Ci risiamo, eccoci di nuovo a commentare una pronuncia della Corte di Cassazione che farà sicuramente discutere. Con la sentenza numero 8761/2013 la Suprema Corte stabilisce che non è lecito approfittarsi di un (“presunto”) clima goliardico e scherzoso creatosi in un ambiente lavorativo per fare apprezzamenti volgari, o peggio ingiuriosi, a una collega. La faccenda si svolge in un ufficio postale di Massa e vede protagonisti due dipendenti, Roberto e Stefania. Il primo, durante una normale giornata lavorativa, dal suo reparto si reca nell’ufficio dove Stefania svolge le sue abituali incombenze, ed esclama “Ah, c’è anche la pornodiva sulla piazza”. Stefania sostiene che quella non era la prima volta che Roberto usava un frasario del genere con lei e che già diverse volte l’aveva rimproverato per questo. Tre colleghi presenti alla scena vengono chiamati a testimoniare sull’accaduto, e confermano sostanzialmente la ricostruzione dei fatti. Due di costoro tuttavia aggiungono che Stefania in precedenza ha sempre reagito a quelle frasi con un sorriso. Il terzo ammette addirittura di aver anch’egli fatto delle avances per scherzo a Stefania, ma che costei non si è mai adirata. Ma questa volta evidentemente la faccenda è diversa e dunque si finisce davanti al Giudice di Pace: condanna dell’imputato per ingiuria. In secondo grado l’imputato viene assolto in quanto “la condotta scherzosa, in un contesto di tolleranza che si era già consolidato sul luogo di lavoro” non costituisce reato. In Cassazione, davanti alla Quinta Sezione Penale, l’assoluzione viene annullata e gli atti rinviati al Tribunale per un nuovo esame. Nelle motivazioni vi si legge che anche se la donna aveva risposto con un sorriso alla condotta scherzosa di un collega, questo non autorizzava un altro uomo a ritenere che le sue battute fossero altrettanto tollerate e gradite.
Da oggi in poi dunque, prestiamo molta, ma molta attenzione a tutto ciò che si dice in ufficio. Guai per esempio a dare per scontato che si possa scherzare su argomenti pruriginosi (neanche se dall’altra parte si spalanca il più luminoso dei sorrisi), e guai a pensare che ciò che è lecito ad un collega, sia lecito anche ad un altro. Niente affatto, la Cassazione lo dice esplicitamente: “in tema di reati contro l’onore appare sufficiente il dolo generico […] in quanto basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive […] , senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente”. In altri termini il contesto, il clima e l’atmosfera in cui queste espressioni vengono pronunciate non hanno alcuna rilevanza: basta che siano comunemente considerate offensive.
Ora, è di tutta evidenza che in astratto volgarità e turpiloquio siano atteggiamenti riprovevoli, scandalosi e di cattivo gusto. Ancor di più se rivolti a delle donne. Ma non possiamo neanche chiudere gli occhi e dimenticare in che mondo viviamo. Andiamo, sappiamo benissimo qual è l’atmosfera che si respira negli uffici pubblici e privati, quali sono gli scherzi, gli sfottò e le avances che dominano le relazioni tra colleghi. E sappiamo anche che le cosiddette “quote rosa” non sono sempre una congrega di suore carmelitane scalze, la cui castità viene messa di continuo a rischio da pelosi maschiacci assatanati. Quante volte si sentono esclamazioni tipo “ma che bbono”, “ma che bel di dietro”, “quanto me lo farei…” dalle pudiche labbra di alcune nostre colleghe? Quante volte, di fronte a manifestazioni licenziose e trasgressive di alcune donne (spesso puramente formali, occorre dirlo…), sono gli uomini, a parti invertite, ad arrossire di imbarazzo. Certo è pur raro che siano poi le donne a prendere l’iniziativa nell’approccio (anche se non così impossibile), ma da qui a pensare che siano una categoria inerme, alla mercé dell’universo maschile, direi che ce ne passa. Che poi, siamo onesti, dipende sempre da chi viene portata l’avances: una cosa è se il complimento proviene da un “figaccione”, altra se giunge da un “rospo”. Mentre per il primo ci saranno vampate di rossore e sorrisini ammalianti, per l’ultimo solo risposte piccate, sarcasmo e in alcuni casi anche qualche querela. È pur vero che una donna è libera di scegliere quali avances accettare e quali rifiutare, ma cerchiamo di mantenere un minimo di parità di diritti anche in questo campo: almeno ai blocchi di partenza vediamo di non imbrogliare. Il progresso dei nostri giorni ha consentito libertà un tempo impensabili: oggi non ci sono più ambienti divisi per genere, nelle saune si entra ignudi senza più pudore reciproco, sul luogo di lavoro uomini e donne passano intere giornate fianco a fianco. E ben sappiamo quanto possa essere noiosa una giornata di lavoro se non la si condisce con un po’ di sana complicità maschio-femmina. Stando agli ultimi dati del Centro Studi dell’Ami (Associazione avvocati matrimonialisti italiani) in Italia ci sarebbe un alto tasso di tradimenti sul luogo di lavoro. Le infedeltà coniugali sono la causa del 40 per cento dei casi di separazione e divorzio, e tra queste, ben il 60 per cento avviene a lavoro. D’altra parte, sostengono i matrimonialisti, chi lavora trascorre molto più tempo con il collega che con il coniuge. Ecco perché, ad esempio le indagini degli investigatori privati, assoldati per scoprire ipotetiche tresche coniugali, iniziano sempre dall’ambito professionale del pedinato.
Da che mondo è mondo, l’eterno gioco della seduzione si è sempre basato su quell’equilibrio fragile e meraviglioso fatto di prudenti avances, moine, finti respingimenti e finti cedimenti, sguardi languidi, rossori improvvisi, angoscia, speranza, delusione. Il tutto finalizzato ad un’unica tormentosa domanda: avrò capito bene, o no? E nelle more della risposta nascevano film romantici, carichi di passioni e di notti insonni. Che se poi la risposta era negativa finiva tutto con una badilata di ridicolo sul capo. Oggi invece, ognuno di quei gesti, ognuna di quelle attenzioni, complimenti o frasi ardite, potrebbe per assurdo divenire oggetto di denuncia. E sì perché, basta che una donna (o anche un uomo, perché no), si senta offesa da un determinato comportamento perché si incorra nelle maglie della giustizia. Già nel lontano ’93 Giuliano Zincone scriveva sul Corriere della Sera: «Negli Stati Uniti tutto è più chiaro, i confini sono precisi e severi. Lì esiste anche una tabella che definisce, senza possibilità di equivoci, ciò che è “molestia sessuale” e ciò che non lo è. È molestia, per esempio, “osservare una signora dalla testa ai piedi e viceversa”, mentre è lecito “guardarla negli occhi con franchezza”. E vietato esclamare: “Ehi, che belle gambe!”, ma si può dire: “Oggi hai un bell’aspetto”». E ancora, sempre restando negli Usa, una legge impone in California, Massachusetts, Connecticut e Maine che ogni società con più di cinquanta dipendenti, organizzi un corso «antimolestie» di due ore ogni due anni, con frequenza obbligatoria. Deborah Rhode, docente di diritto all’Università di Stanford, sostiene ad esempio che «un dirigente può mettere in serio imbarazzo una dipendente anche solo fermandosi con eccessiva insistenza sulla porta della stanza di lei, continuando a osservarla senza un particolare motivo apparente. I tribunali sanzionano questo tipo di invasione della privacy. In alcuni casi ci sono stati richiami a impiegati che alzavano troppo la testa per spiare colleghe avvenenti sedute ignare alla loro scrivania». E poi c’è il capitolo dei complimenti: nessun problema se sono graditi, ma semaforo rosso appena viene segnalato fastidio. «La frase “come sei bella con questo vestito” può essere allo stesso tempo una semplice cordialità se detto en passant e sorridendo, oppure una simpatica forma di corteggiamento, oppure ancora un’intollerabile cafonata se pronunciata in modo viscido da un collega cui si è rifiutato un appuntamento la sera prima. Stesso discorso per le porte che vengono aperte, i regali, gli inviti, le occhiate, i commenti ad alta voce con altri colleghi. Se sono “unwelcome”, non apprezzati, meglio lasciar perdere subito».
Che detta così sembra la cosa più semplice del mondo. Ma avete presente che genere di reazioni s’innescano in un essere umano quando il demone della passione lo travolge? Credete veramente che sia possibile ridurre il tutto ad un’arida tabella in cui questo è lecito, quest’altro no?
Forse la realtà è che nella smania assurda di guadagnare uguaglianza e parità, il millenario rapporto di equilibrio tra uomo e donna si è inevitabilmente distorto, fatalmente mutato geneticamente, fino a creare una situazione ambigua e caotica, nella quale nessuno sa più qual è il suo dannato ruolo. L’ambiente di lavoro, per sua natura, è sempre stato un luogo cameratesco, goliardico, in cui tutto o quasi è lecito pur di arrivare a fine giornata: “un po’ per noia, un po’ per non morire”. E la donna oggi, volente o nolente, si trova in questo meccanismo, condivide questo ambiente con i colleghi maschi. È dunque il caso che si torni alle “sezioni separate”? O forse è richiesto alle donne di sopportare senza proferire verbo volgarità, turpiloquio o avances indesiderate? Niente di tutto ciò. Da sempre credo in un postulato: “Nessuno ha potere su di te se non glielo concedi”. Se non vogliamo essere oggetto di avances indesiderate o turpiloquio da caserma, forse l’unica soluzione è non scendere mai sul “campo di gioco”. Un sano e austero distacco, fatto di rapporti seri e cordiali, ma privi di confidenza e familiarità alcuna, farà di noi persone con le quali non sarà lecito concedersi licenze. Di alcun genere. Il che senza dubbio sarà un vantaggio sotto tanti aspetti. Forse ci divertiremo di meno, questo sì: ma infondo questo è il prezzo da pagare alla modernità.
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