Lunedì scorso, su Rai Uno, è andato in onda lo spettacolo di Roberto Benigni dal titolo “La più bella del Mondo”, dedicato alla Costituzione italiana. L’evento – come si usa dire di questi tempi – è stato seguito da oltre dodici milioni di spettatori, il che significa che un italiano su due ha visto lo show. Tra quelli che erano davanti al teleschermo, s’intende.
Ed in effetti si è trattato di un vero e proprio show, perché l’artista toscano ha messo in campo tutte le sue doti d’istrione per coinvolgere con leggerezza il pubblico, su una materia che poteva apparire piuttosto ostica.
A dire il vero l’emittente di Stato già qualche mese fa aveva rischiato grosso, mandando in onda un vecchio lungometraggio, “Pasolini intervista Ungaretti”. C’era da prendere paura al solo guardare i titoli di testa. Pasolini faceva delle domande assai complicate e articolate in miriadi di subordinate, mentre Ungaretti rispondeva biascicando le parole con forti tonalità gutturali, tanto che non ci si capiva un bel nulla. Il monoscopio avrebbe fatto più ascolti. In questo caso però, la presenza di Benigni di per se stessa garantiva successo di pubblico, nonostante il tema della serata. E così la Rai ha deciso di investite tempo e denaro e, alla prova pratica, i risultati le hanno dato ragione.
Lo show, com’era immaginabile, è cominciato con una tremenda filippica – condita in salsa ironica – contro la ridiscesa in campo del Cavaliere (“Si è ripresentato… Signore, pietà. È la sesta volta, la settima ha detto che si riposa, anche lui…”; “Ha detto che se Monti si candida lui fa un passo indietro e allora Mario, facci questo favore, poi magari dopo due giorni smentisci, come fa lui”), e poi, stancamente si è spinto verso altri obiettivi, il sindaco di Firenze (quello molto giovane), i leghisti (discendenti degli adoratori del dio Po) e il PD (“… Dante che fondò un partito chiamato PD, Per Dante, che non vinse mai…”). Tutto ciò era l’incipit, l’antipasto della serata, un modo facile per contrapporre la pochezza dei nostri giorni, alla grandezza d’ideali di quell’immediato dopoguerra.
Da immenso estimatore di Benigni – in adolescenza con altri amici partecipavo a cineforum interminabili sul comico toscano, e su Troisi aggiungerei – devo confessare onestamente che lo spettacolo mi ha leggermente deluso. Tutta la parte introduttiva dedicata ai nostri politici, mi ha annoiato a morte, mi ha disturbato oltremisura e più volte – horribile dictu – sono stato tentato di cambiare canale. Se solo ci fosse stato su qualche emittente, non dico Lo chiamavano Trinità – che pure sarebbe chiedere troppo – , ma almeno La polizia s’incazza o anche La polizia incrimina la legge assolve, beh, forse lo share di Rai Uno sarebbe stato un filo più basso. Il fatto è che ho trovato le battute di Benigni – un tempo esplosive, stratosferiche e coinvolgenti – alquanto sottotono, fiacche e senza vitalità. Come se pagassero dazio alla stanchezza, allo sfinimento di una stagione lunghissima e carica di brutture. Benigni stesso mi è parso appannato, il volto tirato, provato, anch’egli stufo, seccato a morte di dover parlare ancora una volta dei soliti personaggi, dei soliti orribili individui che ammorbano la nostra Repubblica e le nostre vite da oltre vent’anni. Si dice che certi politici fanno la fortuna dei comici: in questo caso però mi pare che la regola non valga. Certo non è mancato qualche colpo ad effetto, la zampata del vecchio leone c’è sempre, per carità, ma nel complesso la performance non è stata tra le più riuscite.
E dunque, accantonata l’introduzione dedicata alla becera attualità politica, il comico premio Oscar, si è accostato al leggio è ha cominciato a declamare e magnificare i “Dodici principi fondamentali della Carta Costituzionale”. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione dice Benigni, e gli si inumidiscono quasi gli occhi ricordando Calamandrei, Dossetti, La Pira, Togliatti, La Malfa, Pertini, estensori materiali della Carta Costituzionale. E più ci si addentra in queste parole, più si avverte fortissimo lo stridio, la distanza abissale tra ciò che questi padri nobili avevano in mente e ciò che abbiamo invece sotto gli occhi. Fondata sul lavoro scrivevano quei sognatori: chissà che ne penserebbero dei nostri fantasmagorici “contratti week-end”, grazie ai quali i lavoratori vengono chiamati solo il sabato e la domenica, per poi essere licenziati e riassunti per il successivo fine settimana. E della seconda parte dell’articolo, la sovranità appartiene al popolo…, ne vogliamo discutere? Listini bloccati, legge elettorale che impedisce agli elettori di scegliersi i propri rappresentanti, Governi non votati che pianificano le vite degli italiani, e ne condizionano, nel bene e nel male, le generazioni a venire. Per non parlare poi dei recenti decreti legge che azzerano le sentenze della magistratura e degli scandali giudiziari che hanno fatto emergere tutta la miseria umana di un’infinità di politici eletti – o più spesso nominati - , che invece di pensare al bene della Nazione, si arricchiscono all’inverosimile, arrivando a farsi rimborsare perfino le spese per caffè, sigarette e cartucce da caccia. E questa sarebbe la sovranità del popolo? “Ridateci Fanfani” verrebbe da dire.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Ecco un altro straordinario principio: la solidarietà. Parola meravigliosa che fa rima con umanità. Se Calamandrei avesse immaginato che un giorno il nostro Paese sarebbe assurto alle cronache internazionali per il tasso di evasione fiscale più alto d’Europa, avrebbe buttato giornate e nottate interere, sfiancandosi sulla Costituzione? Domanda più che legittima. Secondo me, no.
E ancora tutti sono uguali di fronte alla legge. Altro baluardo della democrazia, pilastro fondante della convivenza civile, scritto a caratteri cubitali in tutte le aule di giustizia d’Italia. Uno straordinario passo verso il futuro rispetto all’epoca dell’Ancien Regime, o dei Tribunali Speciali di fascista memoria. Conquista epocale, portentosa eppure così fragile. Tanto fragile da essere messa in crisi da un manipoli di deputati disposti a votare le famigerate “leggi ad personam”, negazione in termini della democrazia stessa, per la quale le norme devono essere generali e astratte.
Ma Benigni non ne ha ancora abbastanza, e va avanti: la Repubblica è una e indivisibile. Che poi ci sia in Parlamento una forza politica che mette tra i suoi punti programmatici il dissolvimento dell’unità nazionale, poco conta; che ci siano ministri di tali forze che giurano fedeltà alla Repubblica, con la mano ben ferma sulla Costituzione, e poi si battano per l’indipendenza dei cosiddetti “popoli padani” non interessa.
E ancora: Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Giustissimo. Peccato che la Chiesa continui ad ingerire non solo nella sfera etica e morale del vivere quotidiano – cosa che potrebbe avere una sua logica – , ma addirittura si spinga a dare indicazioni su chi votare e chi no. Ci manca poco che si torni all’antico slogan di Peppone e Don Camillo: “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”.
E poi tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Già, ma se puta caso una comunità mussulmana volesse costruire su un terreno libero una moschea per riunirsi, ecco che salta su qualche becero che innaffia il tutto con urina di maiale. Perché chi viene a lavorare “a casa nostra” non deve pretendere nulla, men che meno di pregare.
E inoltre la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Che meraviglia, che lungimiranza: senza la cultura l’uomo s’impoverisce, s’abbrutisce, e dunque la Costituzione spinge ad investire in questo campo, a dedicarci tempo e risorse. Perché poi la ricerca facilita il progresso, rende più semplice l’esistenza di tutti i giorni, sconfigge le malattie, riduce i tempi e gli sforzi materiali, consentendo agli individui di dedicarsi alle cose alte della vita. E ancora la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico: musica per le orecchie di ogni cittadino. E cosa ne abbiamo fatto di tutto ciò? Fuga dei cervelli all’estero, investimenti sulla ricerca ridotti ai minimi termini, abbandono delle opere d’arte negli scantinati, Pompei che cade a pezzi. Ecco cos’è rimasto di quei grandi slanci, di quel nuovo Umanesimo costituente. Macerie e nulla più.
S’è poi parlato della condizione dello straniero e del diritto all’asilo politico. E a me, malizioso mascalzone, è venuto subito in mente la proposta, avanzata non molto tempo fa da qualche politico, di prendere a cannonate i barconi con su gli immigrati provenienti dall’Africa. Perché “non è che possiamo prender su tutti”.
E ancora del fatto che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. E siccome ormai sono diventato oltretutto anche un pessimista cosmico, con il difetto di non dimenticare nulla, la mente è tornata subito alla guerra che abbiamo mosso alla Serbia, una grande nazione europea, carica di storia e tradizione, non più lontana di qualche centinaia di chilometri dalle nostre coste. Alla faccia del cotanto sbandierato principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano.
E per concludere un accenno al simbolo stesso dell’italianità, vessillo verso cui tutti gli italiani si stringono commossi cantando l’inno di Mameli: la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni. Quanta tenerezza in questo articolo, sa di buono, di genuino. Oddio, per la verità qualcuno suggerì di “metterlo al cesso” il tricolore. Ma queste, come si sa, sono boutade folcloristiche di personaggi in cerca di visibilità.
E così a tarda serata Benigni, sudato all’inverosimile e commosso per l’entusiasmo del pubblico presente in sala, si congeda dal palcoscenico. E a me resta un senso di profonda tristezza, e al contempo di sincera tenerezza verso questo nostro grande artista. Tenerezza, sì, perché questa volta il comico si è cimentato in un opera dal finale tragico, senza luce di speranza. I sogni su cui i nobili costituenti avevano costruito le fondamenta del nostro futuro, sono rimasti tali, e tutti quei grandi afflati, quei grandi ideali carichi di senso civico e progresso sociale, sono naufragati tra le squallide e volgari vicende dei nostri tristi rappresentanti.
Benigni ci saluta ricordandoci che la nostra è la più bella Costituzione del mondo. E aggiunge sottovoce, forse vergognandosi egli stesso come italiano, un significativo “se solo venisse applicata”.
Ecco Roberto, forse è meglio che torni a raccontarci di Dante: perché a differenza di oggi, a quei tempi si poteva pur sempre dire “e quindi uscimmo a riveder le stelle”.
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