Da qualche settimana il lettore ufficiale delle sacre scritture è scomparso e i parrocchiani tutti sono preoccupati, e s’interrogano sui motivi di quella misteriosa assenza. Si tratta di un uomo di mezza età, alto, imponente, sempre elegantissimo e con una voce prosaica e profonda, stile fuori campo da vecchi film western.
Il sacerdote capo, un paio di domeniche fa, ha sciolto i dubbi dei fedeli dicendo in fin di messa: «Preghiamo per il nostro fratello Lazzaro, affinché una pronta guarigione ce lo possa restituire al più presto».
L’altro giorno ho incontrato la moglie di Lazzaro per strada e le ho chiesto come stesse il marito. La sua risposta mi ha rasserenato: egli ha avuto un grosso problema intestinale, ma dopo l’intervento chirurgico, ha cominciato la degenza senza complicazioni.
La vicenda mi ha fatto tornare in mente un episodio della mia famiglia, uno di quei tanti aneddoti che fanno parte della saga domestica, e che mio padre di tanto in tanto ripete come a riallacciare quell’appartenenza lontana e a prendere forza dalle radici di quel passato. Molti lustri fa il marito di una sua zia paterna si ammalò gravemente, e fu ricoverato in ospedale. Tutti i familiari gli si strinsero attorno e cominciarono a fargli visita. Non trapelava tuttavia nessuna notizia ufficiale sullo stato di salute del poveretto, nessuna indiscrezione. In quel rigido ambiente di città di provincia la tutela della riservatezza era pari, se non superiore, alla volontà di non mostrare mai il lato debole della persona, mai dare lo spunto che muovesse a pietà, o peggio a falsa pietà, accompagnata da ipocrisia se non anche da qualche sghignazzo. Ad ogni modo, pur tra mille ipotesi, la voce più accreditata sosteneva che si trattasse di un tumore allo stomaco.
E così il mistero su quella malattia e per quel protrarsi della degenza s’infittiva. Fatto sta che nel giro di qualche mese il poveretto si aggravò sempre più, fino a che un triste giorno consegnò l’anima a Dio. Ci fu un cordoglio unanime e partecipato al lutto della famiglia e, alle esequie che seguirono, una gran folla rese l’ultimo omaggio al defunto. Dopo la cerimonia il parentado si riunì in casa della vedova e, come da tradizione, si allestì un banchetto, detto “u cuenze” (dal verbo consolare). Si tratta di una manifestazione di solidarietà umana – tutt’oggi ancora molto sentita – che rappresenta una presenza affettuosa verso la famiglia colpita da questa perdita, e che, al momento del bisogno, viene ricambiata da parte di coloro che ne beneficiano in quel momento.
In questi frangenti l’atmosfera pesante, carica di mestizia e afflizione che ha caratterizzato gli ultimi giorni di agonia, lascia gradatamente spazio ad un’allegria crescente e nient’affatto lugubre. Celebrando il cibo condiviso si festeggia il ritorno alla vita. E tra un ragionamento e l’altro, avvolti dalle voci festose e squillanti dei bimbi, si ricordano i momenti più felici della storia del defunto, gli episodi più divertenti, le sue particolarità caratteriali, le sue manie, i pregi e i difetti. E da tali ricordi spesso s’innescando i sorrisi e qualche volta le risate dei presenti. E’ questo il vero addio al morto, l’ultimo estremo saluto: con questo banchetto si demarca la distanza tra la vita e la morte, tra chi c’è ancora e chi se n’è andato. E chi è rimasto tira un sospiro di sollievo, compresi i parenti più stretti, perché al dolore c’è un limite di sopportazione e tutti hanno la necessità di tornare a respirare, ad occuparsi della vita che scorre.
E dunque, tra una portata e l’altra, mio padre si trovava seduto accanto ad un’altra zia, una donna di un’ironia e acume straordinario, sempre pronta a scherzare e a prendere in giro il mondo intero. Senza dare nell’occhio, le si avvicinò e chiese: «Zia, ma alla fine s’è capito di cos’è morto il povero Geggè?». Al che ella lo guardò sarcastica con la coda dell’occhio e rispose lasciando cadere le parole, come un’attrice navigata d’avanspettacolo: «Com’è morto? Con un forte mal di pancia».
Sono passati decenni da quel giorno, ma quella risposta ancora riecheggia nei ricordi di famiglia. E continuerà a farlo ancora per molto tempo.
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