Mancano ormai pochi giorni a Natale e, Maya permettendo, tra breve entreremo nel consueto clima caotico delle feste di fine anno. Tanto attese eppure così temute.
Come sempre ci scambieremo regali – perlopiù riciclati – che ci lasceranno assai delusi, ci riuniremo con parenti vari che non frequentiamo mai (perché si sa, “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”), ci scambieremo gli auguri con chiunque ci paia anche vagamente di conoscere, e soprattutto ingrasseremo all’inverosimile, dilapidando in una settimana tutti gli orrendi sacrifici fatti nei mesi caldi.
Nelle famiglie legate alle vecchie tradizioni locali, le operose massaie già da giorni impastano, mettono a lievitare e sfornano struffoli, pastarelle, taralli neri e cartellate con vin cotto, mostaccioli, pettole, frittelle, purcidduzzi al miele e mandorle atterrate (ovvero ricoperte di cioccolato fondente). E poi non potranno mancare l’intramontabile baccalà, l’orrendissimo capitone (rigorosamente da decapitare nel lavello della cucina, aiutandosi con il sale grosso sennò scappa e s’infila sotto la credenza), la tacchinella ripiena, lo stopposo cappone e tutto il resto. Se ci tenete alla linea e soprattutto all’incolumità fisica, preparatevi fin da ora delle scuse gravi e plausibili, che non ammettano repliche, e ricordatevi di accompagnarle sempre con delle espressioni di profonda sofferenza. Ecco qualche esempio: “Mi spiace, accetterei volentieri, ma ho una gastrite ulcerosa cronica che non vorrei aggravare”; “Perbacco se mi fanno gola questi dolcetti: devo tuttavia rifiutare essendo affetto ormai da anni da diabete mellito all’ultimo stadio. Oltretutto respiro male ed ho il cervello scarsamente irrorato. Al limite, proprio per non offendere, prendo su un frittellino di zucca”; “L’ultima volta che mi sono concesso un piccolo peccato di gola l’ho pagato con delle portentose e dolorosissime ragadi anali…! Meglio evitare, grazie”; “Perdonatemi ma esco or ora da un attacco violento di stipsi: sarà per un’altra volta”. Correrete il rischio di essere compatiti fino alle lacrime, ma porterete a casa la pelle.
E così nelle case degli italiani, nonostante la crisi economica devastante, il Natale si annuncia già dal primo mattino con intensi odori di cucina e sapori di dolce, rubati furtivamente dal vassoio della festa.
Nel giorno del Santo Natale ci riuniremo come ogni anno intorno alla tavola, in alcune famiglie si svolgeranno processioni semi-serie dietro al Bambinello che raggiunge il presepio, e poi, come una maledizione inevitabile, giungeranno a tradimento i terrificanti giochi di società. Da che ho l’età della ragione non ricordo una sola volta in cui abbia vinto una partita. Mai. Che si trattasse di giochi di carte, di dadi, canasta belga, baccarà, mercante in fiera, gioco dell’oca, io ero sempre colui che perdeva. A prescindere. E neanche poco, tra l’altro. Avevo voglia a cambiarmi di posto con altri concorrenti, a mettere sotto il culo il classico osso di morto, a scegliere tattiche diverse, a studiare le mosse degli avversari: una delusione dietro l’altra. Una vera tragedia umana. Mio cugino, al contrario, era un vero portento, vinceva sempre e comunque, anche quando, ad esempio, si allontanava un momento per un bisogno impellente: venivano distribuite le carte, ognuno faceva il suo gioco e si attendeva il suo ritorno. Egli arrivava distratto e poco interessato alla mano, dava un’occhiata alle carte quasi con disgusto, e le girava con sufficienza mostrando un punteggio clamoroso. E in quei frangenti sentivo di provare un profondo odio verso tutto il genere umano. All’inizio me la prendevo, mi arrovellavo contro la sorte, contro un destino che sembrava accanirsi verso un povero disgraziato, ma con il passare del tempo ho fatto l’abitudine con la sconfitta. E come la volpe con l’uva, ho fatto mio il motto degli antichi idalgos spagnoli: “La sconfitta è il blasone delle anime nobili”.
L’unico gioco in cui non mi sento una specie di minorato è la tombola. Perché questa, in effetti, più che un gioco di abilità, destrezza o fortuna, è una grande giostra di emozioni, un volano che innesca battute di spirito, aneddoti di famiglia, ricordi commoventi, risate. Il tutto permesso dal fatto che, non essendo necessaria un’attenzione particolare per mettere lenticchie o fagioli sulle caselle chiamate, ci si può distrarre e dedicare di più ai rapporti umani. E così c’è lo zio che chiama i numeri sghignazzando sui nomi della smorfia napoletane (“28, ‘I zizze; 38, ‘E mmazzate; 47, ‘O muorto che pparla”), c’è quello che ricorda un episodio ridicolo di anni prima, quell’altro che con affetto richiama tra i vivi, parenti cari scomparsi, quell’altra ancora che fa finta di aver fatto cinquina, quand’ancora non è uscito l’ambo. Insomma, è tutta una commedia di sentimenti, ora ridicola e spassosa, ora struggente e toccante, che fa atmosfera, che sa di famiglia.
In effetti, a ben pensarci, la tombola è il gioco per eccellenza di Natale: chi non vi ha mai giocato, andiamo? Pur nella sua immensa insulsaggine, è uno di quei passatempi festivi a cui non si rinuncerebbe mai. Le sue origini pare che siano legate ad un litigio scoppiato tra Carlo III di Borbone, Re delle Due Sicilie, e il frate domenicano Gregorio Maria Rocco, zelante uomo di fede, particolarmente apprezzato alla corte borbonica per il suo impegno civile, a favore dei diseredati. Nell’anno 1734 il gioco d’azzardo del lotto dilagava per le strade di Napoli e il Re intendeva legalizzarlo per portare nuove entrate nelle esangui casse dello Stato. Ma il domenicano si opponeva strenuamente, sostenendo che tale gioco avrebbe nuociuto alla fede e alla preghiera. E così si giunse ad un compromesso: il gioco sarebbe stato sì legalizzato, ma durante le festività natalizie sarebbe stato sospeso. I napoletani tuttavia, la cui astuzia e genialità era riconosciuta universalmente già da allora, non smisero di giocare, inventando il lotto in famiglia. Ovvero novanta numeri messi dentro un cesto di vimini e cartelle con su altrettante cifre, da distribuire ai giocatori.
È così che nacque la tombola che giochiamo nelle nostre case. Chi con più, chi con meno fortuna.
Un recente sondaggio rivela che l’86% dei giocatori italiani abituali si professa scaramantico. Al bar che frequento di solito ci sono molti esemplari di questo genere, malati cronici del gioco, disperati che dilapidano intere pensioni tentando la sorte davanti alle macchinette “mangiasoldi”. Gli ultimi dati su questo fenomeno sociale sono allarmanti: pare che ogni anno ottanta miliardi di euro vengano sperperati per il gioco. Per farsi un’idea della dimensione di tale tragedia, basta pensare che nello stesso periodo di tempo gli italiani spendono poco più di un miliardo per la cultura. C’è una donna anziana, in particolare, che ha battuto tutti i record di permanenza davanti al tabellone luminoso dei numeri. La trovi al bar a qualsiasi ora, sempre intenta a compilare furiosamente schedine, ad imprecare contro la malasorte e a consultare un grosso volume dal titolo “La vera smorfia napoletana”. Se non fosse per il suo carattere scontroso ed aggressivo, ci sarebbe da piangerne la tremenda sventura.
Stando dunque a questo sondaggio pare che un quinto dei giocatori affidano le loro speranze al classico cornetto rosso (che altro non sarebbe che la pudica mutazione dell’antico fallo di Priapo, portafortuna dei romani); altrettanti eseguono riti scaramantici propiziatori (tipo incrociare le dita o recitare filastrocche come “ailì-ulè, che la fortuna venga a me”); i restanti invece si dichiarano fedeli al classico ferro di cavallo, al serto d’aglio, al quadrifoglio e all’indumento rosso. Ma la cosa che più sorprende è un’altra: secondo i dati della ricerca, i possessori di talismani dichiarano di avere più fortuna al gioco, rispetto a coloro che vi si avvicinano senza. Pare inoltre che la fortuna baci di più chi si cimenta in compagnia di una donna. E sì perché, spiegano gli esperti, il portafortuna contribuisce ad accrescere la fiducia in se stessi e a perseverare.
Da cartesiano puro, mi verrebbe da fare una grossa pernacchia a commento di tutto ciò. Ma purtroppo non posso: il fatto di perdere da sempre al gioco fa vacillare tremendamente le mie certezze. D’altra come ignorare il famoso detto “la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo”?
A sto punto nel dubbio l’unica cosa da fare è affidarsi al vecchio caro De Filippo e optare per un sano ed equilibrato compromesso: “Non è vero…, ma ci credo”.
Buon Natale a tutti.
Nessun commento:
Posta un commento