
Qualche giorno fa sul Washington Post è apparso un articolo sullo scetticismo degli scienziati americani davanti al boom dei prodotti organici. Nella sostanza sembra che incrociando i molti dati raccolti negli ultimi tempi, non ci sarebbero evidenze scientifiche, né prove schiaccianti che possano affermare che il cibo organico sia meglio dell’altro. C’è si minor probabilità di trovare tracce di pesticida nel biologico, ma nella realtà è assai raro trovare prodotti non biologici in cui vi siano valori sopra la soglia di rischio. E tra l’altro, come confermano recenti studi dell’Università di Stanford, anche dal punto di vista dei valori nutrizionali, non sembra che ci siano grosse differenze tra le due tipologie. E dunque, tutta questa voglia di naturale, altro non sarebbe che l’effetto di una portentosa campagna mediatica per spingere verso consumi più costosi, ma non necessariamente più salutari. Se proprio ci si vuol preoccupare di qualcosa, affermano i nutrizionisti, meglio sarebbe educare ad una sana alimentazione gli adolescenti. Perché infondo, il vero nemico da combattere è l’obesità.
Quando ero bambino, accompagnavo mia madre a fare compere. Non si andava al supermercato che una volta al mese, per la spesa grossa. Il resto veniva acquistato nei negozietti vicino a casa. C’erano un’infinità di botteghe oggi scomparse: c’era la merciaia, il ciabattino, il riparatore di apparecchi elettrici, il macellaio, il lattaio. Il fruttivendolo per esempio, era un signore siciliano di mezza età. Parlava con una pesante inflessione dialettale e quando qualche massaia gli chiedeva zucchine, cetrioli o banane, egli rispondeva sempre: «Quanto gliene do? Un chilometro?». E se la rideva sotto i baffi. Per me, nonostante la portentosa motilità intestinale di cui soffriva, era quasi uno di famiglia.
E quando andavo giù dai miei nonni, c’era l’usanza di far la spesa al mercato della piazzetta. I coltivatori delle campagne riempivano questo luogo con un’infinità di banconi e bancarelle per vendere i prodotti della loro terra e ogni giorno, da secoli, si rinnovava la festa dell’abbondanza a poco costo, condita con urla e strilli dei venditori per attirare la clientela. E la cittadinanza conosceva uno per uno quei personaggi, sapeva perfettamente che tipo di merce vendevano, di che qualità, a quale costo. C’era una rapporto di profonda umanità che legava quella comunità. Quanto mi affascinava quello spettacolo e quanta differenza c’era tra questo mercato e quello a cui ero abituato su al nord, dove il silenzio dominava incontrastato. Mia nonna poi aveva il suo macellaio di fiducia, e solo da costui si fidava di acquistare la carne. Ogni due o tre giorni gli faceva visita e da sempre si ripeteva la stessa identica manfrina: «Buongiorno, Tonino». «Buongiorno a voi signora. Che vi do oggi?». «Mezzo chilo, Tonino». Al che costui sollevava lo sguardo al cielo e diceva: «Mezzo chilo di cosa, signora?». E lei beffarda: «Come di cosa? Di carne…! È ovvio». A quel punto il macellaio cercava un po’ di umana solidarietà negli altri clienti e diceva: «Lo so di carne…, non vendo mica le nespole del Giappone. Voglio sapere che tipo di carne vi serve: per pizzaiola, da fare ai ferri…». Al che lei gli indicava la carne di vitella e la faccenda si chiudeva.
Quando torno a quei ricordi, mi assale sempre una grande nostalgia: era un’epoca in cui le persone usavano ancora guardarsi in faccia e parlarsi. Adesso invece va di moda l’ipermercato, il centro commerciale, gli scaffali con i prodotti impacchettati seguendo le più scrupolose norme igieniche-sanitarie. Ognuno riempie il suo fottuto carrello indossando guanti di plastica e senza aprire bocca. E con le casse automatiche inoltre, non si corre più neanche il rischio di dover sorridere alla cassiera. Altro che pesticidi: questo è il vero orrore.
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