
Ieri, 27 febbraio 2013, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha inaugurato a Capitol Hill, sede del Congresso, una statua della pioniera dei diritti civili con queste parole: “Rosa Parks ci insegna che le cose possono accadere o non accadere, e se si vuole cambiare il mondo è necessario sfidare l’ingiustizia con coraggio”. Ha del commovente questa storia: una piccola donna indifesa, una semplice sarta neanche più tanto giovane (a quell’epoca aveva 42 anni), disposta a mettere in gioco tutto, a combattere una battaglia impossibile, a mettersi contro l’autorità costituita, violenta e spietata. E il tutto per un ideale di giustizia. Nascono così le grandi avventure umane, le grandi sfide contro l’orrore: “Con quel gesto semplice – continua Obama – Rosa ha contribuito a cambiare l’America e il mondo”.
A seguito di quelle vicende Rosa ricevette numerose minacce di morte, perse il lavoro e non le riuscì di trovarne un altro a Montgomery. E così decise di trasferirsi a Detroit, nel Michigan, all’inizio degli anni sessanta, dove riprese l’attività di sarta. Dal 1965 al 1988 lavorò come segretaria per il membro del Congresso John Conyers. Nel 1999 il Congresso degli Stati Uniti le conferì la Medaglia d’oro per meriti civili. Rosa si è spenta a Detroit il 24 ottobre del 2005, all’età di 92 anni.
La discriminazione razziale è quanto di più turpe possa esistere sulla faccia della terra. E questa non è una mera asserzione di principio è una constatazione. Qualche tempo fa, nonostante sia cittadino italiano su suolo italiano, ho assaggiato sulla mia pelle cosa voglia dire sentirsi disprezzati per le proprie origini. Essendo figlio di meridionali emigrati al nord per lavoro, ho avuto fin da bambino uno strano rapporto con i coetanei settentrionali da generazione. Spesso la mia cadenza era oggetto di scherno, qualcuno mi chiamava “Foggia” per identificarmi con il luogo di nascita dei miei parenti. Ma fino a che ho trascorso la mia vita in una grande città, nel grande crogiuolo di lingue, dialetti e culture metropolitane, la faccenda era derubricabile a puro folclore. Trasferitomi invece nella bassa padana, dove l’ambiente è più chiuso e provinciale e il fenomeno dell’immigrazione, a quell’epoca ancora del tutto marginale, ho dovuto constatare quanto peso abbia ancora il fatto di non essere del posto. “Adesso devi imparare il nostro dialetto”: quante volte ho sentito questa stupida frase, pronunciata con arroganza da persone che vogliono che tu ti integri. Espressione orrenda. Perché o ti integri o resterai sempre un forestiero, un cittadino di serie “B”. Ma uno può anche non farci caso a tutto ciò, può rassegnarsi e aggregarsi da paria alla comunità. Sempre che questa gli consenta di aderire. Ciò che non si può far finta di sapere, tuttavia, è che presto o tardi qualcuno ti urlerà in faccia tutta la tua diversità. Ed è ciò che mi è accaduto appunto qualche tempo fa. Mi trovavo allo stadio come soccorritore della Croce XXX, addetto alle tribune. Un altro equipaggio era dislocato sul campo di gioco. Durante l’intervallo venne da me correndo un signore: un giocatore stava male negli spogliatoi. Avrebbe dovuto intervenire l’altro equipaggio, ma non lo vedevo. E così presi con me un collega e lasciai sulle gradinate gli altri due. Negli spogliatoi il ragazzo aveva dei capogiri e non riusciva a stare in piedi. Probabilmente aveva una commozione cerebrale. Gli prendemmo i parametri e cominciammo le operazioni di trasferimento in ospedale. Nel corridoio incrociammo l’altro equipaggio. Uno dei soccorritori, una donna non più giovanissima, mi venne incontro e con un’espressione astiosa, mi disse: «Cosa ci fai te (sic) qua? Tu devi stare sugli spalti. Dobbiamo pensarci noi ai giocatori». Risposi che avevo lasciato là due colleghi. Insistette con rabbia a vomitarmi addosso parole di fuoco. Senza peraltro curarsi minimamente che ci fosse un paziente da assistere. Lasciai le consegne al capo-equipaggio e mi incamminai verso la mia postazione. Ma costei continuò a seguirmi e a dirmi altre parole. Mi fermai e guardandola fissa negli occhi le disse: «Senti bella, voi non eravate sul posto e io di fronte a una richiesta d’aiuto, me ne frego delle regole. Chiaro?». Esplose nella classica espressione usata dai beceri di queste latitudini: «Sei un terrone di merda…! Ecco cosa sei: un terrone di merda…». Le feci ingoiare una per una quelle parole: se non l’avesse fatto, l’avrei querelata il giorno dopo. E lei lo sapeva. La faccenda si chiuse con le sue scuse, in presenza di testimoni. Eppure tornando a casa, provai un senso di rabbia profondo, un odio inverecondo verso quella persona che mi aveva aggredito senza una sola ragione. Sì, in precedenza c’era stato qualche scambio di battute poco simpatiche, ma pensavo fosse tutto riconducibile alla normale dialettica tra colleghi. E invece questa persona covava nei miei confronti un autentico sentimento di odio razziale. Che poi quando glielo spiattellai in faccia, come tutti i razzisti di questo mondo, ebbe anche il coraggio di piccarsi: «Io razzista? Giammai…! Ci mancherebbe. Anzi, ti dirò, tra i miei migliori amici ci sono anche dei meridionali». Come i cani, insomma: evviva l’ecumenismo. Ad ogni modo mi ci vollero diversi giorni per digerire quella brutta storia. L’odio razziale ti scende come un corrosivo dentro, ti macera, ti brucia, raggiunge la parte più profonda di te stesso, l’essenza stessa della tua persona. Un qualsiasi altro insulto resta in superficie, pertiene al come appariamo esternamente, a come ci manifestiamo: stupido, maldestro, ladro, sono tutti insulti che riguardano la persona attuale, quella che hai davanti. L’insulto razzista invece è un quid prius, è odio puro verso una categoria, uno schiaffo alla carne viva a prescindere. Senza alcuna ragione oggettiva se non che sei diverso, e il diverso è qualcosa che non ci appartiene e che va allontanato.
Ecco perché, a distanza di oltre mezzo secolo, leggo la storia di Rosa Parks e sento una grande emozione. La sua storia è un po’ anche la mia.
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