Sulle pagine de Il Fatto Quotidiano di sabato scorso, Massimo Fini ha affronta il dramma della cosiddetta “ludopatia”, ovvero la passione per il gioco d’azzardo, divenuta ufficialmente malattia riconosciuta e curata dal Servizio Sanitario Nazionale. Fini sostiene che in Italia si è sempre giocato d’azzardo, lecitamente o più spesso illecitamente, e dunque da questo punto di vista non ci sarebbe nessuna novità rispetto al passato. Il fatto nuovo e devastante è la comparsa delle pericolosissime slot-machine, quelle orribili macchinette video-poker che ipnotizzano gli sventurati giocatori, arrivando a ripulirli di intere fortune. Perché oltretutto, là dove un tempo il gioco era un modo di socializzare, di confrontarsi, di intrecciare rapporti, ora queste nuove tecnologie, applicate all’aspetto ludico dell’esistenza, hanno creato solipsismo, estraniamento, barriere invalicabili rispetto al mondo esterno. Tempo fa, quando lavoravo per una società di Milano, mi alzavo ad orari orrendi, ben prima dell’alba e, prima di prendere servizio, mi fermavo in un bar di Corso di Porta Romana. Ebbene, già da quell’ora, tutte le macchinette del video-poker erano occupate. I giocatori erano perlopiù operai, muratori, manovali, tutta gente che non trova certo i soldi per strada. Erano tutti in uno stato di trance, concentrati in maniera mal sana su quelle immagini che giravano davanti ai loro occhi. Crozza dice: “Cinque mila anni di civiltà, per finire davanti ad una macchinetta ad aspettare che escano tre prugne”. Ed in effetti è così. Poveri disperati, con occhi sbarrati da paranoici, ogni giorno affollano bar, sale giochi e casinò e sbattono dentro le macchinette tonnellate di monetine al mese, rovinando se stessi e le loro sfortunate famiglie. Nel silenzio pressoché totale dello Stato, fatto salvo l’avviso su “I rischi del gioco d’azzardo: avvertenze per i giocatori” introdotto dal decreto Balduzzi (legge 189/2012). Come se una semplice affissione nei luoghi da gioco fosse sufficiente a scongiurare questi drammi. Ma non ci sono solo le macchinette, c’è anche il Lotto, il Superenalotto, il Bingo, il Gratta e vinci, un fenomeno di portata impressionante, una delle industrie più floride del nostro paese, che ogni anno porta gli italiani a spendere cifre iperboliche: secondo gli ultimi dati Aams (Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato), nel periodo gennaio-ottobre 2012 la raccolta complessiva è stata di circa settanta miliardi. Con un incasso annuo dello Stato di circa nove miliardi. Ecco, da una parte lo Stato ci avverte del pericolo della dipendenza dal gioco, dall’altra però incassa una valanga di quattrini. Un po’ come per superalcolici e sigarette. Alla faccia della coerenza.
In generale non sono mai stato attratto dai giochi da tavolo e men che meno da quelli di destrezza e abilità, tipo i flipper. Anche perché non avendo la minima predisposizione non mi divertivo affatto: la pallina mi cadeva subito nella buca e amen. Amavo invece il biliardo, mi piaceva la geometria delle traiettorie delle biglie, il suono rotondo della mazza che colpiva la palla, la competizione con gli amici, la presa in giro reciproca. Era un bel modo di passare i pomeriggi. Oggi invece, trovare una sala da biliardo classica è un’impresa quasi disperata. Ma non c’era solo il biliardo, naturalmente. Tempo fa in compagnia bazzicava un ragazzo molto facoltoso, figlio di un deputato della Repubblica. Una sera, dopo cena, buttò lì “andiamo a fare un giro a Campione”. Egli, nonostante la sua giovane età, era un habitué dei casinò. Gli demmo retta e in un’oretta di macchina eravamo davanti al Casinò Municipale. La cosa che mi colpì subito, ancora prima di entrare, fu la presenza di un’autoambulanza fuori dall’ingresso. Evidentemente il rischio che qualcuno si sentisse male là dentro era molto elevato. All’interno trovammo un ambiente molto raffinato, un silenzio incantato. In un’ampia sala c’erano due tavoli da roulette, in altri ambienti si giocava a poker e chemin de fer. I giocatori si aggiravano meccanicamente tra i tavoli, l’espressione spenta, come se fossero in trance. Si avvicinavano alla roulette giocherellando con le fiches e, chiamando per nome il croupier, puntavano cifre agghiaccianti. Almeno per noi. Tra gli altri giocatori, intravidi anche Emilio Fede. Dopo aver fatto la puntata incollavano gli occhi sulla pallina bianca saltellante, e nei loro sguardi balenava una scintilla di speranza, accompagnata da un fremito di tutte le membra appena percettibile. Che se poi anche non usciva il loro numero, erano comunque contenti, perché in fondo era il brivido del gioco che contava, non tanto la posta o la vincita. Timorosi e imbarazzati facemmo anche noi qualche puntata. Senza grossa fortuna, s’intende. Andando verso i tavoli delle carte invece la scena cambiava. Nel corridoio, sedute su dei divanetti di velluto rosso, c’erano alcune giovani donne abbigliate in maniera succinta ed elegante. Ci sorrisero maliziosamente. L’impressione che ne ebbi e che si trattasse di entraîneuse. I giocatori di chemin de fer erano tutti molto concentrati, serissimi, solo un tipo prendeva nervosamente appunti su un block notes. Si vedeva che erano professionisti. Non ci sfiorò nemmeno l’idea di giocare.
Per un periodo poi, mi feci travolgere dal “demone del gioco” dei cavalli. Un collega di lavoro ogni mattina entrava di corsa in ufficio con la mazzetta sotto il braccio e cominciava a sfogliare furiosamente Galoppo & Trotto Stalloni, Puledri di razza, Trotto & Turf, Sport & Scommesse. Era un vero malato di mente. Verso metà mattinata, mi fissava con una luce sinistra negli occhi e diceva: “Ci siamo…”. E così due o tre volte a settimana, mentre gli altri colleghi a fine giornata andavano a bere qualcosa in dolce compagnia, noi ce ne andavamo all’ippodromo a giocare. Il mercoledì, il sabato e la domenica c’erano le gare di galoppo, e non ce ne perdevamo una. Quelle di trotto viceversa non mi attiravano granché.
Questo collega era sempre molto sicuro di sé, non aveva mai dubbi su un cavallo. Un certo periodo si era convinto che dietro alle corse ci fosse solo una grande macchinazione, tutta tesa a fregare gli scommettitori. E tanta era la sua paranoia che sosteneva di aver capito il meccanismo del presunto imbroglio. Per un periodo, a dire il vero, cominciammo a vincere a ripetizione, tanto che anch’io mi convinsi che il gioco era fatto. Poi però ricominciammo a perdere, e anche tanto.
Quando cambiai lavoro e mi allontanai dalla zona di San Siro, inevitabilmente persi i contatti con il collega e con questo mondo surreale.
Un’altra volta mi trovavo con amici in Costa Azzurra. Provammo ad entrare al Casinò di Montecarlo, ma occorreva aver compiuto i ventun’anni. E così andammo a Nizza dove era sufficiente la maggiore età. È qui che vidi per la prima volta quelle orrende slot-machine. Ce n’erano a decine e decine, e di fronte ad ognuna di esse vi erano persone di ogni genere ed età. Nella confusione più totale, data tra l’altro dai noiosi e ripetitivi suoni provenienti dagli altoparlanti degli apparecchi, quest’umanità disperata dilapidava il suo tempo e il suo denaro nella solitudine più squallida. Mi fece una strana impressione quella vista, mi pareva un girone di dannati. Una paio di amici presero su un secchiello, cambiarono le banconote e si sedettero davanti ad una di queste macchinette mangiasoldi. Nel giro di pochi minuti avevano perso un botto di quattrini. E oltretutto avevano accumulato una carica nervosa stratosferica. Da allora non ho avuto più nulla a che fare con questi arnesi infernali. E anzi, devo confessare che anche il solo vedere da lontano qualcuno di questi disgraziati giocatori, mi fa venire una rabbia potenzialmente clamorosa.
Nel bar dove vado a bere l’aperitivo per esempio ci sono un paio di video-poker e la ricevitoria del Lotto. I giocatori delle macchinette sono persone piuttosto giovani, quelle del Lotto sono perlopiù anziane. Tra queste ultime ce n’è una che sta fissa al bar, quasi tutto il giorno. Sempre lì a grattare qualche scheda, a scrivere numeri, ad annerire caselle. Se non fosse che è anche molto antipatica e scorbutica, ci sarebbe da provarne una profonda pena. Spesso mi chiedo, com’è possibile che nessuno si senta in dovere di dirle qualcosa, di aprirle gli occhi, di farle capire che tutto ciò è sbagliato? Com’è possibile che lo Stato e la comunità se ne infischi di queste tragedie? E così, in questi ambienti - come in ogni altro luogo delle nostre città purtroppo - , regna un clima di totale indifferenza verso il prossimo, di disinteresse assoluto. Non ci si guarda più neanche in faccia. Tutto questo è avvilente. Ha ragione Fini: «È questa società che è profondamente malata. Ed è essa che andrebbe curata prima dei cosiddetti “ludopatici” che ne sono solamente una proiezione».
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