La settimana scorsa ci siamo occupati del ruolo uomo-donna nella società odierna, e di quanto la scienza dedica le sue spasmodiche attenzioni alle dinamiche che regolano questi delicati equilibri. Intorno a questo articolo c’è stata una grande discussione. Sono stato accusato - dal gentil sesso, ma non solo - nella migliore delle ipotesi, di essere un becero maschilista; altre amiche e conoscenti hanno sostenuto che il mio scritto si appoggiava biecamente a questa pseudoscienza per pura convenienza, vale a dire per scansarmi i noiosi lavoretti di casa; altre invece mi hanno scritto che, già leggendo il titolo dell’articolo, erano state prese dalla rabbia e che dunque, per non rovinarsi definitivamente la giornata - già ampiamente compromessa dalle mille frenetiche attività di “donna impegnata” - hanno desistito dal continuare la lettura.
Una sola voce femminile, intellettualmente onestissima, mi ha risposto: “Caro Lu, ho letto l’articolo di ieri. Quanta verità…! Secondo me i ruoli si stanno confondendo sempre più… non che io voglia tornare in dietro col tempo, quando l’uomo “aveva da puzzà”, ma un minimo di definizione sarebbe a parer mio importante. Ormai tutti facciamo tutto… è finanche stressante! Talvolta vorrei sentirmi più donna…sì, veramente…!”.
Ecco, la verità. Già, ma che cos’è la verità? Un punto di vista? Forse. Ad ogni modo, più ragiono su questo argomento e più mi convinco pervicacemente di una teoria: un tempo lavorava solo l’uomo e portava a casa un salario decente, capace, anche nelle ristrettezze, di sostenere la famiglia; oggi, per mandare avanti la stessa famiglia, non bastano quasi più gli stipendi di uomo e donna messi insieme (sempre che uno dei due non sia un politico, s’intende). E in più la donna è costretta a lavorare il doppio: in casa e fuori. Gran bell’affare.
Ma restando in tema di parità, dalla Francia arriva una notizia che ha del sensazionale, dati i tempi in cui viviamo: il Ministro per le Pari Opportunità - e sì, anche i cugini transalpini ne hanno uno, purtroppo - e portavoce del governo francese, Najat Vallaud-Belkacem, ha reso noto che non deve più considerarsi valida l’ordinanza emanata dal Municipio di Parigi in data 17 novembre 1800, con cui s’imponeva alla parte femminile della cittadinanza di presentare una richiesta formale alle autorità di Polizia, nel caso intendesse “vestirsi come gli uomini”. In altre parole, prima di questa interpretazione legislativa se una donna indossava a Parigi un paio di pantaloni, senza preventivamente aver ricevuto l’ok dalle autorità, rischiava una sanzione amministrativa. “L’antica regola - scrive il Ministro - è da ritenersi non più in vigore, cioè tecnicamente caduta in desuetudine, perché incompatibile con i valori odierni della Francia, e in particolare con il principio della parità tra i due sessi”.
In realtà, stiamo parlando, come ovvio, di una disposizione talmente arcaica e anacronistica, da essere già ampiamente disattesa nella sostanza: solo un malato di mente ai nostri giorni potrebbe fermare una donna con i pantaloni ed elevarle contravvenzione. La norma, tra l’altro, nel corso dei secoli non solo non é stata mai abrogata, ma ha subito anche delle parziali modifiche, tutte tese a renderla più adeguata e aderente alla realtà dei tempi in mutamento. Perpetuandone con ciò l’attuazione e sancendone la bontà in radice. Nel 1892 e nel 1909, due emendamenti alla legge previdero due ipotesi in deroga a quanto stabilito: non era necessaria preventiva autorizzazione nel caso in cui le donne dovessero impugnare o il manubrio di una bicicletta o le redini di un cavallo. Ed in effetti, in entrambi i casi, si tratta di pura logica: inforcare una bicicletta o salire a cavallo con la gonna è indubbiamente più complicato e forse anche meno pudico, rispetto a indossare un paio di calzoni. Ma la cosa che più sorprende di questa vicenda è lo scopo per la quale venne introdotta tale regola: “L’obiettivo della proibizione - afferma il ministro Vallaud-Belkacem - consisteva nel circoscrivere l’accesso delle donne a determinati incarichi o occupazioni, il che ai giorni nostri è inconcepibile”. Ovvero, proibendo l’abbigliamento da uomo, s’intendeva tenere lontane le donne da certi ambiti lavorativi. Horribile dictu. Chissà perché, già due secoli fa si sentiva il bisogno di una legge del genere? Perché mai gli uomini dovevano recintare i propri spazi, e tenere fuori le donne? Esistevano forse già allora spinte femministi che reclamavano la parità di diritti tra i sessi, che rivendicavano pari dignità, pari possibilità di accesso al lavoro, allo studio e a tutti il resto? Si trattava forse di pura difesa corporativistica maschile, desiderio di segregazione verso delle pericolose concorrenti? O forse era un modo ingenuo e sostanzialmente inutile e inefficace per tutelare antichi valori provenienti da un’epoca ormai in via di disfacimento? Nel momento in cui viene emanata questa disposizione, siamo in piena rivoluzione industriale: le strutture sociali sono scosse da stravolgimenti epocali, le condizioni di vita mutano repentinamente nel giro di pochissimi decenni, i rapporti tra le classi sociali subiscono sconvolgimenti mai visti fino ad allora. Perfino le città si trasformano, si ingigantiscono, nascono le periferie degradate in cui trovano posto masse proletarie in cerca di fortuna. E così, mano a mano, la società s’inurba e abbandona le campagne. E con esse tutto ciò che era stato per secoli e forse millenni, il modo di vivere contadino, fatto di regole rigide, patriarcali, di ruoli stabiliti e ben delineati, di compiti assegnati per genere. Per avere un’idea della condizione spaventevole in cui vivevano le classi più umili e disagiate della Parigi del tempo, basta leggere i romanzi di Émile Zola, dei veri e propri atti d’accusa contro i soprusi e le angherie subite da operari, minatori, manovali, uomini o donne che fossero. La società si trasforma dunque e anche le donne cominciano a reclamare nuovi spazi, nuove opportunità. In Germinal, tra i minatori che rimangono imprigionati nel crollo della miniera di Montsou, c’è anche Catherine, la giovane figlia di Maheu.
E dunque, in questo contesto, il Municipio di Parigi emana questa ordinanza che proibisce alle donne di vestirsi come gli uomini: perché, in ultima analisi, gli uomini continuino a fare ciò che compete agli uomini, e le donne ciò che compete alle donne. Mi piace pensare che lo spirito di quel provvedimento non fosse dettato da becero maschilismo fine a se stesso, ma, al contrario, fosse inteso a migliorare la condizione della società, a preservarla da una deriva pericolosa, a salvaguardare le famiglie, a proteggerle, evitando lo sfruttamento e lo svilimento delle donne, lo svuotamento del loro inestimabile ruolo nell’ambito domestico. A distanza di due secoli, e con buona pace di questi nostri lontani antenati, possiamo dire che il risultato prefisso da quell’ordinanza è stato del tutto mancato.
Oggi come oggi, non solo le donne possono indossare i pantaloni senza incorrere in sanzioni, ma possono anche dirsi pienamente parificate agli uomini in tutti i campi dell’agire umano. Siamo arrivati al punto che neanche il fronte di guerra è loro precluso: il che è tutto dire.
Ad ogni modo, e se mi è concesso, un consiglio mi sentirei comunque di darlo alle donne: passi per il lavoro, passi per la carriera, lo studio, la realizzazione personale e quant’altro, ma alla gonna non rinunciate. Mai. Saranno anche comodi i pantaloni, non lo metto in dubbio - soprattutto quando fa freddo, quando piove, sui mezzi pubblici - , ma quanto poco femminili sono…! L’abbiamo già detto, ma lo ripetiamo: la diversità è l’essenza stessa della vita, e una donna con i pantaloni inevitabilmente tende a confondersi con l’uomo, a sovrapporsi di ruolo e ad appiattirsi sulle medesime posizioni. Perdendo con ciò gran parte della propria magia.
Ecco, se proprio non potete farne a meno, indossate un paio di leggins attillati, semplici e non troppo appariscenti. Meglio se neri e con tessuti che lascino filtrare opportune e seducenti trasparenze.
Il tutto, ovviamente, senza dimenticare un briciolo di sana autocritica.
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