Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

mercoledì 13 febbraio 2013

“Il sonno della ragione genera mostri”

Nel paese di Arcadia, esisteva un tempo un signore assai buffo e singolare, sempre allegro, la battuta pronta, simpatico e guascone. Un istrione d’avanspettacolo in piena regola. Nella vita aveva avuto grande successo, da borghese piccolo piccolo, era divenuto uno degli uomini più ricchi del Mondo. I maligni sostenevano che quelle fortune fossero frutto di imbrogli e malaffare, perpetrati per decenni a danno del popolo, ma, come si sa, nessuno è disposto ad ammettere facilmente i meriti dell’altro e la mamma degli invidiosi è sempre incinta.
Col passare del tempo questo signore, che a causa delle sue uscite spesso grottesche e strampalate, veniva comunemente chiamato Vanverino, divenne talmente ricco e potente, da condizionare non solo l’economia, ma l’intera vita politica e democratica del suo paese. E sì perché Vanverino, minacciato dalle inchieste giudiziarie di una classe politicizzata di Arconti rancorosi - i più invidiosi tra gli invidiosi - si era visto costretto ad occuparsi della “cosa pubblica” per difendersi (oltreché naturalmente per salvare dal triste destino il paese che egli tanto amava). E strano a dirsi, ma neanche tanto trovandoci nel paese di Arcadia, i cittadini cominciarono a dargli retta, ad acclamarlo e riempire le piazze durante i suoi comizi. Egli prometteva la rivoluzione borghese, l’abbattimento del feroce regime degli Arconti, l’azzeramento delle odiate gabelle, la felicità per tutti. E il popolo gli credeva, anche perché Vanverino era un gran simpaticone e faceva sempre molto ridere con le sue barzellette. E così, a dispetto di tutte le previsioni dei filosofi peripatetici che in quel tempo avevano grande influenza, vinse le elezioni. Vanverino, salvo brevi periodi di interregno - in cui si faticava seriamente a capire chi fosse al governo e chi all’opposizione - dominò da monarca assoluto per quasi vent’anni. Il paese di Arcadia, plasmato a sua immagine e somiglianza, si trasformò radicalmente, abbracciando una nuova e moderna filosofia di vita, nuovi valori, nuovi ideali. Là dove un tempo esisteva una morale basata su onestà, rettitudine, lealtà, fiducia, dignità, onore, tutte virtù nocive e ampiamente superate, come si può facilmente intuire, ora regnava la cultura del successo ad ogni costo, dell’arrivismo, dell’apparire. Tutto ciò che un tempo era considerato scioccamente diritto sacro e inviolabile, si trasformò opportunamente in benigna concessione. Tutte le lotte portate avanti in decenni e forse secoli, a favore dei lavoratori, per l’emancipazione della donna, per i diritti sociali e civili, persero gradualmente di significato e vennero presto giustamente dimenticate. In tutti gli strati della popolazione, dai più colti e benestanti ai meno istruiti e disagiati, si diffuse l’idea che il merito fosse la più grande panzana messa in circolazione dagli sfruttatori del passato. Nelle famiglie i genitori cominciarono a sperare per i figli, non già vuote e insignificanti carriere da avvocati o medici, o ingegneri, ma ribalte teatrali, riflettori mondani, successi di pubblico. Che ci fosse da pagare qualche piccolo pegno d’onore per la scalata alla notorietà, poco contava. L’importante è che si raggiungesse la fama. E così, per molti lustri il paese visse in questo meraviglioso sogno, in questo stato d’incantamento che portava, se non la felicità per tutti, almeno la speranza di divenire un giorno come i tanti idoli che ce l’avevano fatta. Perché in questo meraviglioso sogno, il successo era divenuto la misura di ogni cosa, il valore assoluto, la ragione ultima dell’esistenza, completamente fine a se stesso. Ora avvenne che, dopo molti anni di felice buongoverno - checché ne dicessero i detrattori faziosi e partigiani - si verificò una grave carestia che sconvolse tutto il paese. Nei campi i raccolti cominciarono a scarseggiare, gli artigiani e i bottegai videro diminuire sempre più le commesse, la popolazione si andò impoverendo a vista d’occhio. Ma nonostante ciò, Vanverino continuava a sostenere che la carestia non esistesse e che fosse solo un mezzuccio propagandistico degli Arconti per farlo sfigurare agli occhi del suo popolo. E senza dubbio aveva ragione. Fatto sta che, per una ragione o per l’altra, la gente ce la metteva veramente tutta pur di dar ragione ai disfattisti: alcuni erano talmente entrati nella parte che facevano una gran fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Ad un certo punto Vanverino, messo alle strette dai suoi stessi serventi e maggiordomi, dovette ammettere che la carestia esisteva davvero. E così si presentò in piazza davanti al suo popolo e tra battute, aneddoti, frizzi, lazzi e grandi risate, cominciò a raccontare ai presenti il perché della carestia e il modo in cui Arcadia ne sarebbe uscita se solo si fosse affidata ancora una volta a lui. In fin dei conti egli amava il suo popolo, e poi c’era stata la crisi dell’erario, l’uragano, il terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette. Non era di certo colpa sua lo stato miserando in cui versava ora il paese. Ascoltando quelle parole, a qualcuno tornò in mente la scena di una vecchia, lontana commedia scritta da Menandro - andata persa purtroppo - , in cui un tale, pur di non essere pugnalato a morte dalla fidanzata abbandonata sull’altare un attimo prima di sposarsi, inventa delle scuse fantasmagoriche e incredibili a discolpa del suo comportamento. E così Vanverino, accorgendosi per la prima volta in vita sua che il pubblico non lo seguiva, rumoreggiava e anzi dava segni di disapprovazione, invitò sul palco una dama lì presente, con la quale intendeva fare un bel siparietto per far ridere gli astanti. E com’era suo costume da sempre, cominciò a fissarla con sguardo libidinoso, a fare battute sconce a sfondo sessuale, a lanciare doppi sensi, ammiccamenti, occhiate d’intesa col pubblico. E, di fronte al profondo imbarazzo della sua ospite, rideva, rideva senza ritegno Ma, con sua grande sorpresa, successe una cosa strana, imprevista e imprevedibile. Dalla platea non partì nessun applauso estasiato, nessuna risata fragorosa, nessun segno di gradimento e approvazione. Solo volti severi, sprezzanti e disgustati, in un silenzio irreale. E la cosa era oltremodo singolare e incredibile ai suoi occhi, essendo abituato a folle esaltate, inebriate, osannanti e bendisposte verso i suoi siparietti. Che cos’era mai dunque quel sussulto di dignità? Poi ad un tratto, prima sommessamente, poi sempre più con forza crescente di cascata, si levarono mugugni, borbottii, lamenti, invettive contro il palco. Defilato sul lato lungo della piazza si udì un “vergogna” urlato con timbro baritonale da un tipo atticciato; da sinistra un altro gridò “valle a dire a tua sorelle queste cose…”; da destra un gruppetto di donne esplose in un “come ti permetti, maiale”. Vanverino cercò di minimizzare, sorrise, fece il disinvolto, ma si rese conto che la situazione gli stava sfuggendo dalle mani. Pensò a quel punto di rimediare buttandola sull’ormai classico cavallo di battaglia, quello che da sempre gli aveva garantito il consenso: “Amici, non date retta a questi contestatori politicizzati…”. Ma la folla prese a lanciargli ortaggi e verdure avariate. Ormai tutto era in subbuglio, le schiere rumoreggiavano, si agitavano sempre più violentemente sotto il palco, davano segni di rabbia incontrollabile. Vanverino si rese conto di non avere più scelta, doveva scendere dal palco e scappare, fuggire prima che fosse troppo tardi. «Sciocchi - pensò tra sé e sé, mentre un carro lo portava lontano - , come potrete vivere senza di me…? Che vita triste e senza speranza vi aspetta da ora in poi…, che mondo buio e desolato vi attende. Ho pena, una grande pena per tutti voi, figli miei…».
E così, da quel giorno per gli abitanti di Arcadia nulla fu come prima. La carestia aveva di fatto spazzato via in un colpo solo tutti i sogni, i miraggi e gli incantesimi in cui era vissuto per quel lungo tempo un intero popolo. Ora finalmente le persone si rendevano conto di aver sprecato vent’anni della loro storia correndo dietro alle inutili e deleterie sinfonie di un pifferaio magico. Il giorno dopo ad Arcadia si risvegliarono tutti un po’ più tristi. D’altra parte accade sempre così quando un bel sogno finisce. Non avevano rimpianti tuttavia: aver ritrovato il proprio onore e la propria dignità instillava gocce di orgoglio e fiducia nei loro animi. Da ora in poi non sarebbe stato facile, questo lo sapevano tutti: avevano un paese da ricostruire e neanche un’illusione alla quale affidarsi. Ma erano un grande popolo, fiero, con una grande storia alle spalle. E di questo ne erano coscienti. Il futuro non poteva spaventarli.
E poi dopo mi sono svegliato.

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