da uno di loro e se la fuma allegramente, non c’è configurazione di reato. Viceversa se uno acquista e poi vende la droga ad altri c’è una cessione, e quindi spaccio. E lo spaccio è fattispecie penalmente rilevante.
In una precedente sentenza (35706/2011), la Terza Sezione della Cassazione aveva sostenuto, al contrario, che il concetto di uso collettivo di stupefacenti è incompatibile con quello di “uso esclusivamente personale” introdotto dalla legge 49/2006 (l’art. 73-bis punisce la detenzione di sostanze stupefacenti, quando per la quantità, modalità di presentazione o per altre circostanze appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale). Ma si sa, in Italia le sentenze delle Sezioni Unite fanno giurisprudenza e di conseguenza, salvo ulteriori modifiche legislative, questo è l’orientamento definitivo cui le corti di ogni ordine e grado dovranno attenersi in futuro.
Questa notizia di cronaca giudiziaria mi ha fatto tornare in mente lontani anni di gioventù, quando non era raro che in compagnia girassero degli spinelli. Era epoca di ribellione, di contestazione, ci sentivamo rivoluzionari sovversivi, padroni del nostro futuro perché ancora tutto da venire. E come tutti i giovani, adottavamo atteggiamenti trasgressivi, pensando così di ritagliarci un ruolo originale nel mondo. Che poi, a dirla tutta, farsi una canna non aveva proprio niente di originale. Allora come oggi.
E così capitava che spesso ci si trovasse in piazza, due chiacchiere veloci, programma della serata, e poi una delle macchina, con tre o quattro di noi a bordo, si allontanava dal gruppo per andare a “prendere il fumo”. I luoghi dello spaccio erano squallidi, tetri, avvolti nella semioscurità e mettevano addosso apprensione. E si chiamavano sempre “buca”. Chissà perché questi luoghi, a qualunque latitudine, in qualsiasi luogo geografico della Terra, si chiamano “buca”? «Dove l’hai preso sto pakistano?». «Alla buca di Cinisello…». «Andiamo alla buca di Sesto o a quella di Bresso?». «Meglio a Bresso. Il tossico di Sesto, per evitare i cani antidroga, ci piscia sopra ai panetti».
Sempre la “buca”. Bah, forse perché, tra gli altri clienti, c’erano anche quelli che si facevano di droghe pesanti, che si “bucavano”.
E che personaggi giravano in quelle notti buie. Gli spacciatori - chiamati in seguito pusher - erano quasi tutti ragazzi, perlopiù della nostra età. Spesso anche simpatici. C’era quello che ti proponeva confidenzialmente l’offerta speciale, quello che ti metteva nel cartoccetto sempre la cosiddetta “aggiuntina” – cioè un mezzo grammo di prodotto gratis – , quell’altro che ti suggeriva di provare qualcosa di nuovo. Ma noi niente, testardi come multi, tradizionali fino in fondo: o hashish o niente. E così raccattavamo su la nostra “merce” e raggiungevamo gli altri. Finivamo la serata a fumare immancabilmente in un luogo isolato, in periferia. Alle volte andavamo al Parco Nord, davanti al nostro istituto scolastico, come a lanciargli un affronto, uno sgarbo all’autorità.
Come ogni buona compagnia poi, avevamo anche noi l’esperto, il mastro fumatore, quello che la sapeva più lunga di tutti e possedeva i segreti dello “sballo”. Chilum e pipe magistrali in terracotta, chubanga, cannoni joint, carciofo, cintola, baffo, veliero con bottiglia di vodka: non c’era specialità che non fosse saldamente nelle sue mani. Egli si poneva con platealità al centro del gruppo e, con movenze ieratiche da santone, preparava con cura la mistura: sembrava di assistere ad una cerimonia sacra e tutto intorno aleggiava sempre un silenzio mistico, vigile e attento. E poi c’era l’accenditore ufficiale, colui che si occupava del primo tiro, quello più pesante. Dopo una serie di quattro o cinque boccate poderose, cacciava immancabilmente dei gran colpi di tosse, si allontanava a prendere aria, sgranava gli occhi. Poi, trascorsi pochi attimi di apprensione incantata, tornava e diceva: «È buonissimo…! È pieno d’olio». Al che noialtri sorridevamo di desiderio e davamo il via al rito del passaggio.
Per dirla tutta non ho mai amato le canne, non ne ho mai capito il piacere. Il sapore era greve, denso di essenze spesse, pesanti, sapeva di unto. Davo qualche tiro, ma solo perché faceva parte del rito iniziatico, perché aveva il fascino della trasgressione e del proibito. Con gli amici fingevo di apprezzare, ma nella sostanza non provavo alcun gusto. Tutt’altro. Avvertivo solo un senso d’ilarità incontrollata, si rideva per ogni sciocchezza, ma per il resto nulla di particolare. Ad ogni modo, se proprio dovevo “sballarmi” preferivo una bella fiasca di vino rosso.
Una sera ricordo che c’era freddo, umidità, una spessa coltre di nebbia gravava su tutta la città occultando ogni cosa. Doveva essere autunno inoltrato. Dopo essere passati dalla “buca”, cominciammo a girare per Milano in cerca di un luogo appartato per fumare. Ad un tratto ci fermammo lungo una strada poco trafficata e scarsamente illuminata. La nebbia sempre più fitta. Il mastro fumatore tirò fuori il suo panetto da mezzo chilo, preparò la sua specialità di giornata e facemmo girare la canna. Dopo alcuni minuti scesi per orinare. Mi allontanai dall’auto e mi avvicinai a un muro di cinta di un caseggiato. Durante lo scroscio sollevai lo sguardo verso l’alto – abitudine che ho da sempre – e con orrore mi accorsi della presenza di un cartello che mi fece rabbrividire: “Guardia di Finanza – Nucleo Polizia Tributaria”. Tornai di corsa verso l’auto finendo di orinarmi addosso e dissi solo: «Metti in moto e vai…, vai…».
Un’altra volta eravamo a Bormio per la settimana bianca di Capodanno. Sciate al mattino, terme al pomeriggio, pub con biliardo alla sera. In una discoteca conoscemmo un gruppo di ragazze e dopo aver ballato fino a tarda notte le invitammo a bere qualcosa su da noi. Accettarono dopo un iniziale tentennamento. Dopo aver tirato fuori alcolici e super alcolici vari – tra cui Braulio, Fernet e Prunella Ballor – , decidemmo di giocarci il jolly. «Vi va di fumare…?» – fece Davide con un sorriso luciferino. A quel punto oltre che “belli” dovevamo apparire anche tremendamente “maledetti”. D’altra parte anche Maurizio Milani sostiene che “In amore la donna vuol tribolare”.
«Ma sì, perché no… due tiri li faccio volentieri…» fece una di loro, quella che appariva più schiva e riservata. E subito dopo di lei, un’altra fece: «Dai ciccio, passa qua le cartine che tiro su io…!». E un’altra ancora: «A proposito se volete anche un po’ di questa…» e buttò sul tavolo una bustina di plastica trasparente, con della polvere bianca dentro. Ci puntammo subito addosso occhi sgranati, increduli, immobili, le bocche spalancate. Evidentemente non avevamo a che fare, come erroneamente immaginato, con educande svizzere.
Nessuno di noi ebbe il coraggio di avvicinarsi a quella bustina. Obiettivamente era troppo, anche per dei mezzi drogati come noi.
Passammo tutti per dei tremendi bacchettoni di provincia.
Sono trascorsi molti, moltissimi anni dall’ultima canna. E non ne sento la mancanza. Ciò non toglie tuttavia, che nella situazione adatta e con la compagnia e l’atmosfera giusta – magari davanti ad un camino crepitante e con un buon bicchiere di cognac – potrei anche riprovare. E non per la canna in se stessa – di cui francamente m’interessa ben poco – , ma per compiere ancora una volta quel gesto di antica condivisione che sa di adolescenza, per assaporare di nuovo quel gusto trasgressivo che profuma di dolce incoscienza, di “gioventù bruciata”. Sarebbe come tornare per un momento a quei giorni lontani, all’età in cui potevamo permetterci di essere irresponsabili.
Che male ci sarebbe, infondo? Nulla probabilmente, a parte un briciolo di patetico anacronismo. Poca cosa, tutto sommato. Oltretutto da oggi anche per le Sezioni Unite il fatto non sussiste.

Nessun commento:

Posta un commento