Sabato scorso era il giorno del mio compleanno. Fino a qualche anno fa era assai raro che qualcuno si ricordasse di questo “lieto” evento. A lavoro non c’era un collega, uno, che mi facesse gli auguri, gli amici sì, qualcuno se ne ricordava, ma solo perché biecamente facevo cadere il discorso sull’argomento. I parenti poi, nemmeno a parlarne. Un anno perfino mia madre se ne scordò.
Oggigiorno invece, grazie ai social network, tutti sanno tutto di tutti. Comprese cartelle cliniche, fedine penale, dichiarazioni dei redditi mendaci e malattie veneree invalidanti.
E ovviamente anche il giorno del compleanno degli “amici”. E così anche sta volta sono piovuti a profusione decine di “auguri”, alcuni dei quali anche sentiti e sinceri. Qualcuno – dato l’avanzare inesorabile dell’età – mi ha consigliato vivamente di attaccarmi alla fiasca e non mollarla più, qualcun altro si è autoinvitato per un party con torta e coniglietta incorporata, altri ancora si sono limitati ad un semplice “auguri”. Che fanno pur sempre piacere, s’intende.
In generale però non mi piace essere al centro dell’attenzione, preferisco partecipare da spettatore, alle spalle del protagonista. E comunque non amo i compleanni in genere, soprattutto se si tratta della mia festa. Posso capire la felicità dei bambini, con i regali, i festoni e i palloncini; posso comprendere la gioia di un adolescente, quella di chi raggiunge l’età adulta e che vede aprirsi davanti a se praterie di vita un tempo solo immaginate. Ma da quel momento in poi, e con buona pace degli inascoltabili e ipocriti “è pur sempre un traguardo…”, è tutto uno scandire di date che aggiungono peso al fardello della vita e null’altro. Nelle rare occasioni in cui sono invitato ancora a qualche festa di compleanno di amici, adoro non già il gioco della bottiglia, che francamente è una palla cosmica, quanto mettermi di fianco al festeggiato – meglio se il soggetto è emozionabile e un tantino timido – , attirare l’attenzione di tutti i presenti, colpendo magari un bicchiere di cristallo con una forchetta, e dire a gran voce: «Un momento d’attenzione prego…, ora il festeggiato pronuncerà un discorso, o anche semplicemente una frase storica che ricorderemo per tutta la vita…». Al che il soggetto scappa verso le colline metallifere senza dire una parola. Una sola volta il festeggiato mi guardò e mi disse serio: «Vai a dar via il culo, troione». E ci fu un applauso di circa venticinque minuti. Da quel momento decisi che questo simpaticissimo scherzo andava ponderato molto attentamente da soggetto e soggetto.
Ad ogni modo sabato pomeriggio, giorno del mio compleanno, ho fatto un giro a Milano, con amici. Siamo stati a bere sui Navigli, in zona Porta Genova. Prima di incontrarmi con loro, ho fatto due passi in centro. C’era la classica confusione che caratterizza tutti i sabati pomeriggi. Una gran folla rumoreggiava, i negozi erano strapieni di “guardatori” professionisti – quelli che a domanda di commessa rispondono sempre “do solo un’occhiata…” – , e per la via dovevi impegnarti seriamente per non scontrarti con altri passanti distratti e inutilmente euforici. Ad un tratto, in quella bolgia di dannati, mi si è avvicinato un uomo, la barba incolta, l’aspetto trasandato, lo sguardo spento eppure illuminato da un lampo improvviso di gioia negli occhi: «Luigi…, Luigi d’Ausilio…».
Mi sono fermato di scatto. Già essere riconosciuto in mezzo a quella folla di estranei avrebbe avuto il sapore dell’evento straordinario, in più essere chiamato per nome e cognome, da un volto che non riconoscevo mi trascinava in balia delle onde. L’ho fissato, attimi interminabili alla ricerca di un ricordo, a scandaglio del suo viso per agganciare un particolare, un dettaglio che mi svelasse il mistero.
«Sono Santino…, Santino Bassi…».
All’improvviso tutto era chiaro: un vecchio collega di lavoro, anni lontani di fatica, trascorsi tra padiglioni e viali della vecchia fiera di Milano. Come avevo fatto a non riconoscerlo? In fondo non era cambiato di molto. Si, forse il viso era un po’ più scavato di allora, i capelli che spuntavano da sotto al berretto erano grigi, ma nel complesso era lui, il vecchio caro Santino, uno dei tanti colleghi con cui avevo condiviso anni e anni di esistenza.
«Che fai da queste parti, caro? Come ti va la vita?»
«Luigi, ora vivo per strada…! Sono tre anni che dormo sulla panchina della Stazione di Cadorna».
Era arrivato subito al dunque, senza giri di parole: una fucilata. Non credevo alle mie orecchie. Dalla mia bocca credo sia uscito solo un laconico “mi dispiace”. E lui, per nulla timoroso di mostrare il suo pudore ferito, ha continuato: «È cominciato tutto tre anni fa. Lavoravo per un notaio…, poi questi all’improvviso è morto e ho perso il lavoro. E da lì è stato tutto un precipitare verso il fondo. Quasi senza accorgermene. Mi hanno messo la casa all’asta, la famiglia mi ha abbandonato. Fino a che, da un giorno all’altro, non mi sono trovato per strada».
Non sapendo cosa dire, ho cercato di scovare qualcosa d’intelligente, qualcosa che potesse essergli anche vagamente d’aiuto, tipo qualche consiglio, qualche stupido, inutile consiglio. Come se un uomo che passa da tre anni la propria vita per strada, non le avesse già tentate tutte.
«Hai provato a cercare posto nei dormitori, alla Caritas? Anche l’Opera Pia di San Francesco aiuta i senzatetto…».
«Ho passato qualche notte al dormitorio di via Ortles, ma mi hanno derubato. Mi hanno portato via le scarpe. Ora non vado più, preferisco dormire per strada».
«E al dormitorio di Fratel Ettore, quello della Stazione Centrale?».
«No, lì non ci vado, è pieno di ubriachi, fanno sempre a botte. Mi hanno regalato anche questa» - e così dicendo mi indicava una cicatrice all’angolo dell’occhio destro.
Stavo vivendo una situazione angosciante, come di soffocamento. Sentir parlare di clochard, di senzatetto, di disperazione umana anonima, provoca sempre un disagio empatico, un momento di afflizione, ma dura poco, e resta superficiale, intangibile. Soprattutto se a parlarcene è la televisione. Aver di fronte invece una persona in carne ed ossa, che ha fatto parte della tua vita, anche se marginalmente, ti provoca un senso di stordimento, di dolore compenetrante. Perché inevitabilmente si è portati a identificarsi, a immaginare se stessi in quella situazione. E capisci in un attimo che quella è una situazione reale, concreta, che può riguardare tutti e che soprattutto nessuno è al riparo da rischi simili, soprattutto nell’epoca in cui viviamo. E così, banalmente e per la prima volta, mi sono affiorate alla mente domande di ordinaria quotidianità: “Se avessi un mal di denti dove andrei? A chi mi rivolgerei se avessi una febbre improvvisa, un malore”. E poi sempre più giù, verso il fondo: “E se avessi fame, o freddo o se avessi bisogno di un bagno?”. Fino alla più insulsa delle questioni: “Se avessi sete…?”. In una città come Milano, dove oltretutto hanno tolto quasi tutte le fontanelle per favorire i bar.
«Hai provato a sentire i vecchi colleghi? Magari c’è la possibilità che ti riassumano».
«Ho incontrato Carlo un paio di settimane fa: ha detto che mi faceva sapere».
«E ora che fai, Santino, dove vai?».
«Aspetto mezzanotte e poi vado a Cadorna. Lì ho la mia panchina che mi aspetta. Non vado prima perché sennò mi cacciano. C’è ancora troppa gente in giro: noi diamo fastidio».
«E non vai da qualche parte a cena, non so…?» - Dio quanto mi sono sentito idiota, appena fatta questa domanda.
«No, faccio un pasto solo al giorno. Alla mensa dei poveri».
Si stava facendo tardi e gli amici già mi stavano attendendo.
«Senti Santino, se non ti offendi ti lascerei qualcosa…» - e ho messo mano al portafogli.
«Ah no…, lascia stare…! Davvero…».
«Senti, facciamo così: questo è un prestito, quando poi ti rimetti a posto, me li ridai».
Solo a questo patto Santino ha accettato.
«Devo salutarti, amico mio. Vedrai che le cose si aggiustano. Coraggio. E richiama Carlo, mi raccomando».
«Si, grazie. Grazie davvero. Ciao».
E mentre me ne andavo: «Senti, non è che hai una sigaretta per caso?».
Ho tirato fuori dalla tasca un pacchetto ancora chiuso, l’ho aperto, ho estratto una sigaretta e l’ho accesa. Il resto del pacchetto l’ho dato a lui. Così forse sapeva meno d’ingiuria.
Mi ha strizzato l’occhio ed è sparito di nuovo dalla mia esistenza.
E così ho raggiunto gli amici, mi aspettava l’allegra serata in onore del mio compleanno.
Tragedia e commedia insieme: un altro fantasmagorico giro su questa assurda, incomprensibile giostra che si chiama vita.
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