Quel sabato era una bella giornata di sole, un anticipo improvviso di primavera dopo giorni e giorni di gelo e umidità. D’altra parte si sa, febbraio è pur sempre il mese più freddo oltreché più corto. Quel pomeriggio avevo preso la metropolitana ed ero sceso a Lampugnano. Fin da subito ero stato sommerso da una folla immensa di persone. In ordine sparso, si dirigevano tutti verso il Palavobis, il palazzetto dello sport adibito per l’occasione a teatro del decennale di Manipulite. Me l’ero presa comoda quella volta, senza fretta: “Chi vuoi che ci vada ad ascoltare quattro sognatori che sbraitano contro il sistema?”. E invece mi ero clamorosamente sbagliato. Quaranta mila persone erano accorse all’invito della rivista MicroMega, una valanga umana impressionante a fronte di dodici mila posti scarsi disponibili all’interno del palazzetto. Poco più di un mese prima, Francesco Saverio Borrelli, Procuratore Generale di Milano, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, aveva lanciato il suo proclama civico: “Ai guasti di un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”. E a tutti era apparso chiarissimo quale fosse il bersaglio di quell’invettiva. Quel pomeriggio dunque non c’era posto per tutti là dentro, migliaia e migliaia di persone neanche riuscivano a entrare nel perimetro del cancello esterno del palazzetto. Neanche il più ottimista tra gli ottimisti degli organizzatori dell’evento avrebbe potuto immaginare un successo di pubblico di quella portata. E così, mentre all’interno cominciavano a parlare gli oratori, all’esterno, sotto la vigorosa regia di Antonio Di Pietro - che effetto mi fece vedere il mio eroe in carne ed ossa… - , si cercava di allestire un palco improvvisato, sfruttando come ripiano soprelevato la pensilina traballante di un cancello d’accesso. A seguire poi giunsero anche gli altoparlanti, il megafono fu sostituito da un microfono, e a turno, gli oratori che avevano terminato il loro intervento all’interno, vennero chiamati da Di Pietro a salire su quel trabiccolo pericolante, per ripetere nuovamente ciò che avevano detto a beneficio degli spettatori esterni. Aveva un che di eroico quella scena, qualcosa a metà tra il comico e il sublime, tra l’ingenuo e il demagogico. E il pubblico s’inebriava nel partecipare a quell’improvvisazione istrionesca. Si arrampicò lassù per prima Sabina Guzzanti - esterrefatta e senza parole davanti a quella marea umana - , poi presero la parola Francesco Pancho Pardi, Furio Colombo, Roberto Zaccaria ed altri. Quando poi, con qualche difficoltà in più, salì sul palco il vecchio Giovanni Berlinguer, che a quell’epoca aveva 78 anni, si fece un gran silenzio. Quella figura attempata e malferma sulle ginocchia, issata lassù come un antico vessillo di lotta e libertà, gettò all’istante un incantesimo su tutti i presenti. Di fronte a quella scena portentosa, al cospetto di migliaia di persone prive di bandiere politiche e striscioni, e armate soltanto di profondo senso civico, il vecchio combattente - che pure di piazze ne aveva viste nella sua lunga vita - ebbe un lungo momento di commozione. Sotto il palco e tutto intorno molti si commossero di rimando.
Ecco, quel 23 febbraio 2002 fu il mio primo approccio a quel genere di esperienza di piazza, alla partecipazione. Quand’ero al liceo avevo preso parte ad un paio di cortei contro la guerra in Iraq, ma ad essere onesti si trattava di un bieco stratagemma per saltare la verifica di fisica. Questa volta invece partecipavo spontaneamente e con entusiasmo, e provavo l’orgoglio di essere parte di un comunità in cui finalmente mi riconoscevo. L’avventura dei cosiddetti Girotondi, per la prima volta usciva dall’anonimato della cronaca locale e si prendeva la ribalta nazionale. L’onda di popolo, sorta spontaneamente intorno ai Tribunali della Repubblica, come manifestazione di solidarietà nei confronti dei magistrati impegnati nelle delicate inchieste contro la corruzione politica, per la prima volta obbligava la stampa a parlare di sé e riscuoteva meritatamente le prime pagine di tutti i quotidiani italiani e internazionali.
Seguirono altre manifestazioni, alcune più numerose, altre meno, fino a giungere all’apoteosi della Piazza San Giovanni a Roma, il 14 settembre dello stesso anno. Scesi alla Stazione Termini e percorsi a piedi tutto viale Emanuele Filiberto. La città era piena di manifestanti di tutte le età, c’erano famiglie con passeggini, gruppi di ragazzi, adulti, anziani, persone distinte e giovani alternativi. Una vera festa di popolo, scevra da qualsiasi connotazione politica. Quando giunsi sulla piazza la scena fu memorabile: sembrava di essere al concerto del Primo Maggio. Provai ad avvicinarmi al palco, ma non c’era nessuna speranza di guadagnare terreno. Mi scelsi dunque un luogo che mi consentisse una visuale discreta e cominciai ad ascoltare gli interventi. La “Festa di protesta”, come venne chiamata dagli organizzatori, iniziò con l’introduzione di Nanni Moretti. Il regista, dopo il famoso “con questi dirigenti non vinceremo mai”, era diventato in quel periodo il faro per i delusi di sinistra e non solo. Seguirono gli interventi di don Luigi Ciotti dell’associazione “Libera”, Rita Borsellino, Gino Strada, Federico Orlando, Paolo Flores d’Arcais, Furio Colombo, Francesco Pardi, Daria Colombo, Vittorio Foa. E poi si esibirono anche artisti come Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia e Roberto Vecchioni. Fu una meravigliosa festa di piazza, una straordinaria occasione per dimostrare che il popolo italiano non era più disposto a mandar giù l’orrore che i politici abilmente cucinavano giorno per giorno per la Nazione.
Eppure, a dispetto di cotanto exploit, quello fu il canto del cigno del movimento dei Girotondi. Da quel momento in poi, lentamente eppure inesorabilmente, l’entusiasmo impetuoso di quelle adunate oceaniche, cominciò a scemare. Senza purtroppo tradursi in una realtà concreta e tangibile. Tempo dopo, approfittando della presentazione di uno dei tanti libri di Marco Travaglio, chiesi al giornalista il suo parere sul perché tale movimento non era riuscito a strutturarsi in un partito politico. Mi rispose - vado a memoria - che per fare politica erano indispensabili persone del mestiere: assolutamente assenti in quel movimento. E così per anni, salvo qualche iniziativa di stampo pacifista o sindacale, le piazze rimasero pressoché vuote. Fino a che non giunse il V-Day di Beppe Grillo. Quell’otto settembre 2007, mi trovavo a Bologna, a casa di amici conosciuti il mese prima in Corsica. Seguivo il blog di Grillo già da qualche tempo e per nulla al mondo mi sarei perso quell’evento. Piazza Maggiore era piena all’inverosimile e dal palco l’ex-comico genovese inveiva contro la classe politica, artefice a suo dire, dello sfascio della Nazione. Per la prima volta sentivo parlare di argomenti nuovi, con parole nuove: c’erano le tematiche ambientaliste, le innovative politiche energetiche, i moderni sistemi di mobilità, i diversi e più democratici criteri di selezione della classe dirigente. Il tutto raccontato in maniera chiara e cristallina da personaggi straordinari come Maurizio Pallante, Massimo Fini, Walter Ganapini, Milena Gabanelli. E poi c’era lui, Grillo, un fuoco d’artificio, un vulcano carismatico in eruzione, capace di accendere gli animi della folla. Questo movimento, a differenza dei Girotondi aveva qualcosa di più da offrire, era più eclettico, più strutturato, squadernava una visione del mondo completamente diversa da tutto ciò che avevamo visto fino ad allora. E tutto ciò penetrava nei polmoni come aria frizzante, leggera, regalando sensazioni di ebbrezza. Nel momento clou della serata, all’apice dell’esaltazione, ricordo che trovai il coraggio di prendere per mano Giovanna. E lei mi guardò sorridendo.
Durante quella magnifica giornata vennero raccolte le firme per la presentazione di una legge di iniziativa popolare riguardante i criteri di candidabilità ed eleggibilità dei parlamentari, i casi di revoca e decadenza dei medesimi e la modifica della legge elettorale. E anche qui fu un successo: 336.144 firme in poche ore. Ovviamente poi, di tutto ciò, il Parlamento non se ne curò minimamente.
Nacquero poi i Meet Up, gruppi territoriali che si rifacevano alle idee del blog (frequentato tra l’altro da premi Nobel del calibro di Joseph Stiglitz e Paul Krugman). E a seguire prese vita il Movimento 5 Stelle, il soggetto politico che riassumeva tutte le istanze portate avanti da anni di discussioni e dibattiti. E come conseguenza la partecipazione alle prime elezioni amministrative locali: con un crescendo rossiniano.
Ciò che segue è storia di oggi. Con le elezioni di domenica e lunedì, il Movimento 5 Stelle è diventato il primo partito d’Italia alla Camera con il 25,5 per cento di voti e 108 deputati eletti; mentre al Senato ha conquistato la bellezza di 54 seggi. Un successo di una portata epocale. Per anni tutte le forze politiche - dall’estrema destra all’estrema sinistra - hanno snobbato, ignorato e irriso selvaggiamente le iniziative di Grillo, le manifestazioni, i comizi, le proposte di legge e quant’altro. I leader politici dei maggior schieramenti, nella foga di smitizzare e demolire questo nuovo movimento, si sono lasciati andare a frasi che lette oggi, suscitano solo grandi risate di scherno: “Se Grillo vuole fare politica, fondi un partito e vediamo quanti voti prende” (Piero Fassino, 2009); “Grillo è un trombone, non conta nulla in questo paese” (Maurizio Gasparri, 2008); “Grillo si tenga i suoi boy scout incompetenti. Noi abbiamo i nostri sindaci guerrieri” (Roberto Maroni, giugno 2012); “Mi sono sottoposto al sacrificio di ascoltare su internet il comizio di Beppe Grillo: mi sembra un impasto tra il primo Bossi e il Gabibbo” (Massimo D’Alema, aprile 2012). Fino ad arrivare niente meno che al Presidente della Repubblica che a domanda “Cosa pensa del boom di Grillo alle comunali?”, rispose: “Di boom ricordo quello degli anni ’60. Di altri non ne vedo” (maggio, 2012). Ecco la lungimiranza dei nostri politici.
E così, dati alla mano, in queste ore si contano i caduti sul campo: dalle ultime politiche del 2008 ad oggi, il Partito Democratico perde quasi 3,5 milioni di voti alla Camera e oltre 2,5 al Senato; il Popolo delle Libertà 6,2 milioni alla Camera e 5,5 al Senato; la Lega Nord 1,6 alla Camera e 1,3 al Senato. Altre formazioni storiche non hanno neanche raggiunto la soglia di sbarramento.
Cos’accadrà ora in questo clima di ingovernabilità pressoché assoluta? Staremo a vedere. L’incarico di formare il Governo sarà probabilmente affidato al candidato premier del Partito Democratico grazie alla maggioranza conseguita alla Camera. Da quel momento si apriranno due scenari: o l’alleanza con il vecchio, già vista e rivista in questi ultimi penosissimi vent’anni, o l’apertura al nuovo. La prima scelta segnerà la fine dei partiti della Seconda Repubblica; la seconda regalerà un futuro incerto, avventuroso, fatto di aspettative, speranze, nuovi ideali, nuovi modi di intendere l’esistenza, nuove frontiere. Mi auguro che il PD, se non altro per spirito di conservazione, decida per la seconda.
Dopo tutti i guai che avete combinato, lasciateci almeno un briciolo di speranza.
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