“Tra tutte le divinità che i romani veneravano, ce n’era una molto particolare che rappresentò forse al meglio la loro filosofia di vita. Anche a letto. Si chiamava Kairòs. Era la divinità dell’attimo fuggente. […] in un’epoca in cui la vita media per un uomo era di 41 anni e per una donna di 29, per via delle complicazioni del parto, la vita andava vissuta intensamente, cogliendo i frutti più belli, prima che la morte portasse via tutto.
Non bisognava pensare a ieri, non importava il domani, quello che contava era il momento che si stava vivendo: bisognava assaporare e godere tutto ciò che la vita ti regalava. E l’amore, il sesso erano dei regali degli dèi… da acciuffare al volo”.
Si tratta di un passo dell’ultimo libro di Alberto Angela, “Amore e sesso nell’antica Roma” e conclude (o forse no…) la trilogia dedicata alla Roma Imperiale, cominciata con “Una giornata nell’antica Roma” e “Impero – Viaggio nell’antica Roma seguendo una moneta”.
Mi piace molto quello che scrive questo autore, e mi piace la maniera in cui lo scrive. Raramente capita di trovare un figlio d’arte capace di reggere il paragone con il padre, e questa è sicuramente una di queste eccezioni. Ed anzi, se mi è concesso un reato di quasi “lesa maestà”, mi verrebbe da dire che il figlio ha superato il padre. E perché dico questo? Perché trovo che Alberto, a differenza di Piero Angela, oltre a tutto ciò che il padre gli ha trasmesso, vale a dire la professionalità, l’accuratezza dell’indagine, la chiarezza divulgativa e la profondità, ci mette del suo: vale a dire la passione. Passione per la storia. Materia per la quale ho sempre avuto un debole. Ma questo fa parte dei gusti individuale, che, va da sé, sono sempre molto personali. Alberto nasce infatti come paleontologo, e tutte le sue ricerche e indagini, siano esse proposte in televisione o firmate in libri di successo, dimostrano il suo amore incondizionato per la storia. Il quest’ultimo libro, approfondisce l’argomento dell’amore e del sesso nella Roma imperiale, per l’esattezza durante la reggenza di Traiano, momento storico in cui l’espansione dell’impero raggiunge la sua massima estensione. La cosa che colpisce sopra ogni altra, è la diversa visione che avevano i romani verso il sesso e l’amore rispetto a noi. Il matrimonio era un’istituzione di Stato, un obbligo cui ogni cittadino era chiamato ad ottemperare per il bene della Patria. Un dovere supremo finalizzato esclusivamente a dare un figlio all’Impero. Quasi mai dietro al matrimonio vi era vero amore, e nella maggior parte dei casi si trattava di accordi tra famiglie, basati su interessi economici e di prestigio. In altre parole il matrimonio era un’unione di convenienza, senza passione, senza trasporto. Spesso marito e moglie non si conoscevano affatto, e l’uomo aveva quasi sempre un’età molto più avanzata rispetto alla donna: mentre il primo arrivava al matrimonio già maturo, la seconda era condotta in sposa ancora adolescente (12-14 anni). E il talamo nuziale non era luogo di slancio sentimentale, ma quasi una faccenda burocratica da sbrigare per il bene di Roma. L’amore vero, la passione travolgente andava ricercato altrove, con le concubine, le amanti occasionali, le schiave. E ciò non valeva solo per gli uomini. Anche le tanto onorate matrone, spose bambine, cui era stata sottratta con la forza la giovinezza spensierata, giunte all’età matura, si concedevano svaghi e intrattenimenti passionali con spasimanti e amanti occasionali. Tra le prede più ambite, ad esempio, vi erano i gladiatori. Per una notte di sesso con un lottatore dell’arena, le ricche matrone erano disposte a pagare ingenti somme di denaro.
Esisteva in sostanza una doppia morale, pubblica e privata: pudica ed onesta alla luce del sole; libertina e licenziosa nella clandestinità. E tutto ciò era ampiamente tollerato, sia nella vita dell’uomo sia in quella della donna. Era talmente un evento normale il tradimento – rileva Angela – che nella lingua latina non esisteva l’equivalente del nostro termine “cornuto”.
Visto dal nostro punto di osservazione, un matrimonio basato su tali premesse appare ipocrita, oltreché meschino e avvilente. Per noi oggi l’unione tra uomo e donna è il coronamento dell’amore, il desiderio di vivere insieme, di condividere l’esistenza “finché morte non ci separi”. Per i romani no: la vita era troppo breve, troppo incerto il domani per programmare il futuro. E la morte, evento che poteva giungere da un momento all’altro, senza preavviso né senza chiedere permesso, spingeva a godere di ogni attimo come fosse l’ultimo della propria esistenza.
Questo fu l’atteggiamento che tennero centinai di generazioni per molti secoli, almeno fino al mille dopo Cristo. Da quest’epoca in poi, e gradualmente, la morale cambiò rotta: sulle orme del Cristianesimo, divenuta religione di Stato già dal 380 d.C., la libertà sessuale, che aveva caratterizzato il mondo romano, cede il passo alle restrizioni etiche di matrice giudaica. E così, di conseguenza, nella società viene instillato il germe della sessuofobia, l’allontanamento da tutto ciò che è piacere terreno (in funzione del piacere ultra-terreno), da ciò che è divertimento, amore, passione. Il sesso diviene un atto impuro, indegno, infetto, e tollerato solo e soltanto in funzione riproduttiva.
L’individuo non è fatto per gioire sulla Terra, la felicità non è di questo mondo, e chiunque la ricerca si macchia di gravi peccati, cui dovrà rispondere ad un Dio punitivo e rancoroso.
Ed è così che la società, un tempo allegra, spensierata, per nulla timorosa della morte – perché legata a filo doppio con la vita – , si trasforma in un insieme di individui timorosi, repressi, intristiti. La manifestazione dei propri sentimenti viene bandita, ogni agire umano, ogni pensiero, slancio, passione, viene assoggettato al dover rendere conto al castigatore.
E dunque, a conti fatti, chi tra noi e i romani antichi vive meglio? Certo ai nostri tempi non c’è più la schiavitù (almeno a parole…), non si muore più nell’arena per il piacere degli spettatori, né per una banale influenza. Ma siamo davvero sicuri che fosse tutto così sbagliato il loro mondo? Che non ci fosse qualcosa da salvare, e forse da riscoprire.
Quando qualche giorno fa ho avanzato tali interrogativi ad una mia amica, peraltro incinta da qualche mese, ho avuto delle risposte molto piccate. In effetti parlare ad una donna sposata, di come i romani trattavano le loro mogli – ed in un certo senso esaltarne le avventure extra-coniugali – non è stata una buona idea. Infondo però il mio era un modo per stuzzicare il carattere indomito e battagliero della mia amica, per accendere la dialettica. Ma l’effetto dei miei ragionamenti purtroppo è andato oltre ciò che mi prefiggevo. E così ora dovrò rimediare in qualche maniera.
Ad ogni modo, più mi addentro nella mentalità degli antichi, più mi rendo conto della saggezza che c’era a governo del loro modo di vedere il mondo. Tolto tutto ciò che è barbarie di un’epoca remota, lontanissima e disumana per certi aspetti – ricordiamoci che fuori dai confini dell’impero l’uomo viveva pressoché ancora ai tempi della pietra – resta di fondo un concetto, un modo di intendere la vita che dovremmo rifare nostro. Kairòs, il dio dell’attimo fuggente, dovrebbe tornare ad essere al centro della nostra esistenza. Soprattutto ora, epoca in cui il futuro ci appare sempre più fosco e incerto. Se imparassimo ad apprezzare di più il quotidiano, se dessimo più valore al presente e meno a ciò che verrà, forse il futuro ci farebbe meno paura. Senza contare che anche in fatto di amore e sesso ci libereremmo di molti fardelli inutili. Nel film Il ragazzo di campagna, Pozzetto timido ed impacciato si trova improvvisamente a letto con Angela, una donna rampante, moderna e disinibita. Piove intensamente e sul tetto della mansarda si ode un romantico ticchettio. Pozzetto è molto attratto da questa donna, ma viene da un ambiente retrogrado, moralista, perbenista, e quindi preferirebbe prima dichiararsi, presentarla alla famiglia, sposarla e poi prendersi il piacere e la gioia del sesso. E così si trova sul bordo del letto, lontano da Angela ed è molto imbarazzato. Al che lei gli dice: «Sei timido, vero?». Lui annuisce e lei, per “scioglierlo” un po’ gli chiede: «A cosa stai pensando?». Pozzetto si mette una mano sulla fronte pensieroso, sospira profondamente e dopo un lungo momento di riflessione risponde: «Stavo pensando che tutta quest’acqua farà un gran bene alla campagna».
Ecco, direi che forse dovremmo tornare ad occuparci un po’ di più dell’attimo fuggente. Carpe diem.
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