Mancano ormai pochi giorni a Natale e, Maya permettendo, tra breve entreremo nel consueto clima caotico delle feste di fine anno. Tanto attese eppure così temute.
Come sempre ci scambieremo regali – perlopiù riciclati – che ci lasceranno assai delusi, ci riuniremo con parenti vari che non frequentiamo mai (perché si sa, “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”), ci scambieremo gli auguri con chiunque ci paia anche vagamente di conoscere, e soprattutto ingrasseremo all’inverosimile, dilapidando in una settimana tutti gli orrendi sacrifici fatti nei mesi caldi.
Nelle famiglie legate alle vecchie tradizioni locali, le operose massaie già da giorni impastano, mettono a lievitare e sfornano struffoli, pastarelle, taralli neri e cartellate con vin cotto, mostaccioli, pettole, frittelle, purcidduzzi al miele e mandorle atterrate (ovvero ricoperte di cioccolato fondente). E poi non potranno mancare l’intramontabile baccalà, l’orrendissimo capitone (rigorosamente da decapitare nel lavello della cucina, aiutandosi con il sale grosso sennò scappa e s’infila sotto la credenza), la tacchinella ripiena, lo stopposo cappone e tutto il resto. Se ci tenete alla linea e soprattutto all’incolumità fisica, preparatevi fin da ora delle scuse gravi e plausibili, che non ammettano repliche, e ricordatevi di accompagnarle sempre con delle espressioni di profonda sofferenza. Ecco qualche esempio: “Mi spiace, accetterei volentieri, ma ho una gastrite ulcerosa cronica che non vorrei aggravare”; “Perbacco se mi fanno gola questi dolcetti: devo tuttavia rifiutare essendo affetto ormai da anni da diabete mellito all’ultimo stadio. Oltretutto respiro male ed ho il cervello scarsamente irrorato. Al limite, proprio per non offendere, prendo su un frittellino di zucca”; “L’ultima volta che mi sono concesso un piccolo peccato di gola l’ho pagato con delle portentose e dolorosissime ragadi anali…! Meglio evitare, grazie”; “Perdonatemi ma esco or ora da un attacco violento di stipsi: sarà per un’altra volta”. Correrete il rischio di essere compatiti fino alle lacrime, ma porterete a casa la pelle.
E così nelle case degli italiani, nonostante la crisi economica devastante, il Natale si annuncia già dal primo mattino con intensi odori di cucina e sapori di dolce, rubati furtivamente dal vassoio della festa.
Nel giorno del Santo Natale ci riuniremo come ogni anno intorno alla tavola, in alcune famiglie si svolgeranno processioni semi-serie dietro al Bambinello che raggiunge il presepio, e poi, come una maledizione inevitabile, giungeranno a tradimento i terrificanti giochi di società. Da che ho l’età della ragione non ricordo una sola volta in cui abbia vinto una partita. Mai. Che si trattasse di giochi di carte, di dadi, canasta belga, baccarà, mercante in fiera, gioco dell’oca, io ero sempre colui che perdeva. A prescindere. E neanche poco, tra l’altro. Avevo voglia a cambiarmi di posto con altri concorrenti, a mettere sotto il culo il classico osso di morto, a scegliere tattiche diverse, a studiare le mosse degli avversari: una delusione dietro l’altra. Una vera tragedia umana. Mio cugino, al contrario, era un vero portento, vinceva sempre e comunque, anche quando, ad esempio, si allontanava un momento per un bisogno impellente: venivano distribuite le carte, ognuno faceva il suo gioco e si attendeva il suo ritorno. Egli arrivava distratto e poco interessato alla mano, dava un’occhiata alle carte quasi con disgusto, e le girava con sufficienza mostrando un punteggio clamoroso. E in quei frangenti sentivo di provare un profondo odio verso tutto il genere umano. All’inizio me la prendevo, mi arrovellavo contro la sorte, contro un destino che sembrava accanirsi verso un povero disgraziato, ma con il passare del tempo ho fatto l’abitudine con la sconfitta. E come la volpe con l’uva, ho fatto mio il motto degli antichi idalgos spagnoli: “La sconfitta è il blasone delle anime nobili”.
L’unico gioco in cui non mi sento una specie di minorato è la tombola. Perché questa, in effetti, più che un gioco di abilità, destrezza o fortuna, è una grande giostra di emozioni, un volano che innesca battute di spirito, aneddoti di famiglia, ricordi commoventi, risate. Il tutto permesso dal fatto che, non essendo necessaria un’attenzione particolare per mettere lenticchie o fagioli sulle caselle chiamate, ci si può distrarre e dedicare di più ai rapporti umani. E così c’è lo zio che chiama i numeri sghignazzando sui nomi della smorfia napoletane (“28, ‘I zizze; 38, ‘E mmazzate; 47, ‘O muorto che pparla”), c’è quello che ricorda un episodio ridicolo di anni prima, quell’altro che con affetto richiama tra i vivi, parenti cari scomparsi, quell’altra ancora che fa finta di aver fatto cinquina, quand’ancora non è uscito l’ambo. Insomma, è tutta una commedia di sentimenti, ora ridicola e spassosa, ora struggente e toccante, che fa atmosfera, che sa di famiglia.
In effetti, a ben pensarci, la tombola è il gioco per eccellenza di Natale: chi non vi ha mai giocato, andiamo? Pur nella sua immensa insulsaggine, è uno di quei passatempi festivi a cui non si rinuncerebbe mai. Le sue origini pare che siano legate ad un litigio scoppiato tra Carlo III di Borbone, Re delle Due Sicilie, e il frate domenicano Gregorio Maria Rocco, zelante uomo di fede, particolarmente apprezzato alla corte borbonica per il suo impegno civile, a favore dei diseredati. Nell’anno 1734 il gioco d’azzardo del lotto dilagava per le strade di Napoli e il Re intendeva legalizzarlo per portare nuove entrate nelle esangui casse dello Stato. Ma il domenicano si opponeva strenuamente, sostenendo che tale gioco avrebbe nuociuto alla fede e alla preghiera. E così si giunse ad un compromesso: il gioco sarebbe stato sì legalizzato, ma durante le festività natalizie sarebbe stato sospeso. I napoletani tuttavia, la cui astuzia e genialità era riconosciuta universalmente già da allora, non smisero di giocare, inventando il lotto in famiglia. Ovvero novanta numeri messi dentro un cesto di vimini e cartelle con su altrettante cifre, da distribuire ai giocatori.
È così che nacque la tombola che giochiamo nelle nostre case. Chi con più, chi con meno fortuna.
Un recente sondaggio rivela che l’86% dei giocatori italiani abituali si professa scaramantico. Al bar che frequento di solito ci sono molti esemplari di questo genere, malati cronici del gioco, disperati che dilapidano intere pensioni tentando la sorte davanti alle macchinette “mangiasoldi”. Gli ultimi dati su questo fenomeno sociale sono allarmanti: pare che ogni anno ottanta miliardi di euro vengano sperperati per il gioco. Per farsi un’idea della dimensione di tale tragedia, basta pensare che nello stesso periodo di tempo gli italiani spendono poco più di un miliardo per la cultura. C’è una donna anziana, in particolare, che ha battuto tutti i record di permanenza davanti al tabellone luminoso dei numeri. La trovi al bar a qualsiasi ora, sempre intenta a compilare furiosamente schedine, ad imprecare contro la malasorte e a consultare un grosso volume dal titolo “La vera smorfia napoletana”. Se non fosse per il suo carattere scontroso ed aggressivo, ci sarebbe da piangerne la tremenda sventura.
Stando dunque a questo sondaggio pare che un quinto dei giocatori affidano le loro speranze al classico cornetto rosso (che altro non sarebbe che la pudica mutazione dell’antico fallo di Priapo, portafortuna dei romani); altrettanti eseguono riti scaramantici propiziatori (tipo incrociare le dita o recitare filastrocche come “ailì-ulè, che la fortuna venga a me”); i restanti invece si dichiarano fedeli al classico ferro di cavallo, al serto d’aglio, al quadrifoglio e all’indumento rosso. Ma la cosa che più sorprende è un’altra: secondo i dati della ricerca, i possessori di talismani dichiarano di avere più fortuna al gioco, rispetto a coloro che vi si avvicinano senza. Pare inoltre che la fortuna baci di più chi si cimenta in compagnia di una donna. E sì perché, spiegano gli esperti, il portafortuna contribuisce ad accrescere la fiducia in se stessi e a perseverare.
Da cartesiano puro, mi verrebbe da fare una grossa pernacchia a commento di tutto ciò. Ma purtroppo non posso: il fatto di perdere da sempre al gioco fa vacillare tremendamente le mie certezze. D’altra come ignorare il famoso detto “la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo”?
A sto punto nel dubbio l’unica cosa da fare è affidarsi al vecchio caro De Filippo e optare per un sano ed equilibrato compromesso: “Non è vero…, ma ci credo”.
Buon Natale a tutti.
Prova
“Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)
Pagine
venerdì 21 dicembre 2012
giovedì 20 dicembre 2012
Il calice della fatica
Per molti, troppi anni ci siamo dimenticati degli operai. Ci hanno fatto credere che non esistessero più, che si fossero estinti come foche monache insieme alle loro fabbriche. Ho vissuto la mia infanzia, e parte dell’adolescenza, a Sesto San Giovanni - la cosiddetta “Stalingrado d’Italia” - crescendo al ritmo delle sirene degli stabilimenti che chiamavano turni di lavoratori. Un piccolo agglomerato contadino alle porte di Milano, divenuto in pochi anni metropoli industriale, manifesto assoluto del boom economico.
Città dormitorio prima, periferia anonima di fatica, speranza e poco altro, e solo dopo comunità vera, unita dal vincolo dell’identità operaia, dal comune sradicamento dalle terre d’origine, dal crogiolo linguistico in cui nessuno era straniero. Questo era la città in cui sono nato e cresciuto, una realtà che aveva tessuto la sua storia, che aveva fatto la lotta per i diritti dei lavoratori, che aveva creato appartenenza, orgoglio e condivisione, e in cui, pur con tutti i problemi ambientali e sociali legati all’industria siderurgica, era comunque bello vivere.
Col tempo però, già a partire dagli anni ’80, questa realtà cambia, e in luogo delle fabbriche mefitiche e inquinanti, ecco comparire enormi palazzoni in vetro e cemento, edifici nuovissimi, avveniristici, stipati di uffici asettici, studi lindi e dal design pratico e razionale, sale convegno comode ed eleganti; e con essi alberghi quattro stelle, negozi hi-tech, fast-food “mordi e fuggi”. Basta con la schiscetta e la fiaschetta di vino del povero operaio polveroso, ora c’è lo snack integrale, l’insalatina salutista, accompagnata dall’acquetta natural, rigorosamente temperatura ambiente. E mentre tutti raccontano questa meravigliosa favola del progresso, la mia Sesto si trasforma, perde la sua identità, si snatura a vantaggio di una realtà fatta di anomia fatua, inconsistente, senza radici, senza storia, in cui ognuno è solo con se stesso, rinchiuso nel suo piccolo universo che si nutre di egoismo e paura del prossimo.
E così per molto tempo ho creduto veramente che la classe operaia fosse scomparsa e che fosse stata consegnata ai libri di storia. Fino a che non mi sono trasferito nella bassa padana. Qui, a dispetto del tanto osannato terziario avanzato, e della crisi economica globale, persiste un forte tessuto produttivo di piccole e medie imprese, soprattutto del settore manifatturiero, che fa la ricchezza della Nazione. Fatto di imprenditori coraggiosi e battaglieri e, udite udite, di operai: specializzati, ma anche generici. I cari, vecchi operai di una volta, quelli che i media avevano dichiarato estinti come i dinosauri del mesozoico. Al bar degli ubriaconi, dove spesso mi intrattengo, ci sono diversi avventori che provengono da questo mondo, e che mi onorano della loro compagnia. A fine giornata ci si trova tutti a bere un calice di vino rosso (anche due) per festeggiare la fine della fatica e per fare “due parole”, come si usa dire da queste parti. Non dico che loro siano meglio di altre persone che frequento abitualmente, questo no, ma neanche peggio: sicuramente li trovo più veri, più sinceri, più legati al concreto, ed in ultima analisi, più vitali. Forse è il lavoro che svolgono a renderli tali, il fatto di essere a contatto con cose reali, con oggetti creati dalle loro mani, di cui vedono la nascita e la realizzazione finale. Fatto sta che, a differenza di coloro che lavorano d'intelletto (o anche solo di concetto), per lo più sempre imbufaliti col mondo intero, questi appaiono rilassati, di buon umore, più spontanei, più veri e quindi più simpatici. E pur nella stanchezza di una dura giornata di lavoro in fabbrica o sui cantieri, fatta di manualità e fatica fisica, riescono a godersi quegli scampoli di felicità che la vita concede loro, molto più di coloro che tornano a casa carichi di sola (si fa per dire) fatica mentale. Tra questi simpatici avventori del bar degli ubriaconi, c’è un tizio, Marietto, che ogni tanto mi regala qualche perla: alcuni anni fa finì a lavorare per un imprenditore che fabbricava copri water in plastica dura. Egli è un tipo coscienzioso, un buon lavoratore, e nonostante avesse pesanti origini meridionali, era stato ben accolto dai padroni fin dal primo minuto di lavoro. D’altra parte si sa che il pregiudizio è duro da estirpare, soprattutto nelle zone più arretrate. Non era tuttavia questo il caso. Trascorso qualche mese, Marietto chiese al titolare dell’impresa se non avesse bisogno di un altro paio di operai. Questi gli rispose affermativamente e così il giorno successivo due bei ragazzotti, sempre originari del profondo sud, si presentarono a colloquio. Nel giro di una settimana erano assunti. Nell’ampia officina c’erano sacchi di plastica in polvere ovunque, mastelli, paioli e grosse presse a caldo che sfornavano copri water a tutte le ore del giorno e della notte (facevano anche il terzo turno). Sulla parete lunga poi, tra gli altri cartelli sull’antinfortunistica, campeggiava una scritta inquietante che era un po’ la filosofia di vita del sagace imprenditore : “Chi non fa la produzione, li paga”. I due nuovi assunti lavorarono senza eccessivo impegno per un paio di giorni, ma poi, a causa di un banale incidente d’auto – senza grosse conseguenze, fortunatamente – si piantarono in malattia per tre settimane buone. Trascorso tale periodo tornarono a lavoro, ma senza quell’assurda e inutile voglia di strafare che caratterizzava i loro colleghi. Un bel giorno il titolare fece una sbraitata mostruosa a tutto il personale perché la produzione era scarsa e non consentiva di rispettare le consegne. E così anche i due scansafatiche, sotto la paventata minaccia di essere lasciati tutti a casa, sentirono il bisogno di darsi da fare. Iniziarono dunque a lavorare a ritmo serrato, ma non avendo dalla loro l’attitudine alla precisione né la meticolosità delle genti del nord, produssero senza grossa cognizione di causa. Uno dei due si avvide che la sua macchina sfornava ciambelle crepate in più punti, storte e brutte da vedere, ma temendo di essere redarguito per lo scarso numero di pezzi eseguiti e soprattutto temendo di dover pagare di tasca propria gli ammanchi (come da ammonimento scritto sul muro), continuò imperterrito, a impilare quegli aborti osceni nelle casse. Il suo compare poi, oltre a lavorare male, lavorava anche poco e così la sua pila era sempre triste ed esangue. Quando a metà mattinata gli operai si riunirono in saletta per la pausa, il titolare scese in officina e cominciò a dare un’occhiata alla produzione. Andò tutto liscio finché non s’imbatté nella cassa degli orrori. Afferrò il primo ciambellone, lo scrutò attentamente da vicino togliendosi gli occhiali da miope, e si soffermò su quelle crepe passandole meticolosamente a pollice. Lo lasciò cadere per terra con fare inespressivo e ne prese un altro: stesso risultato. Ancora uno…! Al quarto tentativo esplose: «E questi sarebbero coperchi fatti a regola…? Ma che cazzo combinate, maledetti stronzi…» e cominciò a lanciare le ciambelle in giro per l’officina. Gli operai non dicevano una parola, spaventati a morte. L’unico che trovò la forza di parlare fu uno dei due compari, il quale rivolto a Marietto disse: «Se prova solo ad avvicinarsi, gli spacco un copri cesso in testa». Furono licenziati tutti e tre per giusta causa.
Per fortuna Marietto trovò subito un nuovo lavoro nel campo della manifattura in resina e silicone. Qui si producevano componenti per tralicci elettrici. Fu subito preso a benvolere sia dal capofficina e che dai colleghi tutti. Uno in particolare, Giacomo, gli dimostrò grande simpatia e non lesinò consigli assai utili per scansarsi la fatica e al contempo ben figurare con i superiori. Egli infatti lavorava a gran ritmo nella prima parte della giornata e, una volta arrivato alla produzione minima richiesta, spegneva la macchina e se ne andava in giro a rompere le palle ai colleghi e fumare allegramente. Ma tutto ciò, va da sé, non si poteva fare. Egli tuttavia conosceva gli orari dei capi e quindi andava sicuro. Un brutto pomeriggio però accadde che il titolare fece una visita inaspettata, e passeggiando per l’officina si avvide che la macchina di Giacomo era spenta e lui assenti. Lo fece chiamare d’urgenza e gli domandò come mai avesse spento la macchina. Ma questi non riuscì a trovare una scusa che fosse una. E dunque, oltre alla cazziata sanguinosa, subì anche una multa nient’affatto piacevole. E così, da quel giorno e per molti mesi a seguire, dovette subire anche il sarcasmo feroce dei colleghi: «Perelli…, ti sei fatto beccare eh…! Bravo».
Per recuperare i punti persi Giacomo decise di fare un po’ di straordinario, anche nel fine settimana. Un sabato mattina tuttavia, nonostante avesse garantito con giuramento solenne la sua presenza al lavoro, non se la sentì proprio di alzarsi dal letto. “Ma sì, chi se ne frega…! Non si accorgeranno neanche della mia assenza…! E poi c’è di mezzo la domenica…, quel babbeo del capofficina se ne scorderà sicuramente”. Fatto sta che il lunedì successivo si presentò al lavoro e non accadde nulla. Anzi il capofficina lo salutò anche cordialmente. Pensava a quel punto di averla sfangata, ma ad un tratto questi tornò sui suoi passi e gli piantò addosso due occhi di fuoco: «A proposito…, come mai non sei venuto sabato?». Giacomo cominciò a farfugliare «… e perché…, e perché…». Cercava disperatamente una fottuta risposta, non voleva fare la fine miserabile della volta precedente. Ma non sortì fuori nulla anche questa volta e il capofficina concluse: «È perché sei un coglione…!».
Ecco, tra un bicchiere e l’altro si parla anche di questo al bar con questi amici. Ed è vita vera, vita che scorre e scola leggera, che pulsa prepotente nelle vene e nelle gole. E che al termine del giorno, e nonostante tutto, urla forte “alla salute”.
Città dormitorio prima, periferia anonima di fatica, speranza e poco altro, e solo dopo comunità vera, unita dal vincolo dell’identità operaia, dal comune sradicamento dalle terre d’origine, dal crogiolo linguistico in cui nessuno era straniero. Questo era la città in cui sono nato e cresciuto, una realtà che aveva tessuto la sua storia, che aveva fatto la lotta per i diritti dei lavoratori, che aveva creato appartenenza, orgoglio e condivisione, e in cui, pur con tutti i problemi ambientali e sociali legati all’industria siderurgica, era comunque bello vivere.
Col tempo però, già a partire dagli anni ’80, questa realtà cambia, e in luogo delle fabbriche mefitiche e inquinanti, ecco comparire enormi palazzoni in vetro e cemento, edifici nuovissimi, avveniristici, stipati di uffici asettici, studi lindi e dal design pratico e razionale, sale convegno comode ed eleganti; e con essi alberghi quattro stelle, negozi hi-tech, fast-food “mordi e fuggi”. Basta con la schiscetta e la fiaschetta di vino del povero operaio polveroso, ora c’è lo snack integrale, l’insalatina salutista, accompagnata dall’acquetta natural, rigorosamente temperatura ambiente. E mentre tutti raccontano questa meravigliosa favola del progresso, la mia Sesto si trasforma, perde la sua identità, si snatura a vantaggio di una realtà fatta di anomia fatua, inconsistente, senza radici, senza storia, in cui ognuno è solo con se stesso, rinchiuso nel suo piccolo universo che si nutre di egoismo e paura del prossimo.
E così per molto tempo ho creduto veramente che la classe operaia fosse scomparsa e che fosse stata consegnata ai libri di storia. Fino a che non mi sono trasferito nella bassa padana. Qui, a dispetto del tanto osannato terziario avanzato, e della crisi economica globale, persiste un forte tessuto produttivo di piccole e medie imprese, soprattutto del settore manifatturiero, che fa la ricchezza della Nazione. Fatto di imprenditori coraggiosi e battaglieri e, udite udite, di operai: specializzati, ma anche generici. I cari, vecchi operai di una volta, quelli che i media avevano dichiarato estinti come i dinosauri del mesozoico. Al bar degli ubriaconi, dove spesso mi intrattengo, ci sono diversi avventori che provengono da questo mondo, e che mi onorano della loro compagnia. A fine giornata ci si trova tutti a bere un calice di vino rosso (anche due) per festeggiare la fine della fatica e per fare “due parole”, come si usa dire da queste parti. Non dico che loro siano meglio di altre persone che frequento abitualmente, questo no, ma neanche peggio: sicuramente li trovo più veri, più sinceri, più legati al concreto, ed in ultima analisi, più vitali. Forse è il lavoro che svolgono a renderli tali, il fatto di essere a contatto con cose reali, con oggetti creati dalle loro mani, di cui vedono la nascita e la realizzazione finale. Fatto sta che, a differenza di coloro che lavorano d'intelletto (o anche solo di concetto), per lo più sempre imbufaliti col mondo intero, questi appaiono rilassati, di buon umore, più spontanei, più veri e quindi più simpatici. E pur nella stanchezza di una dura giornata di lavoro in fabbrica o sui cantieri, fatta di manualità e fatica fisica, riescono a godersi quegli scampoli di felicità che la vita concede loro, molto più di coloro che tornano a casa carichi di sola (si fa per dire) fatica mentale. Tra questi simpatici avventori del bar degli ubriaconi, c’è un tizio, Marietto, che ogni tanto mi regala qualche perla: alcuni anni fa finì a lavorare per un imprenditore che fabbricava copri water in plastica dura. Egli è un tipo coscienzioso, un buon lavoratore, e nonostante avesse pesanti origini meridionali, era stato ben accolto dai padroni fin dal primo minuto di lavoro. D’altra parte si sa che il pregiudizio è duro da estirpare, soprattutto nelle zone più arretrate. Non era tuttavia questo il caso. Trascorso qualche mese, Marietto chiese al titolare dell’impresa se non avesse bisogno di un altro paio di operai. Questi gli rispose affermativamente e così il giorno successivo due bei ragazzotti, sempre originari del profondo sud, si presentarono a colloquio. Nel giro di una settimana erano assunti. Nell’ampia officina c’erano sacchi di plastica in polvere ovunque, mastelli, paioli e grosse presse a caldo che sfornavano copri water a tutte le ore del giorno e della notte (facevano anche il terzo turno). Sulla parete lunga poi, tra gli altri cartelli sull’antinfortunistica, campeggiava una scritta inquietante che era un po’ la filosofia di vita del sagace imprenditore : “Chi non fa la produzione, li paga”. I due nuovi assunti lavorarono senza eccessivo impegno per un paio di giorni, ma poi, a causa di un banale incidente d’auto – senza grosse conseguenze, fortunatamente – si piantarono in malattia per tre settimane buone. Trascorso tale periodo tornarono a lavoro, ma senza quell’assurda e inutile voglia di strafare che caratterizzava i loro colleghi. Un bel giorno il titolare fece una sbraitata mostruosa a tutto il personale perché la produzione era scarsa e non consentiva di rispettare le consegne. E così anche i due scansafatiche, sotto la paventata minaccia di essere lasciati tutti a casa, sentirono il bisogno di darsi da fare. Iniziarono dunque a lavorare a ritmo serrato, ma non avendo dalla loro l’attitudine alla precisione né la meticolosità delle genti del nord, produssero senza grossa cognizione di causa. Uno dei due si avvide che la sua macchina sfornava ciambelle crepate in più punti, storte e brutte da vedere, ma temendo di essere redarguito per lo scarso numero di pezzi eseguiti e soprattutto temendo di dover pagare di tasca propria gli ammanchi (come da ammonimento scritto sul muro), continuò imperterrito, a impilare quegli aborti osceni nelle casse. Il suo compare poi, oltre a lavorare male, lavorava anche poco e così la sua pila era sempre triste ed esangue. Quando a metà mattinata gli operai si riunirono in saletta per la pausa, il titolare scese in officina e cominciò a dare un’occhiata alla produzione. Andò tutto liscio finché non s’imbatté nella cassa degli orrori. Afferrò il primo ciambellone, lo scrutò attentamente da vicino togliendosi gli occhiali da miope, e si soffermò su quelle crepe passandole meticolosamente a pollice. Lo lasciò cadere per terra con fare inespressivo e ne prese un altro: stesso risultato. Ancora uno…! Al quarto tentativo esplose: «E questi sarebbero coperchi fatti a regola…? Ma che cazzo combinate, maledetti stronzi…» e cominciò a lanciare le ciambelle in giro per l’officina. Gli operai non dicevano una parola, spaventati a morte. L’unico che trovò la forza di parlare fu uno dei due compari, il quale rivolto a Marietto disse: «Se prova solo ad avvicinarsi, gli spacco un copri cesso in testa». Furono licenziati tutti e tre per giusta causa.
Per fortuna Marietto trovò subito un nuovo lavoro nel campo della manifattura in resina e silicone. Qui si producevano componenti per tralicci elettrici. Fu subito preso a benvolere sia dal capofficina e che dai colleghi tutti. Uno in particolare, Giacomo, gli dimostrò grande simpatia e non lesinò consigli assai utili per scansarsi la fatica e al contempo ben figurare con i superiori. Egli infatti lavorava a gran ritmo nella prima parte della giornata e, una volta arrivato alla produzione minima richiesta, spegneva la macchina e se ne andava in giro a rompere le palle ai colleghi e fumare allegramente. Ma tutto ciò, va da sé, non si poteva fare. Egli tuttavia conosceva gli orari dei capi e quindi andava sicuro. Un brutto pomeriggio però accadde che il titolare fece una visita inaspettata, e passeggiando per l’officina si avvide che la macchina di Giacomo era spenta e lui assenti. Lo fece chiamare d’urgenza e gli domandò come mai avesse spento la macchina. Ma questi non riuscì a trovare una scusa che fosse una. E dunque, oltre alla cazziata sanguinosa, subì anche una multa nient’affatto piacevole. E così, da quel giorno e per molti mesi a seguire, dovette subire anche il sarcasmo feroce dei colleghi: «Perelli…, ti sei fatto beccare eh…! Bravo».
Per recuperare i punti persi Giacomo decise di fare un po’ di straordinario, anche nel fine settimana. Un sabato mattina tuttavia, nonostante avesse garantito con giuramento solenne la sua presenza al lavoro, non se la sentì proprio di alzarsi dal letto. “Ma sì, chi se ne frega…! Non si accorgeranno neanche della mia assenza…! E poi c’è di mezzo la domenica…, quel babbeo del capofficina se ne scorderà sicuramente”. Fatto sta che il lunedì successivo si presentò al lavoro e non accadde nulla. Anzi il capofficina lo salutò anche cordialmente. Pensava a quel punto di averla sfangata, ma ad un tratto questi tornò sui suoi passi e gli piantò addosso due occhi di fuoco: «A proposito…, come mai non sei venuto sabato?». Giacomo cominciò a farfugliare «… e perché…, e perché…». Cercava disperatamente una fottuta risposta, non voleva fare la fine miserabile della volta precedente. Ma non sortì fuori nulla anche questa volta e il capofficina concluse: «È perché sei un coglione…!».
Ecco, tra un bicchiere e l’altro si parla anche di questo al bar con questi amici. Ed è vita vera, vita che scorre e scola leggera, che pulsa prepotente nelle vene e nelle gole. E che al termine del giorno, e nonostante tutto, urla forte “alla salute”.
mercoledì 19 dicembre 2012
Roberto, torna a parlaci di Dante...!
Lunedì scorso, su Rai Uno, è andato in onda lo spettacolo di Roberto Benigni dal titolo “La più bella del Mondo”, dedicato alla Costituzione italiana. L’evento – come si usa dire di questi tempi – è stato seguito da oltre dodici milioni di spettatori, il che significa che un italiano su due ha visto lo show. Tra quelli che erano davanti al teleschermo, s’intende.
Ed in effetti si è trattato di un vero e proprio show, perché l’artista toscano ha messo in campo tutte le sue doti d’istrione per coinvolgere con leggerezza il pubblico, su una materia che poteva apparire piuttosto ostica.
A dire il vero l’emittente di Stato già qualche mese fa aveva rischiato grosso, mandando in onda un vecchio lungometraggio, “Pasolini intervista Ungaretti”. C’era da prendere paura al solo guardare i titoli di testa. Pasolini faceva delle domande assai complicate e articolate in miriadi di subordinate, mentre Ungaretti rispondeva biascicando le parole con forti tonalità gutturali, tanto che non ci si capiva un bel nulla. Il monoscopio avrebbe fatto più ascolti. In questo caso però, la presenza di Benigni di per se stessa garantiva successo di pubblico, nonostante il tema della serata. E così la Rai ha deciso di investite tempo e denaro e, alla prova pratica, i risultati le hanno dato ragione.
Lo show, com’era immaginabile, è cominciato con una tremenda filippica – condita in salsa ironica – contro la ridiscesa in campo del Cavaliere (“Si è ripresentato… Signore, pietà. È la sesta volta, la settima ha detto che si riposa, anche lui…”; “Ha detto che se Monti si candida lui fa un passo indietro e allora Mario, facci questo favore, poi magari dopo due giorni smentisci, come fa lui”), e poi, stancamente si è spinto verso altri obiettivi, il sindaco di Firenze (quello molto giovane), i leghisti (discendenti degli adoratori del dio Po) e il PD (“… Dante che fondò un partito chiamato PD, Per Dante, che non vinse mai…”). Tutto ciò era l’incipit, l’antipasto della serata, un modo facile per contrapporre la pochezza dei nostri giorni, alla grandezza d’ideali di quell’immediato dopoguerra.
Da immenso estimatore di Benigni – in adolescenza con altri amici partecipavo a cineforum interminabili sul comico toscano, e su Troisi aggiungerei – devo confessare onestamente che lo spettacolo mi ha leggermente deluso. Tutta la parte introduttiva dedicata ai nostri politici, mi ha annoiato a morte, mi ha disturbato oltremisura e più volte – horribile dictu – sono stato tentato di cambiare canale. Se solo ci fosse stato su qualche emittente, non dico Lo chiamavano Trinità – che pure sarebbe chiedere troppo – , ma almeno La polizia s’incazza o anche La polizia incrimina la legge assolve, beh, forse lo share di Rai Uno sarebbe stato un filo più basso. Il fatto è che ho trovato le battute di Benigni – un tempo esplosive, stratosferiche e coinvolgenti – alquanto sottotono, fiacche e senza vitalità. Come se pagassero dazio alla stanchezza, allo sfinimento di una stagione lunghissima e carica di brutture. Benigni stesso mi è parso appannato, il volto tirato, provato, anch’egli stufo, seccato a morte di dover parlare ancora una volta dei soliti personaggi, dei soliti orribili individui che ammorbano la nostra Repubblica e le nostre vite da oltre vent’anni. Si dice che certi politici fanno la fortuna dei comici: in questo caso però mi pare che la regola non valga. Certo non è mancato qualche colpo ad effetto, la zampata del vecchio leone c’è sempre, per carità, ma nel complesso la performance non è stata tra le più riuscite.
E dunque, accantonata l’introduzione dedicata alla becera attualità politica, il comico premio Oscar, si è accostato al leggio è ha cominciato a declamare e magnificare i “Dodici principi fondamentali della Carta Costituzionale”. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione dice Benigni, e gli si inumidiscono quasi gli occhi ricordando Calamandrei, Dossetti, La Pira, Togliatti, La Malfa, Pertini, estensori materiali della Carta Costituzionale. E più ci si addentra in queste parole, più si avverte fortissimo lo stridio, la distanza abissale tra ciò che questi padri nobili avevano in mente e ciò che abbiamo invece sotto gli occhi. Fondata sul lavoro scrivevano quei sognatori: chissà che ne penserebbero dei nostri fantasmagorici “contratti week-end”, grazie ai quali i lavoratori vengono chiamati solo il sabato e la domenica, per poi essere licenziati e riassunti per il successivo fine settimana. E della seconda parte dell’articolo, la sovranità appartiene al popolo…, ne vogliamo discutere? Listini bloccati, legge elettorale che impedisce agli elettori di scegliersi i propri rappresentanti, Governi non votati che pianificano le vite degli italiani, e ne condizionano, nel bene e nel male, le generazioni a venire. Per non parlare poi dei recenti decreti legge che azzerano le sentenze della magistratura e degli scandali giudiziari che hanno fatto emergere tutta la miseria umana di un’infinità di politici eletti – o più spesso nominati - , che invece di pensare al bene della Nazione, si arricchiscono all’inverosimile, arrivando a farsi rimborsare perfino le spese per caffè, sigarette e cartucce da caccia. E questa sarebbe la sovranità del popolo? “Ridateci Fanfani” verrebbe da dire.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Ecco un altro straordinario principio: la solidarietà. Parola meravigliosa che fa rima con umanità. Se Calamandrei avesse immaginato che un giorno il nostro Paese sarebbe assurto alle cronache internazionali per il tasso di evasione fiscale più alto d’Europa, avrebbe buttato giornate e nottate interere, sfiancandosi sulla Costituzione? Domanda più che legittima. Secondo me, no.
E ancora tutti sono uguali di fronte alla legge. Altro baluardo della democrazia, pilastro fondante della convivenza civile, scritto a caratteri cubitali in tutte le aule di giustizia d’Italia. Uno straordinario passo verso il futuro rispetto all’epoca dell’Ancien Regime, o dei Tribunali Speciali di fascista memoria. Conquista epocale, portentosa eppure così fragile. Tanto fragile da essere messa in crisi da un manipoli di deputati disposti a votare le famigerate “leggi ad personam”, negazione in termini della democrazia stessa, per la quale le norme devono essere generali e astratte.
Ma Benigni non ne ha ancora abbastanza, e va avanti: la Repubblica è una e indivisibile. Che poi ci sia in Parlamento una forza politica che mette tra i suoi punti programmatici il dissolvimento dell’unità nazionale, poco conta; che ci siano ministri di tali forze che giurano fedeltà alla Repubblica, con la mano ben ferma sulla Costituzione, e poi si battano per l’indipendenza dei cosiddetti “popoli padani” non interessa.
E ancora: Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Giustissimo. Peccato che la Chiesa continui ad ingerire non solo nella sfera etica e morale del vivere quotidiano – cosa che potrebbe avere una sua logica – , ma addirittura si spinga a dare indicazioni su chi votare e chi no. Ci manca poco che si torni all’antico slogan di Peppone e Don Camillo: “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”.
E poi tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Già, ma se puta caso una comunità mussulmana volesse costruire su un terreno libero una moschea per riunirsi, ecco che salta su qualche becero che innaffia il tutto con urina di maiale. Perché chi viene a lavorare “a casa nostra” non deve pretendere nulla, men che meno di pregare.
E inoltre la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Che meraviglia, che lungimiranza: senza la cultura l’uomo s’impoverisce, s’abbrutisce, e dunque la Costituzione spinge ad investire in questo campo, a dedicarci tempo e risorse. Perché poi la ricerca facilita il progresso, rende più semplice l’esistenza di tutti i giorni, sconfigge le malattie, riduce i tempi e gli sforzi materiali, consentendo agli individui di dedicarsi alle cose alte della vita. E ancora la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico: musica per le orecchie di ogni cittadino. E cosa ne abbiamo fatto di tutto ciò? Fuga dei cervelli all’estero, investimenti sulla ricerca ridotti ai minimi termini, abbandono delle opere d’arte negli scantinati, Pompei che cade a pezzi. Ecco cos’è rimasto di quei grandi slanci, di quel nuovo Umanesimo costituente. Macerie e nulla più.
S’è poi parlato della condizione dello straniero e del diritto all’asilo politico. E a me, malizioso mascalzone, è venuto subito in mente la proposta, avanzata non molto tempo fa da qualche politico, di prendere a cannonate i barconi con su gli immigrati provenienti dall’Africa. Perché “non è che possiamo prender su tutti”. E ancora del fatto che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. E siccome ormai sono diventato oltretutto anche un pessimista cosmico, con il difetto di non dimenticare nulla, la mente è tornata subito alla guerra che abbiamo mosso alla Serbia, una grande nazione europea, carica di storia e tradizione, non più lontana di qualche centinaia di chilometri dalle nostre coste. Alla faccia del cotanto sbandierato principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano.
E per concludere un accenno al simbolo stesso dell’italianità, vessillo verso cui tutti gli italiani si stringono commossi cantando l’inno di Mameli: la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni. Quanta tenerezza in questo articolo, sa di buono, di genuino. Oddio, per la verità qualcuno suggerì di “metterlo al cesso” il tricolore. Ma queste, come si sa, sono boutade folcloristiche di personaggi in cerca di visibilità.
E così a tarda serata Benigni, sudato all’inverosimile e commosso per l’entusiasmo del pubblico presente in sala, si congeda dal palcoscenico. E a me resta un senso di profonda tristezza, e al contempo di sincera tenerezza verso questo nostro grande artista. Tenerezza, sì, perché questa volta il comico si è cimentato in un opera dal finale tragico, senza luce di speranza. I sogni su cui i nobili costituenti avevano costruito le fondamenta del nostro futuro, sono rimasti tali, e tutti quei grandi afflati, quei grandi ideali carichi di senso civico e progresso sociale, sono naufragati tra le squallide e volgari vicende dei nostri tristi rappresentanti.
Benigni ci saluta ricordandoci che la nostra è la più bella Costituzione del mondo. E aggiunge sottovoce, forse vergognandosi egli stesso come italiano, un significativo “se solo venisse applicata”.
Ecco Roberto, forse è meglio che torni a raccontarci di Dante: perché a differenza di oggi, a quei tempi si poteva pur sempre dire “e quindi uscimmo a riveder le stelle”.
Ed in effetti si è trattato di un vero e proprio show, perché l’artista toscano ha messo in campo tutte le sue doti d’istrione per coinvolgere con leggerezza il pubblico, su una materia che poteva apparire piuttosto ostica.
A dire il vero l’emittente di Stato già qualche mese fa aveva rischiato grosso, mandando in onda un vecchio lungometraggio, “Pasolini intervista Ungaretti”. C’era da prendere paura al solo guardare i titoli di testa. Pasolini faceva delle domande assai complicate e articolate in miriadi di subordinate, mentre Ungaretti rispondeva biascicando le parole con forti tonalità gutturali, tanto che non ci si capiva un bel nulla. Il monoscopio avrebbe fatto più ascolti. In questo caso però, la presenza di Benigni di per se stessa garantiva successo di pubblico, nonostante il tema della serata. E così la Rai ha deciso di investite tempo e denaro e, alla prova pratica, i risultati le hanno dato ragione.
Lo show, com’era immaginabile, è cominciato con una tremenda filippica – condita in salsa ironica – contro la ridiscesa in campo del Cavaliere (“Si è ripresentato… Signore, pietà. È la sesta volta, la settima ha detto che si riposa, anche lui…”; “Ha detto che se Monti si candida lui fa un passo indietro e allora Mario, facci questo favore, poi magari dopo due giorni smentisci, come fa lui”), e poi, stancamente si è spinto verso altri obiettivi, il sindaco di Firenze (quello molto giovane), i leghisti (discendenti degli adoratori del dio Po) e il PD (“… Dante che fondò un partito chiamato PD, Per Dante, che non vinse mai…”). Tutto ciò era l’incipit, l’antipasto della serata, un modo facile per contrapporre la pochezza dei nostri giorni, alla grandezza d’ideali di quell’immediato dopoguerra.
Da immenso estimatore di Benigni – in adolescenza con altri amici partecipavo a cineforum interminabili sul comico toscano, e su Troisi aggiungerei – devo confessare onestamente che lo spettacolo mi ha leggermente deluso. Tutta la parte introduttiva dedicata ai nostri politici, mi ha annoiato a morte, mi ha disturbato oltremisura e più volte – horribile dictu – sono stato tentato di cambiare canale. Se solo ci fosse stato su qualche emittente, non dico Lo chiamavano Trinità – che pure sarebbe chiedere troppo – , ma almeno La polizia s’incazza o anche La polizia incrimina la legge assolve, beh, forse lo share di Rai Uno sarebbe stato un filo più basso. Il fatto è che ho trovato le battute di Benigni – un tempo esplosive, stratosferiche e coinvolgenti – alquanto sottotono, fiacche e senza vitalità. Come se pagassero dazio alla stanchezza, allo sfinimento di una stagione lunghissima e carica di brutture. Benigni stesso mi è parso appannato, il volto tirato, provato, anch’egli stufo, seccato a morte di dover parlare ancora una volta dei soliti personaggi, dei soliti orribili individui che ammorbano la nostra Repubblica e le nostre vite da oltre vent’anni. Si dice che certi politici fanno la fortuna dei comici: in questo caso però mi pare che la regola non valga. Certo non è mancato qualche colpo ad effetto, la zampata del vecchio leone c’è sempre, per carità, ma nel complesso la performance non è stata tra le più riuscite.
E dunque, accantonata l’introduzione dedicata alla becera attualità politica, il comico premio Oscar, si è accostato al leggio è ha cominciato a declamare e magnificare i “Dodici principi fondamentali della Carta Costituzionale”. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione dice Benigni, e gli si inumidiscono quasi gli occhi ricordando Calamandrei, Dossetti, La Pira, Togliatti, La Malfa, Pertini, estensori materiali della Carta Costituzionale. E più ci si addentra in queste parole, più si avverte fortissimo lo stridio, la distanza abissale tra ciò che questi padri nobili avevano in mente e ciò che abbiamo invece sotto gli occhi. Fondata sul lavoro scrivevano quei sognatori: chissà che ne penserebbero dei nostri fantasmagorici “contratti week-end”, grazie ai quali i lavoratori vengono chiamati solo il sabato e la domenica, per poi essere licenziati e riassunti per il successivo fine settimana. E della seconda parte dell’articolo, la sovranità appartiene al popolo…, ne vogliamo discutere? Listini bloccati, legge elettorale che impedisce agli elettori di scegliersi i propri rappresentanti, Governi non votati che pianificano le vite degli italiani, e ne condizionano, nel bene e nel male, le generazioni a venire. Per non parlare poi dei recenti decreti legge che azzerano le sentenze della magistratura e degli scandali giudiziari che hanno fatto emergere tutta la miseria umana di un’infinità di politici eletti – o più spesso nominati - , che invece di pensare al bene della Nazione, si arricchiscono all’inverosimile, arrivando a farsi rimborsare perfino le spese per caffè, sigarette e cartucce da caccia. E questa sarebbe la sovranità del popolo? “Ridateci Fanfani” verrebbe da dire.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Ecco un altro straordinario principio: la solidarietà. Parola meravigliosa che fa rima con umanità. Se Calamandrei avesse immaginato che un giorno il nostro Paese sarebbe assurto alle cronache internazionali per il tasso di evasione fiscale più alto d’Europa, avrebbe buttato giornate e nottate interere, sfiancandosi sulla Costituzione? Domanda più che legittima. Secondo me, no.
E ancora tutti sono uguali di fronte alla legge. Altro baluardo della democrazia, pilastro fondante della convivenza civile, scritto a caratteri cubitali in tutte le aule di giustizia d’Italia. Uno straordinario passo verso il futuro rispetto all’epoca dell’Ancien Regime, o dei Tribunali Speciali di fascista memoria. Conquista epocale, portentosa eppure così fragile. Tanto fragile da essere messa in crisi da un manipoli di deputati disposti a votare le famigerate “leggi ad personam”, negazione in termini della democrazia stessa, per la quale le norme devono essere generali e astratte.
Ma Benigni non ne ha ancora abbastanza, e va avanti: la Repubblica è una e indivisibile. Che poi ci sia in Parlamento una forza politica che mette tra i suoi punti programmatici il dissolvimento dell’unità nazionale, poco conta; che ci siano ministri di tali forze che giurano fedeltà alla Repubblica, con la mano ben ferma sulla Costituzione, e poi si battano per l’indipendenza dei cosiddetti “popoli padani” non interessa.
E ancora: Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Giustissimo. Peccato che la Chiesa continui ad ingerire non solo nella sfera etica e morale del vivere quotidiano – cosa che potrebbe avere una sua logica – , ma addirittura si spinga a dare indicazioni su chi votare e chi no. Ci manca poco che si torni all’antico slogan di Peppone e Don Camillo: “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”.
E poi tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Già, ma se puta caso una comunità mussulmana volesse costruire su un terreno libero una moschea per riunirsi, ecco che salta su qualche becero che innaffia il tutto con urina di maiale. Perché chi viene a lavorare “a casa nostra” non deve pretendere nulla, men che meno di pregare.
E inoltre la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Che meraviglia, che lungimiranza: senza la cultura l’uomo s’impoverisce, s’abbrutisce, e dunque la Costituzione spinge ad investire in questo campo, a dedicarci tempo e risorse. Perché poi la ricerca facilita il progresso, rende più semplice l’esistenza di tutti i giorni, sconfigge le malattie, riduce i tempi e gli sforzi materiali, consentendo agli individui di dedicarsi alle cose alte della vita. E ancora la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico: musica per le orecchie di ogni cittadino. E cosa ne abbiamo fatto di tutto ciò? Fuga dei cervelli all’estero, investimenti sulla ricerca ridotti ai minimi termini, abbandono delle opere d’arte negli scantinati, Pompei che cade a pezzi. Ecco cos’è rimasto di quei grandi slanci, di quel nuovo Umanesimo costituente. Macerie e nulla più.
S’è poi parlato della condizione dello straniero e del diritto all’asilo politico. E a me, malizioso mascalzone, è venuto subito in mente la proposta, avanzata non molto tempo fa da qualche politico, di prendere a cannonate i barconi con su gli immigrati provenienti dall’Africa. Perché “non è che possiamo prender su tutti”. E ancora del fatto che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. E siccome ormai sono diventato oltretutto anche un pessimista cosmico, con il difetto di non dimenticare nulla, la mente è tornata subito alla guerra che abbiamo mosso alla Serbia, una grande nazione europea, carica di storia e tradizione, non più lontana di qualche centinaia di chilometri dalle nostre coste. Alla faccia del cotanto sbandierato principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano.
E per concludere un accenno al simbolo stesso dell’italianità, vessillo verso cui tutti gli italiani si stringono commossi cantando l’inno di Mameli: la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni. Quanta tenerezza in questo articolo, sa di buono, di genuino. Oddio, per la verità qualcuno suggerì di “metterlo al cesso” il tricolore. Ma queste, come si sa, sono boutade folcloristiche di personaggi in cerca di visibilità.
E così a tarda serata Benigni, sudato all’inverosimile e commosso per l’entusiasmo del pubblico presente in sala, si congeda dal palcoscenico. E a me resta un senso di profonda tristezza, e al contempo di sincera tenerezza verso questo nostro grande artista. Tenerezza, sì, perché questa volta il comico si è cimentato in un opera dal finale tragico, senza luce di speranza. I sogni su cui i nobili costituenti avevano costruito le fondamenta del nostro futuro, sono rimasti tali, e tutti quei grandi afflati, quei grandi ideali carichi di senso civico e progresso sociale, sono naufragati tra le squallide e volgari vicende dei nostri tristi rappresentanti.
Benigni ci saluta ricordandoci che la nostra è la più bella Costituzione del mondo. E aggiunge sottovoce, forse vergognandosi egli stesso come italiano, un significativo “se solo venisse applicata”.
Ecco Roberto, forse è meglio che torni a raccontarci di Dante: perché a differenza di oggi, a quei tempi si poteva pur sempre dire “e quindi uscimmo a riveder le stelle”.
martedì 18 dicembre 2012
"Fòttono e se ne fottono". Ma quando mai...
Qualche mese fa, per l’esattezza a marzo di quest’anno, è stata pubblicata una ricerca realizzata dal Censis per conto della Federazione Ipasvi (Federazione Nazionale Collegi Infermieri professionali, Assistenti sanitari, Vigilatrici d’infanzia). Il titolo che i media hanno perlopiù associato ai risultati di tale ricerca è stato: “Gli italiani promuovono gli infermieri”. Ed in effetti dal sondaggio è emerso, quasi a sorpresa dato i frequenti scandali legati alla cosiddetta “malasanità”, che quattro italiani su cinque giudicano positivamente l’operato degli infermieri.
Un risultato che sicuramente farà piacere alla categoria, soprattutto considerato che, secondo la stragrande maggioranza gli italiani, tale professione, non solo gode di un riconoscimento sempre maggiore nell’opinione pubblica per il suo alto valore sociale, ma “sarà sempre più importante nella sanità italiana”. Nello specifico, tra le altre doti e qualità apprezzate e dimostrate dal personale infermieristico, vi sarebbero “le competenze tecnico-professionali” (55%), la “capacità di relazionarsi con i pazienti e i familiari” (51%) e “la cortesia e la gentilezza” (44%). «Sono dati che non ci sorprendono – ha commentato la Presidente della Federazione Ipasvi Annalisa Silvestro – da sempre gli infermieri sono coloro che si trovano più vicini ai pazienti e alle loro famiglie. Quello che però ci dà ulteriore soddisfazione è che dall’indagine emerge anche la sempre maggior consapevolezza, nell’opinione pubblica, del ruolo che gli infermieri rivendicano nel contesto del sistema sanitario italiano».
Di certo è una gran bella notizia questa, e dimostra che, pur nelle difficoltà economiche e sociali che attraversa il nostro Paese, c’è ancora qualcosa che funziona, e soprattutto ci sono ancora persone che, con il loro lavoro e il loro impegno – non privo di sacrifici – , riescono a contribuire al benessere della Nazione. Il che è un grande passo avanti, considerate tutte le critiche – spesso ingenerose – che da sempre si scatenano sul servizio sanitario nazionale. Nel film Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmuller, per esempio, c’è una scena girata in un ospedale: i pazienti sono abbandonati a loro stessi, gli infermieri non soccorrono i malati perché a quello ci devono pensare i portantini e i degenti sono accatastati gli uni sugli altri senza rispetto. Insomma un vero inferno. E così, quando il protagonista del film, disperato per lo stato di salute di una sua conoscente, chiede ad un paziente dove sono i medici e gli infermieri, questi risponde caustico: «Se…, state fresco: quelli se ne fottono. Fòttono e se ne fottono».
Negli ultimi decenni, occorre dirlo, la professione dell’infermiere è molto cambiata. Inizialmente concepita come attività prettamente femminile, basata soprattutto sulla carità esercitata da suore e nobildonne, divenne col tempo sempre più una professione scientifica, fino all’istituzione, nel 1990, del “diploma universitario di primo livello in scienze infermieristiche”. Diploma trasformato nel 2001 in laurea con corso triennale e superamento di un esame finale.
E dunque ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi dell’ormai superato “infermiere generico”, al quale serviva solo la scuola dell’obbligo per indossare un camice.
Nella famiglia di mia madre, ci sono diversi infermieri. Cominciò suo fratello negli anni ’70, appunto come “generico”, ed in seguito altri epigoni seguirono le sue orme. Egli arrivò alla professione avendo alle spalle anni e anni di falegnameria e carpenteria dura, e nulla più. I suoi eredi, al contrario, hanno dalla loro preparazione, competenza e formazione specifica. Quando ci si riuniva per feste e avvenimenti particolari, costoro davano grande sfoggio di cultura medico-infermieristica ed intrattenevano parenti e amici sulle esperienze maturate soprattutto in Pronto Soccorso, la cosiddetta “prima linea”. Tra gli altri ascoltatori c’era anche uno zio particolarmente critico sul mondo della sanità. Era sempre pieno di livore e risentimento, cultore assoluto del luogo comune sulla “malasanità”, e pronto a irridere e vituperare ospedali, medici e infermieri, di ogni ordine e grado. Forse tale atteggiamento era conseguenza di brutte esperienze personali, forse no. Ad ogni modo, se c’era una cosa che lo mandava fuori dei gangheri, era la presunta sbruffoneria, altezzosità e arroganza di tutte queste figure in camice. E così una sera uno dei suoi nipoti cominciò a vantarsi delle sue esperienze. Mio padre, presente al dibattito e attratto da quel racconto, chiese: «E dimmi un po’, cosa vi fanno fare adesso in ospedale? Potete mettere anche i punti?».
«E sì, zio – rispose costui tronfio per quell’interessamento – , mettiamo i punti, facciamo gli elettrocardiogrammi…». E qui, approfittando di una brevissima pausa, si inserì abilmente lo zio rancoroso: «Ungono lo spiridione sulle ferite». Che tradotto in italiano sarebbe più o meno: “aspergono le ferite col disinfettante”. E sì perché un tempo lontano, gli infermieri per disinfettare le ferite usavano un lungo randello con del cotone legato all’estremità, intinto nell’ittiolo. E così, quella frase buttata lì, con sufficienza e sarcasmo, assumeva una carica comica di altissima efficacia. Tant’è che mio padre non trattenne una risata improvvisa.
A seguire il poveretto, per riguadagnare i punti perduti, cominciò a raccontare dei corsi di formazione a cui aveva partecipato, di quanto tempo avesse passato in sala operatoria, del perché e del percome potesse a tutti gli effetti definirsi “paramedico”. Lo zio sopportava malamente tutte quelle “smargiassate” e covava un rancore potenzialmente letale. Ad un tratto l’infermiere giocò la sua carta vincente, l’asso nella manica che avrebbe schiantato qualsiasi ulteriore ostacolo verso il suo completo riconoscimento: «E poi…, mi mette un po’ in imbarazzo dirlo, sapete…, ma visto che ci siamo…! Ecco, dal mese prossimo ci mandano anche all’Università…, per un corso triennale». E così dicendo si scherniva fintamente e si attendeva un plauso unanime. Ma purtroppo non aveva fatto i conti con il classico oste: «Ah sì… – disse lo zio pieno di sferzante causticità – , e dunque vi mandano all’Università?».
«E sì zio, all’Università di Bari…».
«Bene, molto bene, sono contento: così finalmente v’insegnano un po’ d’educazione…!».
Ci fu uno scoppio di riso improvviso e quasi unanime. Certo qualcuno si offese, qualcun altro fece finta di non aver sentito: si sfiorò l’incidente diplomatico. Ad ogni modo, e per fortuna, la situazione si risolse senza grossi traumi: si era pur sempre in famiglia.
Non trascorse molto tempo che anche lo zio rancoroso ebbe bisogno dei servigi della sanità pubblica. E così s’accordò col nipote per avere un trattamento di favore per una visita specialistica. L’appuntamento era per le ore nove del mattino di un giovedì di mezza primavera. «Non preoccuparti zio – disse l’infermiere rassicurante – ci vediamo nell’astanteria del reparto: me ne occupo io personalmente di questa faccenda, stai tranquillo».
Lo zio si presentò puntualissimo, ma del nipote nemmeno l’ombra. Gli altri pazienti – una folla mostruosa – vedendo quell’omino in nervosa attesa, gli consigliarono pietosamente di prendere il numerino e di mettersi bel seduto. Ma egli sapeva di non averne bisogno, egli avrebbe saltato per incanto quella coda. Sempre che il nipote si fosse degnato di raggiungerlo, s’intende. E così, dopo una mezzoretta d’attesa cominciò a chiedere a colleghi e portantini, ma nessuno seppe dirgli come e dove rintracciarlo. A quel punto si sedette sulla panchina in preda allo sconforto e al malumore. Le speranze ormai l’abbandonavano e d’altra parte non poteva neanche andare da chissà chi a dire “sono qui per una visita: mi ha raccomandato mio nipote”.
Fatto sta che intorno a mezzogiorno, da un corridoio laterale, spuntò la sagoma pimpante dell’infermiere: fischiettava e se ne andava guardandosi intorno con le mani in tasca. Lo zio non credeva ai suoi occhi: «Pasquale…! Ma insomma….!».
«Ah zio, e tu che ci fai qua?».
«Come che ci fai qua? Sono qui che t’aspetto dalle nove di stamattina…».
L’infermiere solo allora si rese conto di essersi dimenticato clamorosamente di quell’appuntamento. C’era da vergognarsi fino a Natale. E non potendo confessare apertamente quella triste verità, s’inventò lì per lì di essere stato impegnato fino ad allora in sala operatoria. A quel punto, gli consigliò di tornare il giorno successivo, che senza dubbio avrebbe avuto “il fatto suo”.
Non so come andò a finire la faccenda: di certo questo episodio non contribuì a far ricredere lo zio rancoroso sulle sue convinzioni.
Che diamine, dico io, in fin dei conti sarebbe bastata un po’ di buona volontà… e magari un’agendina. Alle volte ci si perde per quisquilie, cose banali e di poco conto, e poi è una parola risalire la china.
“Fòttono e se ne fottono”. Dispiace.
Un risultato che sicuramente farà piacere alla categoria, soprattutto considerato che, secondo la stragrande maggioranza gli italiani, tale professione, non solo gode di un riconoscimento sempre maggiore nell’opinione pubblica per il suo alto valore sociale, ma “sarà sempre più importante nella sanità italiana”. Nello specifico, tra le altre doti e qualità apprezzate e dimostrate dal personale infermieristico, vi sarebbero “le competenze tecnico-professionali” (55%), la “capacità di relazionarsi con i pazienti e i familiari” (51%) e “la cortesia e la gentilezza” (44%). «Sono dati che non ci sorprendono – ha commentato la Presidente della Federazione Ipasvi Annalisa Silvestro – da sempre gli infermieri sono coloro che si trovano più vicini ai pazienti e alle loro famiglie. Quello che però ci dà ulteriore soddisfazione è che dall’indagine emerge anche la sempre maggior consapevolezza, nell’opinione pubblica, del ruolo che gli infermieri rivendicano nel contesto del sistema sanitario italiano».
Di certo è una gran bella notizia questa, e dimostra che, pur nelle difficoltà economiche e sociali che attraversa il nostro Paese, c’è ancora qualcosa che funziona, e soprattutto ci sono ancora persone che, con il loro lavoro e il loro impegno – non privo di sacrifici – , riescono a contribuire al benessere della Nazione. Il che è un grande passo avanti, considerate tutte le critiche – spesso ingenerose – che da sempre si scatenano sul servizio sanitario nazionale. Nel film Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmuller, per esempio, c’è una scena girata in un ospedale: i pazienti sono abbandonati a loro stessi, gli infermieri non soccorrono i malati perché a quello ci devono pensare i portantini e i degenti sono accatastati gli uni sugli altri senza rispetto. Insomma un vero inferno. E così, quando il protagonista del film, disperato per lo stato di salute di una sua conoscente, chiede ad un paziente dove sono i medici e gli infermieri, questi risponde caustico: «Se…, state fresco: quelli se ne fottono. Fòttono e se ne fottono».
Negli ultimi decenni, occorre dirlo, la professione dell’infermiere è molto cambiata. Inizialmente concepita come attività prettamente femminile, basata soprattutto sulla carità esercitata da suore e nobildonne, divenne col tempo sempre più una professione scientifica, fino all’istituzione, nel 1990, del “diploma universitario di primo livello in scienze infermieristiche”. Diploma trasformato nel 2001 in laurea con corso triennale e superamento di un esame finale.
E dunque ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi dell’ormai superato “infermiere generico”, al quale serviva solo la scuola dell’obbligo per indossare un camice.
Nella famiglia di mia madre, ci sono diversi infermieri. Cominciò suo fratello negli anni ’70, appunto come “generico”, ed in seguito altri epigoni seguirono le sue orme. Egli arrivò alla professione avendo alle spalle anni e anni di falegnameria e carpenteria dura, e nulla più. I suoi eredi, al contrario, hanno dalla loro preparazione, competenza e formazione specifica. Quando ci si riuniva per feste e avvenimenti particolari, costoro davano grande sfoggio di cultura medico-infermieristica ed intrattenevano parenti e amici sulle esperienze maturate soprattutto in Pronto Soccorso, la cosiddetta “prima linea”. Tra gli altri ascoltatori c’era anche uno zio particolarmente critico sul mondo della sanità. Era sempre pieno di livore e risentimento, cultore assoluto del luogo comune sulla “malasanità”, e pronto a irridere e vituperare ospedali, medici e infermieri, di ogni ordine e grado. Forse tale atteggiamento era conseguenza di brutte esperienze personali, forse no. Ad ogni modo, se c’era una cosa che lo mandava fuori dei gangheri, era la presunta sbruffoneria, altezzosità e arroganza di tutte queste figure in camice. E così una sera uno dei suoi nipoti cominciò a vantarsi delle sue esperienze. Mio padre, presente al dibattito e attratto da quel racconto, chiese: «E dimmi un po’, cosa vi fanno fare adesso in ospedale? Potete mettere anche i punti?».
«E sì, zio – rispose costui tronfio per quell’interessamento – , mettiamo i punti, facciamo gli elettrocardiogrammi…». E qui, approfittando di una brevissima pausa, si inserì abilmente lo zio rancoroso: «Ungono lo spiridione sulle ferite». Che tradotto in italiano sarebbe più o meno: “aspergono le ferite col disinfettante”. E sì perché un tempo lontano, gli infermieri per disinfettare le ferite usavano un lungo randello con del cotone legato all’estremità, intinto nell’ittiolo. E così, quella frase buttata lì, con sufficienza e sarcasmo, assumeva una carica comica di altissima efficacia. Tant’è che mio padre non trattenne una risata improvvisa.
A seguire il poveretto, per riguadagnare i punti perduti, cominciò a raccontare dei corsi di formazione a cui aveva partecipato, di quanto tempo avesse passato in sala operatoria, del perché e del percome potesse a tutti gli effetti definirsi “paramedico”. Lo zio sopportava malamente tutte quelle “smargiassate” e covava un rancore potenzialmente letale. Ad un tratto l’infermiere giocò la sua carta vincente, l’asso nella manica che avrebbe schiantato qualsiasi ulteriore ostacolo verso il suo completo riconoscimento: «E poi…, mi mette un po’ in imbarazzo dirlo, sapete…, ma visto che ci siamo…! Ecco, dal mese prossimo ci mandano anche all’Università…, per un corso triennale». E così dicendo si scherniva fintamente e si attendeva un plauso unanime. Ma purtroppo non aveva fatto i conti con il classico oste: «Ah sì… – disse lo zio pieno di sferzante causticità – , e dunque vi mandano all’Università?».
«E sì zio, all’Università di Bari…».
«Bene, molto bene, sono contento: così finalmente v’insegnano un po’ d’educazione…!».
Ci fu uno scoppio di riso improvviso e quasi unanime. Certo qualcuno si offese, qualcun altro fece finta di non aver sentito: si sfiorò l’incidente diplomatico. Ad ogni modo, e per fortuna, la situazione si risolse senza grossi traumi: si era pur sempre in famiglia.
Non trascorse molto tempo che anche lo zio rancoroso ebbe bisogno dei servigi della sanità pubblica. E così s’accordò col nipote per avere un trattamento di favore per una visita specialistica. L’appuntamento era per le ore nove del mattino di un giovedì di mezza primavera. «Non preoccuparti zio – disse l’infermiere rassicurante – ci vediamo nell’astanteria del reparto: me ne occupo io personalmente di questa faccenda, stai tranquillo».
Lo zio si presentò puntualissimo, ma del nipote nemmeno l’ombra. Gli altri pazienti – una folla mostruosa – vedendo quell’omino in nervosa attesa, gli consigliarono pietosamente di prendere il numerino e di mettersi bel seduto. Ma egli sapeva di non averne bisogno, egli avrebbe saltato per incanto quella coda. Sempre che il nipote si fosse degnato di raggiungerlo, s’intende. E così, dopo una mezzoretta d’attesa cominciò a chiedere a colleghi e portantini, ma nessuno seppe dirgli come e dove rintracciarlo. A quel punto si sedette sulla panchina in preda allo sconforto e al malumore. Le speranze ormai l’abbandonavano e d’altra parte non poteva neanche andare da chissà chi a dire “sono qui per una visita: mi ha raccomandato mio nipote”.
Fatto sta che intorno a mezzogiorno, da un corridoio laterale, spuntò la sagoma pimpante dell’infermiere: fischiettava e se ne andava guardandosi intorno con le mani in tasca. Lo zio non credeva ai suoi occhi: «Pasquale…! Ma insomma….!».
«Ah zio, e tu che ci fai qua?».
«Come che ci fai qua? Sono qui che t’aspetto dalle nove di stamattina…».
L’infermiere solo allora si rese conto di essersi dimenticato clamorosamente di quell’appuntamento. C’era da vergognarsi fino a Natale. E non potendo confessare apertamente quella triste verità, s’inventò lì per lì di essere stato impegnato fino ad allora in sala operatoria. A quel punto, gli consigliò di tornare il giorno successivo, che senza dubbio avrebbe avuto “il fatto suo”.
Non so come andò a finire la faccenda: di certo questo episodio non contribuì a far ricredere lo zio rancoroso sulle sue convinzioni.
Che diamine, dico io, in fin dei conti sarebbe bastata un po’ di buona volontà… e magari un’agendina. Alle volte ci si perde per quisquilie, cose banali e di poco conto, e poi è una parola risalire la china.
“Fòttono e se ne fottono”. Dispiace.
lunedì 17 dicembre 2012
Ridere..., anche della morte
Da qualche settimana il lettore ufficiale delle sacre scritture è scomparso e i parrocchiani tutti sono preoccupati, e s’interrogano sui motivi di quella misteriosa assenza. Si tratta di un uomo di mezza età, alto, imponente, sempre elegantissimo e con una voce prosaica e profonda, stile fuori campo da vecchi film western.
Il sacerdote capo, un paio di domeniche fa, ha sciolto i dubbi dei fedeli dicendo in fin di messa: «Preghiamo per il nostro fratello Lazzaro, affinché una pronta guarigione ce lo possa restituire al più presto».
L’altro giorno ho incontrato la moglie di Lazzaro per strada e le ho chiesto come stesse il marito. La sua risposta mi ha rasserenato: egli ha avuto un grosso problema intestinale, ma dopo l’intervento chirurgico, ha cominciato la degenza senza complicazioni.
La vicenda mi ha fatto tornare in mente un episodio della mia famiglia, uno di quei tanti aneddoti che fanno parte della saga domestica, e che mio padre di tanto in tanto ripete come a riallacciare quell’appartenenza lontana e a prendere forza dalle radici di quel passato. Molti lustri fa il marito di una sua zia paterna si ammalò gravemente, e fu ricoverato in ospedale. Tutti i familiari gli si strinsero attorno e cominciarono a fargli visita. Non trapelava tuttavia nessuna notizia ufficiale sullo stato di salute del poveretto, nessuna indiscrezione. In quel rigido ambiente di città di provincia la tutela della riservatezza era pari, se non superiore, alla volontà di non mostrare mai il lato debole della persona, mai dare lo spunto che muovesse a pietà, o peggio a falsa pietà, accompagnata da ipocrisia se non anche da qualche sghignazzo. Ad ogni modo, pur tra mille ipotesi, la voce più accreditata sosteneva che si trattasse di un tumore allo stomaco. E così il mistero su quella malattia e per quel protrarsi della degenza s’infittiva. Fatto sta che nel giro di qualche mese il poveretto si aggravò sempre più, fino a che un triste giorno consegnò l’anima a Dio. Ci fu un cordoglio unanime e partecipato al lutto della famiglia e, alle esequie che seguirono, una gran folla rese l’ultimo omaggio al defunto. Dopo la cerimonia il parentado si riunì in casa della vedova e, come da tradizione, si allestì un banchetto, detto “u cuenze” (dal verbo consolare). Si tratta di una manifestazione di solidarietà umana – tutt’oggi ancora molto sentita – che rappresenta una presenza affettuosa verso la famiglia colpita da questa perdita, e che, al momento del bisogno, viene ricambiata da parte di coloro che ne beneficiano in quel momento.
In questi frangenti l’atmosfera pesante, carica di mestizia e afflizione che ha caratterizzato gli ultimi giorni di agonia, lascia gradatamente spazio ad un’allegria crescente e nient’affatto lugubre. Celebrando il cibo condiviso si festeggia il ritorno alla vita. E tra un ragionamento e l’altro, avvolti dalle voci festose e squillanti dei bimbi, si ricordano i momenti più felici della storia del defunto, gli episodi più divertenti, le sue particolarità caratteriali, le sue manie, i pregi e i difetti. E da tali ricordi spesso s’innescando i sorrisi e qualche volta le risate dei presenti. E’ questo il vero addio al morto, l’ultimo estremo saluto: con questo banchetto si demarca la distanza tra la vita e la morte, tra chi c’è ancora e chi se n’è andato. E chi è rimasto tira un sospiro di sollievo, compresi i parenti più stretti, perché al dolore c’è un limite di sopportazione e tutti hanno la necessità di tornare a respirare, ad occuparsi della vita che scorre.
E dunque, tra una portata e l’altra, mio padre si trovava seduto accanto ad un’altra zia, una donna di un’ironia e acume straordinario, sempre pronta a scherzare e a prendere in giro il mondo intero. Senza dare nell’occhio, le si avvicinò e chiese: «Zia, ma alla fine s’è capito di cos’è morto il povero Geggè?». Al che ella lo guardò sarcastica con la coda dell’occhio e rispose lasciando cadere le parole, come un’attrice navigata d’avanspettacolo: «Com’è morto? Con un forte mal di pancia».
Sono passati decenni da quel giorno, ma quella risposta ancora riecheggia nei ricordi di famiglia. E continuerà a farlo ancora per molto tempo.
Il sacerdote capo, un paio di domeniche fa, ha sciolto i dubbi dei fedeli dicendo in fin di messa: «Preghiamo per il nostro fratello Lazzaro, affinché una pronta guarigione ce lo possa restituire al più presto».
L’altro giorno ho incontrato la moglie di Lazzaro per strada e le ho chiesto come stesse il marito. La sua risposta mi ha rasserenato: egli ha avuto un grosso problema intestinale, ma dopo l’intervento chirurgico, ha cominciato la degenza senza complicazioni.
La vicenda mi ha fatto tornare in mente un episodio della mia famiglia, uno di quei tanti aneddoti che fanno parte della saga domestica, e che mio padre di tanto in tanto ripete come a riallacciare quell’appartenenza lontana e a prendere forza dalle radici di quel passato. Molti lustri fa il marito di una sua zia paterna si ammalò gravemente, e fu ricoverato in ospedale. Tutti i familiari gli si strinsero attorno e cominciarono a fargli visita. Non trapelava tuttavia nessuna notizia ufficiale sullo stato di salute del poveretto, nessuna indiscrezione. In quel rigido ambiente di città di provincia la tutela della riservatezza era pari, se non superiore, alla volontà di non mostrare mai il lato debole della persona, mai dare lo spunto che muovesse a pietà, o peggio a falsa pietà, accompagnata da ipocrisia se non anche da qualche sghignazzo. Ad ogni modo, pur tra mille ipotesi, la voce più accreditata sosteneva che si trattasse di un tumore allo stomaco. E così il mistero su quella malattia e per quel protrarsi della degenza s’infittiva. Fatto sta che nel giro di qualche mese il poveretto si aggravò sempre più, fino a che un triste giorno consegnò l’anima a Dio. Ci fu un cordoglio unanime e partecipato al lutto della famiglia e, alle esequie che seguirono, una gran folla rese l’ultimo omaggio al defunto. Dopo la cerimonia il parentado si riunì in casa della vedova e, come da tradizione, si allestì un banchetto, detto “u cuenze” (dal verbo consolare). Si tratta di una manifestazione di solidarietà umana – tutt’oggi ancora molto sentita – che rappresenta una presenza affettuosa verso la famiglia colpita da questa perdita, e che, al momento del bisogno, viene ricambiata da parte di coloro che ne beneficiano in quel momento.
In questi frangenti l’atmosfera pesante, carica di mestizia e afflizione che ha caratterizzato gli ultimi giorni di agonia, lascia gradatamente spazio ad un’allegria crescente e nient’affatto lugubre. Celebrando il cibo condiviso si festeggia il ritorno alla vita. E tra un ragionamento e l’altro, avvolti dalle voci festose e squillanti dei bimbi, si ricordano i momenti più felici della storia del defunto, gli episodi più divertenti, le sue particolarità caratteriali, le sue manie, i pregi e i difetti. E da tali ricordi spesso s’innescando i sorrisi e qualche volta le risate dei presenti. E’ questo il vero addio al morto, l’ultimo estremo saluto: con questo banchetto si demarca la distanza tra la vita e la morte, tra chi c’è ancora e chi se n’è andato. E chi è rimasto tira un sospiro di sollievo, compresi i parenti più stretti, perché al dolore c’è un limite di sopportazione e tutti hanno la necessità di tornare a respirare, ad occuparsi della vita che scorre.
E dunque, tra una portata e l’altra, mio padre si trovava seduto accanto ad un’altra zia, una donna di un’ironia e acume straordinario, sempre pronta a scherzare e a prendere in giro il mondo intero. Senza dare nell’occhio, le si avvicinò e chiese: «Zia, ma alla fine s’è capito di cos’è morto il povero Geggè?». Al che ella lo guardò sarcastica con la coda dell’occhio e rispose lasciando cadere le parole, come un’attrice navigata d’avanspettacolo: «Com’è morto? Con un forte mal di pancia».
Sono passati decenni da quel giorno, ma quella risposta ancora riecheggia nei ricordi di famiglia. E continuerà a farlo ancora per molto tempo.
venerdì 14 dicembre 2012
Le cinque regole del perfetto arrivista
In ogni buon ufficio che si rispetti, pubblico o privato che sia, ci sono varietà di persone e personaggi, che rispecchiano ogni tipologia di “fauna” umana: c’è l’ossequioso, c’è il ribelle, lo stakanovista, il neghittoso (volgarmente detto “fancazzista”), il farabutto, il ruffiano. Un po’ di tutto insomma. E poi c’è l’ambizioso, l’arrampicatore spregiudicato, capace di ogni nefandezza pur di scalare i gradini della società per la quale lavora. Per questo genere di persona non esistono sentimenti, nessun senso di umanità verso i propri simili, nessuna pietà. Ogni mezzo, ogni compromesso o sotterfugio è lecito per conseguire i propri scopi, fosse anche avvelenare un parente stretto con una dose massiccia di Guttalax.
Perché in effetti per l’arrivista non esiste madre, né padre, parenti o amici che tengano: a lui interessa solo il proprio tornaconto personale. Costi quel che costi.
Villaggio c’ha lasciato uno splendido affresco di tale fenomeno sociale: “Fra tutti quello del Visconte Cobram era il nome più temuto […] Da giovane era stato un mediocre ciclista dilettante; ed entrato a diciott’anni nei ranghi della società, aveva fatto strada facendo il leccaculo e la spia dei potenti ed ora, raggiunto anche lui il potere, voleva che il ciclismo lo praticassero tragicamente tutti i suoi dipendenti” (Fantozzi contro tutti, 1980).
E sì perché l’arrivista, tra l’altro, non si accontenta di giungere lassù, tra i potenti. Il suo scopo finale è quello di dare sfogo al proprio sadismo, di angariare i sottoposti, di umiliarli pubblicamente, per ripagarsi di tutti gli oltraggi che ha dovuto sopportare per arrivare al vertice. Di solito poi questi soggetti fanno davvero delle carriere fulminee e strabilianti, anche perché è notorio quanto i capi amino le lusinghe. E così, tra un ruffianesco adulatore privo di valore, e un intelligente e preparato lavoratore – che ci tiene a mostrare il suo punto di vista senza servilismi – sarà sempre il primo ad averla vinta.
Qualche anno fa lavoravo per una società milanese. Non sono mai stato un tipo accondiscendente, ed anzi, a buona ragione, posso dire di essere sempre stato un tremendo “rompicoglioni” dei potenti. Un bel giorno giunse un ragazzo per un colloquio di lavoro ed io fui il primo ad accoglierlo. Nell’attesa che il capo arrivasse per esaminarlo, scambiammo due parole. Mi era simpatico e così gli detti un paio di consigli per ben figurare al colloquio. E come ultima cosa gli dissi: “Ah, dimenticavo…, fatti trovare intento a leggere Il Sole 24 Ore. Farai decisamente colpo, fidati”. E così fu assunto. Probabilmente non fu solo merito dei miei suggerimenti, questo è ovvio, ma una piccola spintarella di certo la ebbe. Non trascorse neanche un mesetto, che il tipo si palesò come uno dei più servili adulatori che io abbia mai conosciuto: mai una domanda, mai un’obiezione, mai una smorfia neanche di fronte alle più assurde richieste dei superiori. Solo sorrisi sciocchi, atteggiamento remissivo e riverente, ossequioso e servizievole. Mi faceva venire il voltastomaco. Pochi giorni bastarono perché, all’iniziale spirito di rispettosa collaborazione con i colleghi, sostituisse un’aggressività feroce che calpestava tutto e tutti pur di remare a favore della causa del capo. Ci feci delle litigate furibonde e in più di un’occasione fui tentato di aggredirlo fisicamente. Col tempo il capo cominciò a ricoprirlo di stima, incarichi e responsabilità – oltreché di quattrini – , e questi in breve divenne il suo personalissimo intermediario. La situazione divenne talmente esplosiva che, mio malgrado, dovetti rassegnare le dimissioni.
Ora scopro che da qualche giorno è stato pubblicato un volume dal titolo assai seducente: “Manuale del perfetto arrivista”. E leggendo qua e là, ritrovo molte analogie con quella triste vicenda. La psicologa Corinne Maier, già autrice di “Buongiorno pigrizia” (sottotitolo “Come sopravvivere in ufficio e fare il meno possibile”), in questo libro suggerisce al lettore cinque chiavi vincenti per avere successo negli affari e nella scalata al vertice. Innanzitutto occorre essere ipocriti: il perfetto arrivista non deve mai essere sincero, deve avere ben presente il proprio particolare, ma non deve mai palesarlo, mai esternare come la pensa veramente. In secondo luogo bisogna sempre acconsentire a tutto ciò che il capo dice o dispone, senza mai contrapporvisi, senza mai obiettare anche blandamente, neanche quando esistano le più elementari ragioni. E per dare forza di sostanza alla propria fedeltà, meglio ancora sarebbe aggiungere espressioni di profondo entusiasmo e adesione per ogni ordine o progetto. Deve in altre parole passare l’idea che il sottoposto non subisca l’ordine, ma lo esegua con grande trasporto. Perché nulla è più piacevole per un capo che un sottoposto che mostra entusiasmo. “Bisogna applaudire – scrive la Maier – , far vedere che si è positivi, bendisposti, che ci si crede”. E ancora nella mente mi ritorna una scena di Fantozzi: “…è un bel direttore…” e tutti ad applaudire servilmente. La quarta regola, da eseguire alla lettera, nonostante appaia veramente di uno squallore senza confine, è quella di sfruttare il più possibile gli altri, siano essi colleghi, superiori o subordinati. Non esistono persone, ma solo strumenti da utilizzare al fine di conseguire il proprio scopo. Nel limite del possibile meglio trovarsi un mentore di una certa importanza, un protettore influente, “e ridere in modo sfrenato alle sue battute, anche se non sono divertenti”.
E qui potremmo fermarci, tanta è la nausea che sale dal profondo. Ma andiamo oltre. Usare sempre e soltanto il linguaggio giusto, quello che fa squadra, che fa sentire tutti uniti in un solo progetto. Ogni azienda, si sa, ha il suo vocabolario preferito e così non è raro imbattersi in uffici in cui imperversano per tutto l’arco della giornata tragiche espressioni anglofile come core business, mission, business plan, problem solving, activity report (qualcuno con sprezzo del ridicolo giunge perfino alla spaventevole italianizzazione brieffare), pronunciate con grande enfasi e soddisfazione da parte dei consultant – così sono detti i disgraziatissimi lavoratori – che pensano, poveretti, sia molto chic comunicare, infarcendo le loro frasi con quel linguaggio moderno e poco comprensibile per la quasi totalità degli esseri umani della Terra.
E per concludere l’ultima chicca: mai correre rischi inutili proponendo qualcosa di originale. Cosa peraltro assai difficile per l’arrivista, essendo egli persona di una mediocrità imbarazzante, priva completamente d’ingegno e capacità. Meglio aderire ad idee che abbiano almeno inizialmente superaro il gradimento del capo. E proprio in questo sta forse l’unica vera dote dell’arrivista, ciò nell’intuire i gusti del superiore e nel porgergli iniziative che lo allietino in tale senso.
Ecco, tutto questo e molto altro, è ciò che serve per fare una brillante e velocissima carriera. Più che consigli pratici sono filosofia di vita, dottrina comportamentale per chi ambisce a primeggiare al di là dei propri obiettivi meriti.
Una cosa tuttavia trascura di dire la Maier, e non è faccenda di poco conto: per abbracciare questa mentalità, per abdicare alla propria dignità di essere umano, e involarsi verso i luoghi di potere, occorre una spiccata propensione caratteriale. Non tutti gli esseri umani infatti sono tagliati per essere arrivisti, e non basta la buona volontà, né l’ostinata abnegazione per raggiungere risultati apprezzabili. Il vero arrivista è corrotto dentro, marcio fino in fondo di superbia ed egoismo, venduto senza pudore al miglior pagatore. Un’opportunista formidabile che eleva l’ambizione a valore assoluto.
Ecco, questa è l’essenza vera, la natura concreta dell’arrivista: se mancano queste doti sublimi ed ecumeniche, se nel cuore alberga un briciolo di nefasta empatia per il prossimo, non avremo il perfetto arrivista. E non ci sarà manuale che tenga: potete scommetterci.
Perché in effetti per l’arrivista non esiste madre, né padre, parenti o amici che tengano: a lui interessa solo il proprio tornaconto personale. Costi quel che costi.
Villaggio c’ha lasciato uno splendido affresco di tale fenomeno sociale: “Fra tutti quello del Visconte Cobram era il nome più temuto […] Da giovane era stato un mediocre ciclista dilettante; ed entrato a diciott’anni nei ranghi della società, aveva fatto strada facendo il leccaculo e la spia dei potenti ed ora, raggiunto anche lui il potere, voleva che il ciclismo lo praticassero tragicamente tutti i suoi dipendenti” (Fantozzi contro tutti, 1980).
E sì perché l’arrivista, tra l’altro, non si accontenta di giungere lassù, tra i potenti. Il suo scopo finale è quello di dare sfogo al proprio sadismo, di angariare i sottoposti, di umiliarli pubblicamente, per ripagarsi di tutti gli oltraggi che ha dovuto sopportare per arrivare al vertice. Di solito poi questi soggetti fanno davvero delle carriere fulminee e strabilianti, anche perché è notorio quanto i capi amino le lusinghe. E così, tra un ruffianesco adulatore privo di valore, e un intelligente e preparato lavoratore – che ci tiene a mostrare il suo punto di vista senza servilismi – sarà sempre il primo ad averla vinta.
Qualche anno fa lavoravo per una società milanese. Non sono mai stato un tipo accondiscendente, ed anzi, a buona ragione, posso dire di essere sempre stato un tremendo “rompicoglioni” dei potenti. Un bel giorno giunse un ragazzo per un colloquio di lavoro ed io fui il primo ad accoglierlo. Nell’attesa che il capo arrivasse per esaminarlo, scambiammo due parole. Mi era simpatico e così gli detti un paio di consigli per ben figurare al colloquio. E come ultima cosa gli dissi: “Ah, dimenticavo…, fatti trovare intento a leggere Il Sole 24 Ore. Farai decisamente colpo, fidati”. E così fu assunto. Probabilmente non fu solo merito dei miei suggerimenti, questo è ovvio, ma una piccola spintarella di certo la ebbe. Non trascorse neanche un mesetto, che il tipo si palesò come uno dei più servili adulatori che io abbia mai conosciuto: mai una domanda, mai un’obiezione, mai una smorfia neanche di fronte alle più assurde richieste dei superiori. Solo sorrisi sciocchi, atteggiamento remissivo e riverente, ossequioso e servizievole. Mi faceva venire il voltastomaco. Pochi giorni bastarono perché, all’iniziale spirito di rispettosa collaborazione con i colleghi, sostituisse un’aggressività feroce che calpestava tutto e tutti pur di remare a favore della causa del capo. Ci feci delle litigate furibonde e in più di un’occasione fui tentato di aggredirlo fisicamente. Col tempo il capo cominciò a ricoprirlo di stima, incarichi e responsabilità – oltreché di quattrini – , e questi in breve divenne il suo personalissimo intermediario. La situazione divenne talmente esplosiva che, mio malgrado, dovetti rassegnare le dimissioni.
Ora scopro che da qualche giorno è stato pubblicato un volume dal titolo assai seducente: “Manuale del perfetto arrivista”. E leggendo qua e là, ritrovo molte analogie con quella triste vicenda. La psicologa Corinne Maier, già autrice di “Buongiorno pigrizia” (sottotitolo “Come sopravvivere in ufficio e fare il meno possibile”), in questo libro suggerisce al lettore cinque chiavi vincenti per avere successo negli affari e nella scalata al vertice. Innanzitutto occorre essere ipocriti: il perfetto arrivista non deve mai essere sincero, deve avere ben presente il proprio particolare, ma non deve mai palesarlo, mai esternare come la pensa veramente. In secondo luogo bisogna sempre acconsentire a tutto ciò che il capo dice o dispone, senza mai contrapporvisi, senza mai obiettare anche blandamente, neanche quando esistano le più elementari ragioni. E per dare forza di sostanza alla propria fedeltà, meglio ancora sarebbe aggiungere espressioni di profondo entusiasmo e adesione per ogni ordine o progetto. Deve in altre parole passare l’idea che il sottoposto non subisca l’ordine, ma lo esegua con grande trasporto. Perché nulla è più piacevole per un capo che un sottoposto che mostra entusiasmo. “Bisogna applaudire – scrive la Maier – , far vedere che si è positivi, bendisposti, che ci si crede”. E ancora nella mente mi ritorna una scena di Fantozzi: “…è un bel direttore…” e tutti ad applaudire servilmente. La quarta regola, da eseguire alla lettera, nonostante appaia veramente di uno squallore senza confine, è quella di sfruttare il più possibile gli altri, siano essi colleghi, superiori o subordinati. Non esistono persone, ma solo strumenti da utilizzare al fine di conseguire il proprio scopo. Nel limite del possibile meglio trovarsi un mentore di una certa importanza, un protettore influente, “e ridere in modo sfrenato alle sue battute, anche se non sono divertenti”.
E qui potremmo fermarci, tanta è la nausea che sale dal profondo. Ma andiamo oltre. Usare sempre e soltanto il linguaggio giusto, quello che fa squadra, che fa sentire tutti uniti in un solo progetto. Ogni azienda, si sa, ha il suo vocabolario preferito e così non è raro imbattersi in uffici in cui imperversano per tutto l’arco della giornata tragiche espressioni anglofile come core business, mission, business plan, problem solving, activity report (qualcuno con sprezzo del ridicolo giunge perfino alla spaventevole italianizzazione brieffare), pronunciate con grande enfasi e soddisfazione da parte dei consultant – così sono detti i disgraziatissimi lavoratori – che pensano, poveretti, sia molto chic comunicare, infarcendo le loro frasi con quel linguaggio moderno e poco comprensibile per la quasi totalità degli esseri umani della Terra.
E per concludere l’ultima chicca: mai correre rischi inutili proponendo qualcosa di originale. Cosa peraltro assai difficile per l’arrivista, essendo egli persona di una mediocrità imbarazzante, priva completamente d’ingegno e capacità. Meglio aderire ad idee che abbiano almeno inizialmente superaro il gradimento del capo. E proprio in questo sta forse l’unica vera dote dell’arrivista, ciò nell’intuire i gusti del superiore e nel porgergli iniziative che lo allietino in tale senso.
Ecco, tutto questo e molto altro, è ciò che serve per fare una brillante e velocissima carriera. Più che consigli pratici sono filosofia di vita, dottrina comportamentale per chi ambisce a primeggiare al di là dei propri obiettivi meriti.
Una cosa tuttavia trascura di dire la Maier, e non è faccenda di poco conto: per abbracciare questa mentalità, per abdicare alla propria dignità di essere umano, e involarsi verso i luoghi di potere, occorre una spiccata propensione caratteriale. Non tutti gli esseri umani infatti sono tagliati per essere arrivisti, e non basta la buona volontà, né l’ostinata abnegazione per raggiungere risultati apprezzabili. Il vero arrivista è corrotto dentro, marcio fino in fondo di superbia ed egoismo, venduto senza pudore al miglior pagatore. Un’opportunista formidabile che eleva l’ambizione a valore assoluto.
Ecco, questa è l’essenza vera, la natura concreta dell’arrivista: se mancano queste doti sublimi ed ecumeniche, se nel cuore alberga un briciolo di nefasta empatia per il prossimo, non avremo il perfetto arrivista. E non ci sarà manuale che tenga: potete scommetterci.
giovedì 13 dicembre 2012
Sei troppo pignolo..., pensa alla salute.
Giovanni: «Scusa, puoi togliere i piedi dal cruscotto, che lo sporchi?».
Aldo: «Mihi…, come sei pignolo!».
Giovanni: «Io sono pignolo?».
Giacomo: «Beh, un po’ pignolo lo sei!».
Giovanni: «Cioè, questo qua mi cammina sul cruscotto e io sarei pignolo?».
Giacomo: «Ho capito, ma devi anche saperle accettare le critiche, sennò…».
Giovanni: «Va be’, allora, visto che sono pignolo, puoi spostare la gambetta, sennò non entrano le marce?».
Aldo: «Lo vedi che sei veramente pignolo?».
Giovanni: «Allora facciamo tutto il viaggio in prima sennò io sarei pignolo! Comunque mettiti le cinture, che se facciamo un incidente e sbatti l’assicurazione non paga».
Aldo: «Ma a che serve? Stiamo andando a 30 all’ora!».
(Giovanni frena di scatto e Aldo sbatte la testa sul cruscotto).
Giovanni: «Visto?».
Giacomo: «Ma allora sei bastardo!».
Giovanni: «E pignolo!».
Si tratta di un dialogo contenuto nel film “Tre uomini e una gamba” di Aldo, Giovanni e Giacomo, girato nel 1997. Tre amici, dipendenti di una ferramenta, intraprendono un lungo viaggio per recarsi da Milano a Gallipoli, dove si celebrerà il matrimonio di Giacomo con la figlia del cavalier Cecconi, proprietario del negozio dove i tre lavorano. Aldo è un meridionale trapiantato al nord (“che botta che gu pres…”), apatico, strafottente, superficiale e in perenne ritardo; Giacomo invece è l’intellettuale del gruppo, colto, profondo, ma anche logorroico allo stremo; Giovanni invece è il pignolo, maniaco della precisione. I tre, proprio a causa delle loro differenze caratteriali inscenano delle gag esilaranti, rinfacciandosi l’un l’altro i rispettivi difetti. Ma mentre Aldo e Giacomo pur nelle difficoltà, se la spassano, sghignazzano (Giacomo oltretutto, trova anche il vero amore della sua vita), Giovanni appare sempre turbato, agitato e costantemente di cattivo umore. Tanto che i primi due, non sopportando la sua pignoleria, in più di un’occasione fanno causa comune contro di lui: “E ma allora sei proprio bastardo…”.
Ora una ricerca dell’Università di Toronto ha dimostrato che tutti coloro che nella vita hanno come “stella polare” il perfezionismo, alla lunga vanno in contro a danni non solo dal punto di vista relazionale, ma anche riguardo alla propria salute. Tra i vari problemi cui i pignoli andrebbero incontro vi sarebbero affaticamento fisico, disturbi alimentari, rabbia, stress elevato, ansia, depressione, dolori vari e generalizzati. I ricercatori sostengono che alla base del perfezionismo patologico vi sarebbe un grosso equivoco di fondo: il pignolo in sostanza tenderebbe a confondere e sovrapporre il “professionalizzare” con il “personalizzare”, soprattutto in ambito lavorativo. In altre parole un lavoro è ben fatto se viene eseguito secondo i suoi parametri, come dice lui: qualunque altra soluzione è errata. Ma tutto ciò, va da sé, oltre ad essere sbagliato dal punto di vista relazionale, può anche condurre verso risultati tutt’altro che perfetti. Un dato lavoro potrebbe essere eseguito in diverse maniere, e non è detto che quella decisa dal pignolo sia per forza la migliore, né la più precisa: “C’è differenza tra un lavoro professionalmente eccellente e un lavoro personalmente ritenuto eccellente” – commentano i ricercatori. Senza considerare che la perfezione è forse la merce più rara da trovare sulla faccia della Terra. Ed oltretutto sebbene auspicabile, non sempre è conveniente. Tra le conclusioni a cui giungono i ricercatori, c’è un concetto d’indubbia rilevanza: “Dovremmo imparare a porci degli obiettivi più realistici, e infine, sani. Sani perché spesso pur di raggiungere un determinato scopo si chiede troppo anche a noi stessi, e così la competizione diviene malsana”. Quante volte un lavoro complicato, un progetto lungo e delicato ci hanno fatto perdere il sonno e la tranquillità? Quante volte ci siamo arrabbiati con noi stessi per non essere stati in grado di fare di più e meglio? Mio nonno diceva sempre: “Se sei obbligato a fare qualcosa, è meglio che tu la faccia bene piuttosto che male”. Lampante, lapalissiano. Ma da qui a caricarsi di stress, vivere male, e soffrirne addirittura fisicamente ce ne passa. Occorre in altre parole raggiungere un adeguato compromesso tra sforzo e obiettivo, definire ciò per cui vale davvero la pena di impegnarsi allo stremo. Partendo dunque dall’assunto che la perfezione non esiste, bisogna dare una scala di valore ad ogni nostro comportamento. Ogni azione, lavoro o prestazione deve dunque essere eseguita puntando non alla perfezione, ma alla migliore realizzazione possibile.
Qualche tempo fa un mio amico, per arrotondare il suo magro stipendio, si aggregò alla squadra di imbianchini di un suo conoscente. Si recarono presso un appartamento del centro di Modena e cominciarono a tinteggiare le pareti. Nonostante gli imbianchini fossero tutti ottimi professionisti, solerti e coscienziosi, la signora che aveva commissionato l’incarico continuava a dimostrare verso di loro grande sfiducia ed irrequietezza. Mai che distogliesse un attimo lo sguardo dal rullo, mai che si assentasse un istante dal luogo di lavoro: “Vediamo di dare una pennellata in più nell’angolo, per favore…; cerchiamo di non sbavare quel bordo lassù per cortesia…; e tutte queste macchioline per terra? Non è che poi me le lasciate qua e ve ne andate, vero? No perché io pago, e i miei soldi sono tutti buoni”. Fatto sta che fino all’ultimo istante di permanenza in quell’appartamento i lavoratori vennero martirizzati senza un briciolo d’umanità e, nonostante il buon lavoro svolto, la signora rimase alquanto delusa e insoddisfatta. Ora può darsi che la signora fosse prevenuta, perché magari aveva avuto esperienze poco piacevoli in precedenza, forse aveva incontrato sulla propria strada degli artigiani incompetenti o peggio dei farabutti. Questo può sicuramente essere. Ma se anche così fosse saremmo comunque di fronte alla classica persona pignola e un po’ rompicoglioni. E sì perché - al di là del fatto che un lavoro va eventualmente criticato al termine - non è detto che siccome pago, debba pretendere un lavoro assolutamente perfetto e al di là di ogni possibile tipo di critica. Lo stesso codice civile, in materia di prestazione d’opera, parla di esecuzione dei lavori “secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte” (2224 c.c.). Da nessuna parte si trova scritto che “il lavoro deve essere perfetto ed immune da ogni critica”. Sarebbe impossibile e dunque fuori da ogni logica.
Questo non toglie che la sciatteria sia parimenti da riprovare. Quando andai ad abitare con amici in una vecchia casa di Sesto San Giovanni ci ingegnammo al meglio per renderla confortevole ed accogliente. E per prima cosa rinfrescammo le pareti con una bella mano di tempera: stanza per stanza. Eravamo molto orgogliosi del nostro lavoro, ma una sera, nell’attesa di cenare, ci accorgemmo che le pareti della cucina si gonfiavano misteriosamente. All’inizio tememmo che si trattasse di un cedimento strutturale, o di un terremoto improvviso. Ma i lampadari non ondeggiavano, nessun allarme per strada. Non si trattava di quello. E così, incuriositi da quell’enigmatico fenomeno, ci accorgemmo che al di sotto della tinteggiatura, e dello stucco, c’erano delle mattonelle. Il precedente inquilino, stufo forse del colore di quelle maioliche, aveva pensato bene non di cambiarle, ma di applicarvi della carta da parete. Poi, evidentemente non soddisfatto del risultato, aveva deciso di stuccare il tutto. E così, con l’umidità della cucina, le pareti avevano cominciato a gonfiarsi, a respirare come un animale addormentato.
Ce ne volle d’impegno per ridare a quell’ambiente un minimo di vivibilità. E nonostante tutta la nostra abnegazione, dovemmo accontentarci del risultato.
Avevamo capito che nonostante tutto non saremmo mai riusciti ad ottenere la perfezione assoluta. Avevamo imparato ad accettare i nostri limiti e quelli degli altri. Fu una buona lezione, e ne guadagnammo in salute.
Aldo: «Mihi…, come sei pignolo!».
Giovanni: «Io sono pignolo?».
Giacomo: «Beh, un po’ pignolo lo sei!».
Giovanni: «Cioè, questo qua mi cammina sul cruscotto e io sarei pignolo?».
Giacomo: «Ho capito, ma devi anche saperle accettare le critiche, sennò…».
Giovanni: «Va be’, allora, visto che sono pignolo, puoi spostare la gambetta, sennò non entrano le marce?».
Aldo: «Lo vedi che sei veramente pignolo?».
Giovanni: «Allora facciamo tutto il viaggio in prima sennò io sarei pignolo! Comunque mettiti le cinture, che se facciamo un incidente e sbatti l’assicurazione non paga».
Aldo: «Ma a che serve? Stiamo andando a 30 all’ora!».
(Giovanni frena di scatto e Aldo sbatte la testa sul cruscotto).
Giovanni: «Visto?».
Giacomo: «Ma allora sei bastardo!».
Giovanni: «E pignolo!».
Si tratta di un dialogo contenuto nel film “Tre uomini e una gamba” di Aldo, Giovanni e Giacomo, girato nel 1997. Tre amici, dipendenti di una ferramenta, intraprendono un lungo viaggio per recarsi da Milano a Gallipoli, dove si celebrerà il matrimonio di Giacomo con la figlia del cavalier Cecconi, proprietario del negozio dove i tre lavorano. Aldo è un meridionale trapiantato al nord (“che botta che gu pres…”), apatico, strafottente, superficiale e in perenne ritardo; Giacomo invece è l’intellettuale del gruppo, colto, profondo, ma anche logorroico allo stremo; Giovanni invece è il pignolo, maniaco della precisione. I tre, proprio a causa delle loro differenze caratteriali inscenano delle gag esilaranti, rinfacciandosi l’un l’altro i rispettivi difetti. Ma mentre Aldo e Giacomo pur nelle difficoltà, se la spassano, sghignazzano (Giacomo oltretutto, trova anche il vero amore della sua vita), Giovanni appare sempre turbato, agitato e costantemente di cattivo umore. Tanto che i primi due, non sopportando la sua pignoleria, in più di un’occasione fanno causa comune contro di lui: “E ma allora sei proprio bastardo…”.
Ora una ricerca dell’Università di Toronto ha dimostrato che tutti coloro che nella vita hanno come “stella polare” il perfezionismo, alla lunga vanno in contro a danni non solo dal punto di vista relazionale, ma anche riguardo alla propria salute. Tra i vari problemi cui i pignoli andrebbero incontro vi sarebbero affaticamento fisico, disturbi alimentari, rabbia, stress elevato, ansia, depressione, dolori vari e generalizzati. I ricercatori sostengono che alla base del perfezionismo patologico vi sarebbe un grosso equivoco di fondo: il pignolo in sostanza tenderebbe a confondere e sovrapporre il “professionalizzare” con il “personalizzare”, soprattutto in ambito lavorativo. In altre parole un lavoro è ben fatto se viene eseguito secondo i suoi parametri, come dice lui: qualunque altra soluzione è errata. Ma tutto ciò, va da sé, oltre ad essere sbagliato dal punto di vista relazionale, può anche condurre verso risultati tutt’altro che perfetti. Un dato lavoro potrebbe essere eseguito in diverse maniere, e non è detto che quella decisa dal pignolo sia per forza la migliore, né la più precisa: “C’è differenza tra un lavoro professionalmente eccellente e un lavoro personalmente ritenuto eccellente” – commentano i ricercatori. Senza considerare che la perfezione è forse la merce più rara da trovare sulla faccia della Terra. Ed oltretutto sebbene auspicabile, non sempre è conveniente. Tra le conclusioni a cui giungono i ricercatori, c’è un concetto d’indubbia rilevanza: “Dovremmo imparare a porci degli obiettivi più realistici, e infine, sani. Sani perché spesso pur di raggiungere un determinato scopo si chiede troppo anche a noi stessi, e così la competizione diviene malsana”. Quante volte un lavoro complicato, un progetto lungo e delicato ci hanno fatto perdere il sonno e la tranquillità? Quante volte ci siamo arrabbiati con noi stessi per non essere stati in grado di fare di più e meglio? Mio nonno diceva sempre: “Se sei obbligato a fare qualcosa, è meglio che tu la faccia bene piuttosto che male”. Lampante, lapalissiano. Ma da qui a caricarsi di stress, vivere male, e soffrirne addirittura fisicamente ce ne passa. Occorre in altre parole raggiungere un adeguato compromesso tra sforzo e obiettivo, definire ciò per cui vale davvero la pena di impegnarsi allo stremo. Partendo dunque dall’assunto che la perfezione non esiste, bisogna dare una scala di valore ad ogni nostro comportamento. Ogni azione, lavoro o prestazione deve dunque essere eseguita puntando non alla perfezione, ma alla migliore realizzazione possibile.
Qualche tempo fa un mio amico, per arrotondare il suo magro stipendio, si aggregò alla squadra di imbianchini di un suo conoscente. Si recarono presso un appartamento del centro di Modena e cominciarono a tinteggiare le pareti. Nonostante gli imbianchini fossero tutti ottimi professionisti, solerti e coscienziosi, la signora che aveva commissionato l’incarico continuava a dimostrare verso di loro grande sfiducia ed irrequietezza. Mai che distogliesse un attimo lo sguardo dal rullo, mai che si assentasse un istante dal luogo di lavoro: “Vediamo di dare una pennellata in più nell’angolo, per favore…; cerchiamo di non sbavare quel bordo lassù per cortesia…; e tutte queste macchioline per terra? Non è che poi me le lasciate qua e ve ne andate, vero? No perché io pago, e i miei soldi sono tutti buoni”. Fatto sta che fino all’ultimo istante di permanenza in quell’appartamento i lavoratori vennero martirizzati senza un briciolo d’umanità e, nonostante il buon lavoro svolto, la signora rimase alquanto delusa e insoddisfatta. Ora può darsi che la signora fosse prevenuta, perché magari aveva avuto esperienze poco piacevoli in precedenza, forse aveva incontrato sulla propria strada degli artigiani incompetenti o peggio dei farabutti. Questo può sicuramente essere. Ma se anche così fosse saremmo comunque di fronte alla classica persona pignola e un po’ rompicoglioni. E sì perché - al di là del fatto che un lavoro va eventualmente criticato al termine - non è detto che siccome pago, debba pretendere un lavoro assolutamente perfetto e al di là di ogni possibile tipo di critica. Lo stesso codice civile, in materia di prestazione d’opera, parla di esecuzione dei lavori “secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte” (2224 c.c.). Da nessuna parte si trova scritto che “il lavoro deve essere perfetto ed immune da ogni critica”. Sarebbe impossibile e dunque fuori da ogni logica.
Questo non toglie che la sciatteria sia parimenti da riprovare. Quando andai ad abitare con amici in una vecchia casa di Sesto San Giovanni ci ingegnammo al meglio per renderla confortevole ed accogliente. E per prima cosa rinfrescammo le pareti con una bella mano di tempera: stanza per stanza. Eravamo molto orgogliosi del nostro lavoro, ma una sera, nell’attesa di cenare, ci accorgemmo che le pareti della cucina si gonfiavano misteriosamente. All’inizio tememmo che si trattasse di un cedimento strutturale, o di un terremoto improvviso. Ma i lampadari non ondeggiavano, nessun allarme per strada. Non si trattava di quello. E così, incuriositi da quell’enigmatico fenomeno, ci accorgemmo che al di sotto della tinteggiatura, e dello stucco, c’erano delle mattonelle. Il precedente inquilino, stufo forse del colore di quelle maioliche, aveva pensato bene non di cambiarle, ma di applicarvi della carta da parete. Poi, evidentemente non soddisfatto del risultato, aveva deciso di stuccare il tutto. E così, con l’umidità della cucina, le pareti avevano cominciato a gonfiarsi, a respirare come un animale addormentato.
Ce ne volle d’impegno per ridare a quell’ambiente un minimo di vivibilità. E nonostante tutta la nostra abnegazione, dovemmo accontentarci del risultato.
Avevamo capito che nonostante tutto non saremmo mai riusciti ad ottenere la perfezione assoluta. Avevamo imparato ad accettare i nostri limiti e quelli degli altri. Fu una buona lezione, e ne guadagnammo in salute.
mercoledì 12 dicembre 2012
Due vecchi cincischioni
Diego: «Vado a portare a spasso il cane. Ciao».
Yanez: «Quanta tristezza…».
Diego: «Lo so è triste la vita di un vecchio aristocratico caduto in disgrazia. Per fortuna la fiasca di Lambrusco non mi tradisce mai».
Yanez: «Fatti un caffè corretto Fernet. Vai dai cinesi. La correzione Fernet più generosa te la fanno loro».
Diego: «Ecco a cosa servono gli amici, a darti il consiglio giusto nei momenti peggiori. Ora la giornata comincia ad avere un senso, vado al bar dei cinesi, alle dieci del mattino, col cane al guinzaglio, a bere un caffè corretto Fernet».
Yanez: «Ottimo…, vedrai che ti trovi bene».
Diego: «Grazie, spero di trovare anche qualche lavoro in corso da osservare e commentare con le mani dietro la schiena».
Yanez: «Vai sicuro, in Piazza Garibaldi stanno rifacendo i tubi della fogna».
Diego: «Grazie del consiglio, vado di corsa».
Yanez: «Mi raccomando, dai un’occhiata a come mettono giù la putrella. È già la terza volta che la mettono e la levano. Lavorano male. Dispiace».
Yanez: «Quanta tristezza…».
Diego: «Lo so è triste la vita di un vecchio aristocratico caduto in disgrazia. Per fortuna la fiasca di Lambrusco non mi tradisce mai».
Yanez: «Fatti un caffè corretto Fernet. Vai dai cinesi. La correzione Fernet più generosa te la fanno loro».
Diego: «Ecco a cosa servono gli amici, a darti il consiglio giusto nei momenti peggiori. Ora la giornata comincia ad avere un senso, vado al bar dei cinesi, alle dieci del mattino, col cane al guinzaglio, a bere un caffè corretto Fernet».
Yanez: «Ottimo…, vedrai che ti trovi bene».
Diego: «Grazie, spero di trovare anche qualche lavoro in corso da osservare e commentare con le mani dietro la schiena».
Yanez: «Vai sicuro, in Piazza Garibaldi stanno rifacendo i tubi della fogna».
Diego: «Grazie del consiglio, vado di corsa».
Yanez: «Mi raccomando, dai un’occhiata a come mettono giù la putrella. È già la terza volta che la mettono e la levano. Lavorano male. Dispiace».
Il lusso dell'igiene
Oggi, mercoledì 12 dicembre 2012, ricorre il 155esimo anniversario di una grande, straordinaria invenzione: la carta igienica. Joseph Gayetty, brillante uomo d’affari, nacque nel Massachusetts e nella sua vita si occupò un po’ di tutto. Nel 1857 presentò al pubblico e alla stampa quello che nei suoi propositi sarebbe stata l’invenzione più apprezzata del secolo: inscatolata a pacchi e a singoli fogli, avrebbe dovuto migliorare le condizioni igieniche e lenire problemi di emorroidi.
E già, perché nell’idea iniziale, i fogli erano impregnati d’essenza d’aloe e la carta era denominata non già igienica, ma “terapeutica”. Nata con grandi propositi di successo, l’invenzione fu un fiasco colossale. Le folle infatti rimasero pressoché indifferenti di fronte a tale novità, anche perché a quei tempi venivano usati vecchi fogli di giornale, pezze ed altri materiali per quel genere di bisogno, e non si vedeva il motivo di spendere altri quattrini per “faccende” che finivano, con rispetto parlando, nel cesso. Per arrivare al classico rotolo di carta igienica bisogna attendere ancora qualche decennio, vale a dire il 1879, allorché Walter Alcock perfeziona l’invenzione, introducendo il rotolo con fogli a strappo. Anche questa volta però il successo non arriva. Qualche anno dopo i fratelli Scott, di Filadelfia, acquistano il brevetto e creano la Scott Paper Company, l’odierna Scottex. Sopraggiungono quindi altre novità, come la carta bucherellata e il doppio strato, ma ci vorranno ancora molti anni prima che la carta igienica, da costosa e superflua stravaganza, diventi un oggetto di uso quotidiano. La produzione industriale a livello mondiale e il consumo di massa diventano infatti realtà solo ai primi del ‘900. Ma mentre negli Stati Uniti, già a partire dagli anni ’30, si può dire che ogni famiglia avesse in casa il suo bel rotolone, in Italia occorre attendere niente meno che il boom economico. Ecco il motivo per il quale, un po’ prosaicamente, si dice: “Eh già…, gli americano sono trent’anni avanti a noi…”. Nei racconti dei nostri genitori, infatti, prima generazione del secondo dopoguerra, di tanto in tanto ancora ritornano echi di quell’epoca lontana, anni in cui occorreva arrangiarsi con quel che c’era, vale a dire carta di giornale, canapa, pezze e stracci. Rigorosamente da riutilizzare. Il concetto dell’usa e getta è un’acquisizione relativamente recente. A casa di mio padre, ad esempio, vi fu uno zio che per un certo periodo andò spesso a far “visita” ai parenti, dato che la sua attività commerciale (bar-torrefazione) era momentaneamente priva di toilette. Al di là del piacere di avere un ospite gradito in casa, quando costui se ne andava lasciava sempre un bel regalo, vale a dire qualche tovagliolo uso alimentare in bagno: lo zio era un gran signore, e non poteva certo usare la ruvida e volgare cartaccia da giornale per le sue necessità. E così quando costui salutava e usciva, c’era sempre una corsa in bagno per accaparrarsi un po’ di quella preziosa e morbida carta. Nell’arco della storia umana, in luogo della carta igienica, sono stati usati i materiali più svariati: nella Roma antica per esempio si usavano delle spugne legate ad un bastone e imbevute di acqua salata; altre civiltà più arretrare usavano foglie di betulla, boli di fieno o lana erano in uso nelle zone rurali, pezzi di gomene sulle navi, gusci di cocco nelle zone equatoriali, neve e fango nell’estremo nord Europa, in India e Arabia acqua e mano sinistra (quella impura) per motivi igienici e religiosi. Alcune fonti raccontano che una sorta di carta igienica fosse già in uso in Cina durante la dinastia Sui nel 589. Ma pare che fosse di esclusivo appannaggio dei reali e dignitari di corte.
Certo al giorno d’oggi sarebbe un grosso problema se non avessimo la carta igienica: basta pensare a quante volte c’è capitato di sederci soddisfatti sul water e accorgerci all’improvviso che il rotolo è esaurito. Sono tragedie umane che non si augurano nemmeno al peggior nemico. Anche perché poi si scatenano delle lotte fratricide tra gli utilizzatori abituali del sanitario, alla ricerca rancorosa di colui che ha consumato l’ultimo strappo e non ha cambiato il rotolone. Nei nostri odierni supermercati vi sono immensi e fornitissimi reparti dedicati alla carta igienica, c’è da perderci una giornata intera nella ricerca di quella che fa per noi. Vi sono quelle bianche, candide e immacolate, ma anche quelle colorate; quelle più resistenti e un po’ grezzotte, e quelle ultramorbide e decorate; e poi ci sono quelle profumate, e ultimamente anche quelle con su fumetti, barzellette, squadre di calcio e volti di personaggi politici. Queste ultime pare che vadano tremendamente a ruba. E poi ci sono quelle inumidite (nell’eventualità ci si trovi a fare un “pacchetto” fuori casa), quelle emollienti e quelle antisettiche. Un vero lusso al cospetto dei nostri poveri disgraziatissimi antenati. E la pubblicità ha contribuito non poco al successo planetario di questo prodotto: c’è il tenero cagnetto che corre e ruzzola tra batuffoli di cotone e morbidi rotoloni rosa; c’è il Principe Azzurro, uno stitico da competizione, che butta nel fuoco il messaggio della bella damigella e si stringe appassionato al rotolo; il piccolo Mozart che scrive le sue opere sul mega-rotolone e la madre s’incazza perché la cena è pronta. Davvero dei pezzi d’antologia, intensi momenti di grande televisione.
Qualche anno fa, il compianto Gianfranco Funari, accettò di fare una telepromozione per la carta igienica di una famosa azienda. Nessun anchorman si era mai abbassato a tanto, ma egli era un animale da palcoscenico e non temeva certo le critiche dei maldicenti. E d’altra parte l’emittente locale, per la quale era finito a lavorare negli ultimi anni della sua vita, non poteva certo permettersi di rifiutare sdegnosamente inserzioni pubblicitarie non gradite. «Chi non la usa non sa che si perde» diceva malizioso davanti alle telecamere. Poi s’avvicinava ad un signore elegante del pubblico e gli sussurrava sottovoce: «Je serve? Beh, ne tenga un rotolo…, può sempre servì». E poi concludeva: «Io non vi dico che è migliore di altre, ma è ottima. E poi o la comprate o io vado a ca…». E si tappava platealmente la bocca con la mano. Perché in effetti, se l’azienda non realizzava i guadagni desiderati, smetteva di sponsorizzare il programma e la trasmissione chiudeva. Che artista, che straordinario istrione. Tanto fu il clamore per quella reclame che Corrado Guzzanti ne fece una parodia. In una finta intervista di Serena Dandini, camuffato appunto da Funari, disse: «Lo scollamento della politica è come la mia carta igienica…, se tu delicatamente separi i due veli…, non si riattaccano più. E se poi te vai a pulì con un velo solo…, te resta tutta la problematica sulla mano…».
Oggi tra l’altro la carta igienica è anche uno status simbol per persone danarose, desiderose di dimostrare la propria ricchezza. Un’azienda mantovana infatti propone la carta da toilette più costosa del pianeta: poco più di due euro a rotolo. E qual è l’originalità di questa carta? Un packaging accattivante, un comodo e raffinato barattolo di latta porta rotolo, morbidissima e poi anche particolarmente attraente grazie alle tinte accese. Tinte che vanno dal nero al rosso, dal verde al fucsia: tonalità che i nuovi ricchi potranno elegantemente abbinare alla propria sala da bagno. C’è da scommettere che quest’anno qualcuno incarterà un bel barattolone e lo piazzerà sotto l’albero di Natale. Certo ad avere una buona disponibilità economica lo si potrebbe abbinare ad un altro barattolo, quello che Piero Manzoni riempiva di “Merde d’Artiste”. Sarebbe sicuramente un regalo di gran classe.
Ma la carta igienica non ha solo scopi e finalità scatologici, come si potrebbe immaginare. Lo scrittore giapponese Koji Suzuki, ad esempio, ha deciso di stampare il suo immortale capolavoro, Drop (che tradotto sta per “lasciar cadere”…, il che è tutto dire…) su rotoli di carta igienica. Ogni rotolo è incartato singolarmente e porta l’immagine dello scrittore ripreso in una smorfia sofferente e angustiata. D’altra parte – come si sa – “scrivere” è pur sempre uno sforzo notevole ed impegnativo. Il “volume” è lungo circa trenta metri, ed il prezzo decisamente abbordabile: circa due euro. Senza considerare che qualora il genere non riscuota il gradimento del cliente, il prodotto può agevolmente essere riconvertito, senza ulteriori spese, verso scopi meno nobili. Certo qualcuno potrebbe porsi il problema di dove conservare il rotolo-libro: libreria o bagno? Ma queste in fondo sono quisquilie.
Ma diamo qualche dato: oggi, in Europa si vendono circa sei milioni di tonnellate di carta igienica (22 miliardi di rotoli) e ogni abitante ne consuma circa quindici chilogrammi all’anno, per un valore totale di oltre otto miliardi di euro: un quarto del consumo mondiale. Sull’intera superficie del pianeta il consumo globale è di circa venti milioni di tonnellate (84 miliardi di rotoli). Il che, tradotto in materia prima, ci dice che ogni anno servono una cinquantina di milioni di tonnellate di legname, corrispondenti a circa 400-500 milioni di alberi di medie dimensioni abbattuti ogni anno (Fonte CONAI).
Se Mr. Gayetty potesse vedere l’effetto che avuto la sua intuizione, sarebbe orgoglioso di se stesso.
Ad ogni modo queste sono cifre impressionanti, e che fanno riflette sulla portata che quest’invenzione ha avuto su tutto l’ecosistema. Da ora in poi, e per il bene della nostra amata Terra, prima di mandare qualcuno a cagare, pensiamoci bene.
E già, perché nell’idea iniziale, i fogli erano impregnati d’essenza d’aloe e la carta era denominata non già igienica, ma “terapeutica”. Nata con grandi propositi di successo, l’invenzione fu un fiasco colossale. Le folle infatti rimasero pressoché indifferenti di fronte a tale novità, anche perché a quei tempi venivano usati vecchi fogli di giornale, pezze ed altri materiali per quel genere di bisogno, e non si vedeva il motivo di spendere altri quattrini per “faccende” che finivano, con rispetto parlando, nel cesso. Per arrivare al classico rotolo di carta igienica bisogna attendere ancora qualche decennio, vale a dire il 1879, allorché Walter Alcock perfeziona l’invenzione, introducendo il rotolo con fogli a strappo. Anche questa volta però il successo non arriva. Qualche anno dopo i fratelli Scott, di Filadelfia, acquistano il brevetto e creano la Scott Paper Company, l’odierna Scottex. Sopraggiungono quindi altre novità, come la carta bucherellata e il doppio strato, ma ci vorranno ancora molti anni prima che la carta igienica, da costosa e superflua stravaganza, diventi un oggetto di uso quotidiano. La produzione industriale a livello mondiale e il consumo di massa diventano infatti realtà solo ai primi del ‘900. Ma mentre negli Stati Uniti, già a partire dagli anni ’30, si può dire che ogni famiglia avesse in casa il suo bel rotolone, in Italia occorre attendere niente meno che il boom economico. Ecco il motivo per il quale, un po’ prosaicamente, si dice: “Eh già…, gli americano sono trent’anni avanti a noi…”. Nei racconti dei nostri genitori, infatti, prima generazione del secondo dopoguerra, di tanto in tanto ancora ritornano echi di quell’epoca lontana, anni in cui occorreva arrangiarsi con quel che c’era, vale a dire carta di giornale, canapa, pezze e stracci. Rigorosamente da riutilizzare. Il concetto dell’usa e getta è un’acquisizione relativamente recente. A casa di mio padre, ad esempio, vi fu uno zio che per un certo periodo andò spesso a far “visita” ai parenti, dato che la sua attività commerciale (bar-torrefazione) era momentaneamente priva di toilette. Al di là del piacere di avere un ospite gradito in casa, quando costui se ne andava lasciava sempre un bel regalo, vale a dire qualche tovagliolo uso alimentare in bagno: lo zio era un gran signore, e non poteva certo usare la ruvida e volgare cartaccia da giornale per le sue necessità. E così quando costui salutava e usciva, c’era sempre una corsa in bagno per accaparrarsi un po’ di quella preziosa e morbida carta. Nell’arco della storia umana, in luogo della carta igienica, sono stati usati i materiali più svariati: nella Roma antica per esempio si usavano delle spugne legate ad un bastone e imbevute di acqua salata; altre civiltà più arretrare usavano foglie di betulla, boli di fieno o lana erano in uso nelle zone rurali, pezzi di gomene sulle navi, gusci di cocco nelle zone equatoriali, neve e fango nell’estremo nord Europa, in India e Arabia acqua e mano sinistra (quella impura) per motivi igienici e religiosi. Alcune fonti raccontano che una sorta di carta igienica fosse già in uso in Cina durante la dinastia Sui nel 589. Ma pare che fosse di esclusivo appannaggio dei reali e dignitari di corte.
Certo al giorno d’oggi sarebbe un grosso problema se non avessimo la carta igienica: basta pensare a quante volte c’è capitato di sederci soddisfatti sul water e accorgerci all’improvviso che il rotolo è esaurito. Sono tragedie umane che non si augurano nemmeno al peggior nemico. Anche perché poi si scatenano delle lotte fratricide tra gli utilizzatori abituali del sanitario, alla ricerca rancorosa di colui che ha consumato l’ultimo strappo e non ha cambiato il rotolone. Nei nostri odierni supermercati vi sono immensi e fornitissimi reparti dedicati alla carta igienica, c’è da perderci una giornata intera nella ricerca di quella che fa per noi. Vi sono quelle bianche, candide e immacolate, ma anche quelle colorate; quelle più resistenti e un po’ grezzotte, e quelle ultramorbide e decorate; e poi ci sono quelle profumate, e ultimamente anche quelle con su fumetti, barzellette, squadre di calcio e volti di personaggi politici. Queste ultime pare che vadano tremendamente a ruba. E poi ci sono quelle inumidite (nell’eventualità ci si trovi a fare un “pacchetto” fuori casa), quelle emollienti e quelle antisettiche. Un vero lusso al cospetto dei nostri poveri disgraziatissimi antenati. E la pubblicità ha contribuito non poco al successo planetario di questo prodotto: c’è il tenero cagnetto che corre e ruzzola tra batuffoli di cotone e morbidi rotoloni rosa; c’è il Principe Azzurro, uno stitico da competizione, che butta nel fuoco il messaggio della bella damigella e si stringe appassionato al rotolo; il piccolo Mozart che scrive le sue opere sul mega-rotolone e la madre s’incazza perché la cena è pronta. Davvero dei pezzi d’antologia, intensi momenti di grande televisione.
Qualche anno fa, il compianto Gianfranco Funari, accettò di fare una telepromozione per la carta igienica di una famosa azienda. Nessun anchorman si era mai abbassato a tanto, ma egli era un animale da palcoscenico e non temeva certo le critiche dei maldicenti. E d’altra parte l’emittente locale, per la quale era finito a lavorare negli ultimi anni della sua vita, non poteva certo permettersi di rifiutare sdegnosamente inserzioni pubblicitarie non gradite. «Chi non la usa non sa che si perde» diceva malizioso davanti alle telecamere. Poi s’avvicinava ad un signore elegante del pubblico e gli sussurrava sottovoce: «Je serve? Beh, ne tenga un rotolo…, può sempre servì». E poi concludeva: «Io non vi dico che è migliore di altre, ma è ottima. E poi o la comprate o io vado a ca…». E si tappava platealmente la bocca con la mano. Perché in effetti, se l’azienda non realizzava i guadagni desiderati, smetteva di sponsorizzare il programma e la trasmissione chiudeva. Che artista, che straordinario istrione. Tanto fu il clamore per quella reclame che Corrado Guzzanti ne fece una parodia. In una finta intervista di Serena Dandini, camuffato appunto da Funari, disse: «Lo scollamento della politica è come la mia carta igienica…, se tu delicatamente separi i due veli…, non si riattaccano più. E se poi te vai a pulì con un velo solo…, te resta tutta la problematica sulla mano…».
Oggi tra l’altro la carta igienica è anche uno status simbol per persone danarose, desiderose di dimostrare la propria ricchezza. Un’azienda mantovana infatti propone la carta da toilette più costosa del pianeta: poco più di due euro a rotolo. E qual è l’originalità di questa carta? Un packaging accattivante, un comodo e raffinato barattolo di latta porta rotolo, morbidissima e poi anche particolarmente attraente grazie alle tinte accese. Tinte che vanno dal nero al rosso, dal verde al fucsia: tonalità che i nuovi ricchi potranno elegantemente abbinare alla propria sala da bagno. C’è da scommettere che quest’anno qualcuno incarterà un bel barattolone e lo piazzerà sotto l’albero di Natale. Certo ad avere una buona disponibilità economica lo si potrebbe abbinare ad un altro barattolo, quello che Piero Manzoni riempiva di “Merde d’Artiste”. Sarebbe sicuramente un regalo di gran classe.
Ma la carta igienica non ha solo scopi e finalità scatologici, come si potrebbe immaginare. Lo scrittore giapponese Koji Suzuki, ad esempio, ha deciso di stampare il suo immortale capolavoro, Drop (che tradotto sta per “lasciar cadere”…, il che è tutto dire…) su rotoli di carta igienica. Ogni rotolo è incartato singolarmente e porta l’immagine dello scrittore ripreso in una smorfia sofferente e angustiata. D’altra parte – come si sa – “scrivere” è pur sempre uno sforzo notevole ed impegnativo. Il “volume” è lungo circa trenta metri, ed il prezzo decisamente abbordabile: circa due euro. Senza considerare che qualora il genere non riscuota il gradimento del cliente, il prodotto può agevolmente essere riconvertito, senza ulteriori spese, verso scopi meno nobili. Certo qualcuno potrebbe porsi il problema di dove conservare il rotolo-libro: libreria o bagno? Ma queste in fondo sono quisquilie.
Ma diamo qualche dato: oggi, in Europa si vendono circa sei milioni di tonnellate di carta igienica (22 miliardi di rotoli) e ogni abitante ne consuma circa quindici chilogrammi all’anno, per un valore totale di oltre otto miliardi di euro: un quarto del consumo mondiale. Sull’intera superficie del pianeta il consumo globale è di circa venti milioni di tonnellate (84 miliardi di rotoli). Il che, tradotto in materia prima, ci dice che ogni anno servono una cinquantina di milioni di tonnellate di legname, corrispondenti a circa 400-500 milioni di alberi di medie dimensioni abbattuti ogni anno (Fonte CONAI).
Se Mr. Gayetty potesse vedere l’effetto che avuto la sua intuizione, sarebbe orgoglioso di se stesso.
Ad ogni modo queste sono cifre impressionanti, e che fanno riflette sulla portata che quest’invenzione ha avuto su tutto l’ecosistema. Da ora in poi, e per il bene della nostra amata Terra, prima di mandare qualcuno a cagare, pensiamoci bene.
martedì 11 dicembre 2012
Contrario alla pubblica decenza
Qualche giorno fa la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna inflitta a una straniera a pagare una multa di seicento euro per essersi aggirata in luogo aperto al pubblico in abiti troppo succinti (sentenza n.47868). A quanto pare la donna era stata sorpresa da un poliziotto “abbigliata in modo da far vedere le parti intime, in particolare il seno e il fondoschiena”.
Secondo i giudici della Suprema Corte tale comportamento concretizza il reato di cui all’articolo 726 del Codice Penale, vale a dire consiste nel “porre in essere atti contrari alla pubblica decenza”. L’articolo in oggetto – continuano i giudici – “tutela i criteri di convivenza e decoro che, se non osservati e rispettati, provocano disgusto e disapprovazione”.
Come ogni sentenza che ha a che fare con l’etica e la morale, anche questo provvedimento ha suscitato diversi strascichi e polemiche. I moralisti benpensanti hanno esultato di gioia essendo stata punita una “spudorata” che se ne andava per la città ledendo impunemente la pubblica decenza; i libertari e gli anarchici invece si sono indignati, sostenendo che nessuno può essere discriminato per il proprio abbigliamento, che in ultima analisi è espressione del proprio modo di essere: “Ognuno ha il diritto di vestirsi come vuole”. Di fronte a tali notizie resto sempre molto confuso e indeciso, perché trovo del buon e del cattivo in ogni posizione. Se non ponessimo alcun confine alla libertà di comportamento, un’asticella oltre la quale non è lecito spingersi, faremmo del bene o del male alla società? La libertà assoluta, sciolta da qualsiasi vincolo e restrizione, è un valore da difendere sempre e comunque, o dobbiamo pensare a qualche limitazione? A sto punto anche andarsene ignudi come gli aborigeni della Papua Nuova Guinea - indossando al massimo una canna pelvica - potrebbe essere non solo ammesso, ma anche tutelato in quanto manifestazione di libertà personale e di pensiero: “Sono per il nudismo integrale e guai a chi mi obbliga ad indossare le mutande”. Ma dall’altra parte, l’idea di obbligare il cittadino ad indossare abiti che non provochino “disgusto e disapprovazione”, dove può condurci? E soprattutto, che cos’è la pubblica decenza, e chi decide cosa sia decente e cosa invece indecente? Esistono forse delle regole astratte, dei criteri a cui rivolgersi quando ci si trova in difficoltà, o dobbiamo stabilire per legge il numero dei centimetri minimi a cui le sartorie devono attenersi? E ancora, perché non redigere un decalogo nel quale inserire tutti i comportamenti ritenuti indecenti e offensivi della morale? Se non altro faremmo un po’ di chiarezza.
Già, ma la morale per sua natura è un concetto così etereo e fluttuante – nello spazio e nel tempo – che sarebbe compito assai complicato arrivare ad un elaborato organico e razionale. Basta pensare, ad esempio, a tutte le polemiche scoppiate sulla proposta di legge “sul fine vita”. Ciò che per qualcuno non solo è auspicabile, ma anche legittimo, per altri è un’aberrazione. Un tempo esisteva il delitto d’onore: l’uomo che scopriva la moglie in flagrante adulterio era autorizzato ad ucciderla. Oggi tutto ciò ci fa inorridire. Per i talebani dell’Afghanistan è pubblica decenza che le donne indossino il burqa, e giustamente noi fremiamo di sdegno di fronte a tali restrizioni. Ma che ne pensano i talebani del nostro mondo, che ne dicono delle nostre donne, quelle rappresentate soprattutto nelle pubblicità? Quale tra i due modi di vedere il mondo è il migliore? I loro, che rinchiude le donne dentro sarcofagi ambulanti, o il nostro che le espone come quarti di bue in macelleria? Che poi a questo punto sorge anche un altro interrogativo: perché i giudici perseguono le donne discinte per strada e non quelle che appaiono tali in televisione? E quelle sulle spiagge? Come si vede, tutto è relativo, oltreché dal sapore vagamente ipocrita. Occorre rendersi conto che la società è in costante evoluzione, e che ciò che ieri era considerato sconcio e reietto, oggi potrebbe essere ben tollerato ed anzi fare “moda e tendenza”. E viceversa. Se non si entra in confidenza con questo concetto, se non si capiscono – e non si accettano – i continui mutamenti dei valori etici e sociali, che regolano la nostra quotidianità, saremo sempre disperatamente alla ricerca di un metro di giudizio che ci dica cos’è “bene” e cos’è “male”. E brancoleremo spaesati nel buio.
E dunque c’è una via d’uscita da questa situazione, c’è un punto di equilibrio tra libertà e idea di decenza condivisa? Probabilmente no. Il problema di fondo risiede nell’essenza stessa della nostra democrazia, nei pilastri del nostro modo di vedere la vita. Avendo posto tra i principi della convivenza il rispetto reciproco della libertà di ogni individuo, abbiamo posto il germe della legittimazione per ogni comportamento che non leda con la violenza la sfera altrui. In altre parole, solo uno stato etico - e dunque totalitario e illiberale - potrebbe arrivare a vietare a priori la manifestazione d’idee, l’espressione di sentimenti, i modi di essere, di comunicare. E quindi anche di vestirsi.
Ma le sentenze della Corte di Cassazione, come si sa, fanno giurisprudenza, e dunque da ora in poi attente donne che andate in giro per strada mettendo in mostra la vostra “mercanzia”. O forse no. E già, perché girando su internet mi sono imbattuto in un’altra sentenza. Questa volta di assoluzione: “Non integra gli estremi di reato di atti contrari alla pubblica decenza il comportamento di una avvocatessa che si sia presentata all’ingresso di un istituto penitenziario in minigonna colore aragosta che copriva parzialmente i glutei nella parte posteriore, mentre nella parte anteriore si intravedeva uno slip di colore nero, e indossando anche una maglietta trasparente dalla quale si notava il seno coperto da un reggiseno che lo lasciava intravedere con chiarezza”. Recita così la sentenza n.9685/1996 con la quale la Corte di Cassazione assolve un’avvocatessa del foro di Bologna, che il primo aprile del 1994 si é presentata al carcere di Parma in abiti succinti, tanto da essere condannata dal pretore a trecento mila lire di ammenda, perché l’abbigliamento era tale da “offendere il comune senso del pudore”. Nel ricorso l’avvocatessa ha posto l’accento su un punto cruciale: il concetto di decenza deve essere giudicato in relazione al tempo in cui si vive. E la sentenza, accogliendo tale principio, ha stabilito che “il giudice non deve essere fustigatore dei costumi, un promotore di campagne moralistiche, ma deve limitarsi ad accertare il sentimento medio della popolazione nel momento storico dato”.
Ma tutto ciò avveniva quasi vent’anni fa: il mondo è cambiato. Purtroppo.
Secondo i giudici della Suprema Corte tale comportamento concretizza il reato di cui all’articolo 726 del Codice Penale, vale a dire consiste nel “porre in essere atti contrari alla pubblica decenza”. L’articolo in oggetto – continuano i giudici – “tutela i criteri di convivenza e decoro che, se non osservati e rispettati, provocano disgusto e disapprovazione”.
Come ogni sentenza che ha a che fare con l’etica e la morale, anche questo provvedimento ha suscitato diversi strascichi e polemiche. I moralisti benpensanti hanno esultato di gioia essendo stata punita una “spudorata” che se ne andava per la città ledendo impunemente la pubblica decenza; i libertari e gli anarchici invece si sono indignati, sostenendo che nessuno può essere discriminato per il proprio abbigliamento, che in ultima analisi è espressione del proprio modo di essere: “Ognuno ha il diritto di vestirsi come vuole”. Di fronte a tali notizie resto sempre molto confuso e indeciso, perché trovo del buon e del cattivo in ogni posizione. Se non ponessimo alcun confine alla libertà di comportamento, un’asticella oltre la quale non è lecito spingersi, faremmo del bene o del male alla società? La libertà assoluta, sciolta da qualsiasi vincolo e restrizione, è un valore da difendere sempre e comunque, o dobbiamo pensare a qualche limitazione? A sto punto anche andarsene ignudi come gli aborigeni della Papua Nuova Guinea - indossando al massimo una canna pelvica - potrebbe essere non solo ammesso, ma anche tutelato in quanto manifestazione di libertà personale e di pensiero: “Sono per il nudismo integrale e guai a chi mi obbliga ad indossare le mutande”. Ma dall’altra parte, l’idea di obbligare il cittadino ad indossare abiti che non provochino “disgusto e disapprovazione”, dove può condurci? E soprattutto, che cos’è la pubblica decenza, e chi decide cosa sia decente e cosa invece indecente? Esistono forse delle regole astratte, dei criteri a cui rivolgersi quando ci si trova in difficoltà, o dobbiamo stabilire per legge il numero dei centimetri minimi a cui le sartorie devono attenersi? E ancora, perché non redigere un decalogo nel quale inserire tutti i comportamenti ritenuti indecenti e offensivi della morale? Se non altro faremmo un po’ di chiarezza.
Già, ma la morale per sua natura è un concetto così etereo e fluttuante – nello spazio e nel tempo – che sarebbe compito assai complicato arrivare ad un elaborato organico e razionale. Basta pensare, ad esempio, a tutte le polemiche scoppiate sulla proposta di legge “sul fine vita”. Ciò che per qualcuno non solo è auspicabile, ma anche legittimo, per altri è un’aberrazione. Un tempo esisteva il delitto d’onore: l’uomo che scopriva la moglie in flagrante adulterio era autorizzato ad ucciderla. Oggi tutto ciò ci fa inorridire. Per i talebani dell’Afghanistan è pubblica decenza che le donne indossino il burqa, e giustamente noi fremiamo di sdegno di fronte a tali restrizioni. Ma che ne pensano i talebani del nostro mondo, che ne dicono delle nostre donne, quelle rappresentate soprattutto nelle pubblicità? Quale tra i due modi di vedere il mondo è il migliore? I loro, che rinchiude le donne dentro sarcofagi ambulanti, o il nostro che le espone come quarti di bue in macelleria? Che poi a questo punto sorge anche un altro interrogativo: perché i giudici perseguono le donne discinte per strada e non quelle che appaiono tali in televisione? E quelle sulle spiagge? Come si vede, tutto è relativo, oltreché dal sapore vagamente ipocrita. Occorre rendersi conto che la società è in costante evoluzione, e che ciò che ieri era considerato sconcio e reietto, oggi potrebbe essere ben tollerato ed anzi fare “moda e tendenza”. E viceversa. Se non si entra in confidenza con questo concetto, se non si capiscono – e non si accettano – i continui mutamenti dei valori etici e sociali, che regolano la nostra quotidianità, saremo sempre disperatamente alla ricerca di un metro di giudizio che ci dica cos’è “bene” e cos’è “male”. E brancoleremo spaesati nel buio.
E dunque c’è una via d’uscita da questa situazione, c’è un punto di equilibrio tra libertà e idea di decenza condivisa? Probabilmente no. Il problema di fondo risiede nell’essenza stessa della nostra democrazia, nei pilastri del nostro modo di vedere la vita. Avendo posto tra i principi della convivenza il rispetto reciproco della libertà di ogni individuo, abbiamo posto il germe della legittimazione per ogni comportamento che non leda con la violenza la sfera altrui. In altre parole, solo uno stato etico - e dunque totalitario e illiberale - potrebbe arrivare a vietare a priori la manifestazione d’idee, l’espressione di sentimenti, i modi di essere, di comunicare. E quindi anche di vestirsi.
Ma le sentenze della Corte di Cassazione, come si sa, fanno giurisprudenza, e dunque da ora in poi attente donne che andate in giro per strada mettendo in mostra la vostra “mercanzia”. O forse no. E già, perché girando su internet mi sono imbattuto in un’altra sentenza. Questa volta di assoluzione: “Non integra gli estremi di reato di atti contrari alla pubblica decenza il comportamento di una avvocatessa che si sia presentata all’ingresso di un istituto penitenziario in minigonna colore aragosta che copriva parzialmente i glutei nella parte posteriore, mentre nella parte anteriore si intravedeva uno slip di colore nero, e indossando anche una maglietta trasparente dalla quale si notava il seno coperto da un reggiseno che lo lasciava intravedere con chiarezza”. Recita così la sentenza n.9685/1996 con la quale la Corte di Cassazione assolve un’avvocatessa del foro di Bologna, che il primo aprile del 1994 si é presentata al carcere di Parma in abiti succinti, tanto da essere condannata dal pretore a trecento mila lire di ammenda, perché l’abbigliamento era tale da “offendere il comune senso del pudore”. Nel ricorso l’avvocatessa ha posto l’accento su un punto cruciale: il concetto di decenza deve essere giudicato in relazione al tempo in cui si vive. E la sentenza, accogliendo tale principio, ha stabilito che “il giudice non deve essere fustigatore dei costumi, un promotore di campagne moralistiche, ma deve limitarsi ad accertare il sentimento medio della popolazione nel momento storico dato”.
Ma tutto ciò avveniva quasi vent’anni fa: il mondo è cambiato. Purtroppo.
lunedì 10 dicembre 2012
Kαιρός, il dio dell’attimo fuggente
“Tra tutte le divinità che i romani veneravano, ce n’era una molto particolare che rappresentò forse al meglio la loro filosofia di vita. Anche a letto. Si chiamava Kairòs. Era la divinità dell’attimo fuggente. […] in un’epoca in cui la vita media per un uomo era di 41 anni e per una donna di 29, per via delle complicazioni del parto, la vita andava vissuta intensamente, cogliendo i frutti più belli, prima che la morte portasse via tutto.
Non bisognava pensare a ieri, non importava il domani, quello che contava era il momento che si stava vivendo: bisognava assaporare e godere tutto ciò che la vita ti regalava. E l’amore, il sesso erano dei regali degli dèi… da acciuffare al volo”.
Si tratta di un passo dell’ultimo libro di Alberto Angela, “Amore e sesso nell’antica Roma” e conclude (o forse no…) la trilogia dedicata alla Roma Imperiale, cominciata con “Una giornata nell’antica Roma” e “Impero – Viaggio nell’antica Roma seguendo una moneta”.
Mi piace molto quello che scrive questo autore, e mi piace la maniera in cui lo scrive. Raramente capita di trovare un figlio d’arte capace di reggere il paragone con il padre, e questa è sicuramente una di queste eccezioni. Ed anzi, se mi è concesso un reato di quasi “lesa maestà”, mi verrebbe da dire che il figlio ha superato il padre. E perché dico questo? Perché trovo che Alberto, a differenza di Piero Angela, oltre a tutto ciò che il padre gli ha trasmesso, vale a dire la professionalità, l’accuratezza dell’indagine, la chiarezza divulgativa e la profondità, ci mette del suo: vale a dire la passione. Passione per la storia. Materia per la quale ho sempre avuto un debole. Ma questo fa parte dei gusti individuale, che, va da sé, sono sempre molto personali. Alberto nasce infatti come paleontologo, e tutte le sue ricerche e indagini, siano esse proposte in televisione o firmate in libri di successo, dimostrano il suo amore incondizionato per la storia. Il quest’ultimo libro, approfondisce l’argomento dell’amore e del sesso nella Roma imperiale, per l’esattezza durante la reggenza di Traiano, momento storico in cui l’espansione dell’impero raggiunge la sua massima estensione. La cosa che colpisce sopra ogni altra, è la diversa visione che avevano i romani verso il sesso e l’amore rispetto a noi. Il matrimonio era un’istituzione di Stato, un obbligo cui ogni cittadino era chiamato ad ottemperare per il bene della Patria. Un dovere supremo finalizzato esclusivamente a dare un figlio all’Impero. Quasi mai dietro al matrimonio vi era vero amore, e nella maggior parte dei casi si trattava di accordi tra famiglie, basati su interessi economici e di prestigio. In altre parole il matrimonio era un’unione di convenienza, senza passione, senza trasporto. Spesso marito e moglie non si conoscevano affatto, e l’uomo aveva quasi sempre un’età molto più avanzata rispetto alla donna: mentre il primo arrivava al matrimonio già maturo, la seconda era condotta in sposa ancora adolescente (12-14 anni). E il talamo nuziale non era luogo di slancio sentimentale, ma quasi una faccenda burocratica da sbrigare per il bene di Roma. L’amore vero, la passione travolgente andava ricercato altrove, con le concubine, le amanti occasionali, le schiave. E ciò non valeva solo per gli uomini. Anche le tanto onorate matrone, spose bambine, cui era stata sottratta con la forza la giovinezza spensierata, giunte all’età matura, si concedevano svaghi e intrattenimenti passionali con spasimanti e amanti occasionali. Tra le prede più ambite, ad esempio, vi erano i gladiatori. Per una notte di sesso con un lottatore dell’arena, le ricche matrone erano disposte a pagare ingenti somme di denaro.
Esisteva in sostanza una doppia morale, pubblica e privata: pudica ed onesta alla luce del sole; libertina e licenziosa nella clandestinità. E tutto ciò era ampiamente tollerato, sia nella vita dell’uomo sia in quella della donna. Era talmente un evento normale il tradimento – rileva Angela – che nella lingua latina non esisteva l’equivalente del nostro termine “cornuto”.
Visto dal nostro punto di osservazione, un matrimonio basato su tali premesse appare ipocrita, oltreché meschino e avvilente. Per noi oggi l’unione tra uomo e donna è il coronamento dell’amore, il desiderio di vivere insieme, di condividere l’esistenza “finché morte non ci separi”. Per i romani no: la vita era troppo breve, troppo incerto il domani per programmare il futuro. E la morte, evento che poteva giungere da un momento all’altro, senza preavviso né senza chiedere permesso, spingeva a godere di ogni attimo come fosse l’ultimo della propria esistenza. Questo fu l’atteggiamento che tennero centinai di generazioni per molti secoli, almeno fino al mille dopo Cristo. Da quest’epoca in poi, e gradualmente, la morale cambiò rotta: sulle orme del Cristianesimo, divenuta religione di Stato già dal 380 d.C., la libertà sessuale, che aveva caratterizzato il mondo romano, cede il passo alle restrizioni etiche di matrice giudaica. E così, di conseguenza, nella società viene instillato il germe della sessuofobia, l’allontanamento da tutto ciò che è piacere terreno (in funzione del piacere ultra-terreno), da ciò che è divertimento, amore, passione. Il sesso diviene un atto impuro, indegno, infetto, e tollerato solo e soltanto in funzione riproduttiva. L’individuo non è fatto per gioire sulla Terra, la felicità non è di questo mondo, e chiunque la ricerca si macchia di gravi peccati, cui dovrà rispondere ad un Dio punitivo e rancoroso. Ed è così che la società, un tempo allegra, spensierata, per nulla timorosa della morte – perché legata a filo doppio con la vita – , si trasforma in un insieme di individui timorosi, repressi, intristiti. La manifestazione dei propri sentimenti viene bandita, ogni agire umano, ogni pensiero, slancio, passione, viene assoggettato al dover rendere conto al castigatore.
E dunque, a conti fatti, chi tra noi e i romani antichi vive meglio? Certo ai nostri tempi non c’è più la schiavitù (almeno a parole…), non si muore più nell’arena per il piacere degli spettatori, né per una banale influenza. Ma siamo davvero sicuri che fosse tutto così sbagliato il loro mondo? Che non ci fosse qualcosa da salvare, e forse da riscoprire.
Quando qualche giorno fa ho avanzato tali interrogativi ad una mia amica, peraltro incinta da qualche mese, ho avuto delle risposte molto piccate. In effetti parlare ad una donna sposata, di come i romani trattavano le loro mogli – ed in un certo senso esaltarne le avventure extra-coniugali – non è stata una buona idea. Infondo però il mio era un modo per stuzzicare il carattere indomito e battagliero della mia amica, per accendere la dialettica. Ma l’effetto dei miei ragionamenti purtroppo è andato oltre ciò che mi prefiggevo. E così ora dovrò rimediare in qualche maniera.
Ad ogni modo, più mi addentro nella mentalità degli antichi, più mi rendo conto della saggezza che c’era a governo del loro modo di vedere il mondo. Tolto tutto ciò che è barbarie di un’epoca remota, lontanissima e disumana per certi aspetti – ricordiamoci che fuori dai confini dell’impero l’uomo viveva pressoché ancora ai tempi della pietra – resta di fondo un concetto, un modo di intendere la vita che dovremmo rifare nostro. Kairòs, il dio dell’attimo fuggente, dovrebbe tornare ad essere al centro della nostra esistenza. Soprattutto ora, epoca in cui il futuro ci appare sempre più fosco e incerto. Se imparassimo ad apprezzare di più il quotidiano, se dessimo più valore al presente e meno a ciò che verrà, forse il futuro ci farebbe meno paura. Senza contare che anche in fatto di amore e sesso ci libereremmo di molti fardelli inutili. Nel film Il ragazzo di campagna, Pozzetto timido ed impacciato si trova improvvisamente a letto con Angela, una donna rampante, moderna e disinibita. Piove intensamente e sul tetto della mansarda si ode un romantico ticchettio. Pozzetto è molto attratto da questa donna, ma viene da un ambiente retrogrado, moralista, perbenista, e quindi preferirebbe prima dichiararsi, presentarla alla famiglia, sposarla e poi prendersi il piacere e la gioia del sesso. E così si trova sul bordo del letto, lontano da Angela ed è molto imbarazzato. Al che lei gli dice: «Sei timido, vero?». Lui annuisce e lei, per “scioglierlo” un po’ gli chiede: «A cosa stai pensando?». Pozzetto si mette una mano sulla fronte pensieroso, sospira profondamente e dopo un lungo momento di riflessione risponde: «Stavo pensando che tutta quest’acqua farà un gran bene alla campagna».
Ecco, direi che forse dovremmo tornare ad occuparci un po’ di più dell’attimo fuggente. Carpe diem.
Non bisognava pensare a ieri, non importava il domani, quello che contava era il momento che si stava vivendo: bisognava assaporare e godere tutto ciò che la vita ti regalava. E l’amore, il sesso erano dei regali degli dèi… da acciuffare al volo”.
Si tratta di un passo dell’ultimo libro di Alberto Angela, “Amore e sesso nell’antica Roma” e conclude (o forse no…) la trilogia dedicata alla Roma Imperiale, cominciata con “Una giornata nell’antica Roma” e “Impero – Viaggio nell’antica Roma seguendo una moneta”.
Mi piace molto quello che scrive questo autore, e mi piace la maniera in cui lo scrive. Raramente capita di trovare un figlio d’arte capace di reggere il paragone con il padre, e questa è sicuramente una di queste eccezioni. Ed anzi, se mi è concesso un reato di quasi “lesa maestà”, mi verrebbe da dire che il figlio ha superato il padre. E perché dico questo? Perché trovo che Alberto, a differenza di Piero Angela, oltre a tutto ciò che il padre gli ha trasmesso, vale a dire la professionalità, l’accuratezza dell’indagine, la chiarezza divulgativa e la profondità, ci mette del suo: vale a dire la passione. Passione per la storia. Materia per la quale ho sempre avuto un debole. Ma questo fa parte dei gusti individuale, che, va da sé, sono sempre molto personali. Alberto nasce infatti come paleontologo, e tutte le sue ricerche e indagini, siano esse proposte in televisione o firmate in libri di successo, dimostrano il suo amore incondizionato per la storia. Il quest’ultimo libro, approfondisce l’argomento dell’amore e del sesso nella Roma imperiale, per l’esattezza durante la reggenza di Traiano, momento storico in cui l’espansione dell’impero raggiunge la sua massima estensione. La cosa che colpisce sopra ogni altra, è la diversa visione che avevano i romani verso il sesso e l’amore rispetto a noi. Il matrimonio era un’istituzione di Stato, un obbligo cui ogni cittadino era chiamato ad ottemperare per il bene della Patria. Un dovere supremo finalizzato esclusivamente a dare un figlio all’Impero. Quasi mai dietro al matrimonio vi era vero amore, e nella maggior parte dei casi si trattava di accordi tra famiglie, basati su interessi economici e di prestigio. In altre parole il matrimonio era un’unione di convenienza, senza passione, senza trasporto. Spesso marito e moglie non si conoscevano affatto, e l’uomo aveva quasi sempre un’età molto più avanzata rispetto alla donna: mentre il primo arrivava al matrimonio già maturo, la seconda era condotta in sposa ancora adolescente (12-14 anni). E il talamo nuziale non era luogo di slancio sentimentale, ma quasi una faccenda burocratica da sbrigare per il bene di Roma. L’amore vero, la passione travolgente andava ricercato altrove, con le concubine, le amanti occasionali, le schiave. E ciò non valeva solo per gli uomini. Anche le tanto onorate matrone, spose bambine, cui era stata sottratta con la forza la giovinezza spensierata, giunte all’età matura, si concedevano svaghi e intrattenimenti passionali con spasimanti e amanti occasionali. Tra le prede più ambite, ad esempio, vi erano i gladiatori. Per una notte di sesso con un lottatore dell’arena, le ricche matrone erano disposte a pagare ingenti somme di denaro.
Esisteva in sostanza una doppia morale, pubblica e privata: pudica ed onesta alla luce del sole; libertina e licenziosa nella clandestinità. E tutto ciò era ampiamente tollerato, sia nella vita dell’uomo sia in quella della donna. Era talmente un evento normale il tradimento – rileva Angela – che nella lingua latina non esisteva l’equivalente del nostro termine “cornuto”.
Visto dal nostro punto di osservazione, un matrimonio basato su tali premesse appare ipocrita, oltreché meschino e avvilente. Per noi oggi l’unione tra uomo e donna è il coronamento dell’amore, il desiderio di vivere insieme, di condividere l’esistenza “finché morte non ci separi”. Per i romani no: la vita era troppo breve, troppo incerto il domani per programmare il futuro. E la morte, evento che poteva giungere da un momento all’altro, senza preavviso né senza chiedere permesso, spingeva a godere di ogni attimo come fosse l’ultimo della propria esistenza. Questo fu l’atteggiamento che tennero centinai di generazioni per molti secoli, almeno fino al mille dopo Cristo. Da quest’epoca in poi, e gradualmente, la morale cambiò rotta: sulle orme del Cristianesimo, divenuta religione di Stato già dal 380 d.C., la libertà sessuale, che aveva caratterizzato il mondo romano, cede il passo alle restrizioni etiche di matrice giudaica. E così, di conseguenza, nella società viene instillato il germe della sessuofobia, l’allontanamento da tutto ciò che è piacere terreno (in funzione del piacere ultra-terreno), da ciò che è divertimento, amore, passione. Il sesso diviene un atto impuro, indegno, infetto, e tollerato solo e soltanto in funzione riproduttiva. L’individuo non è fatto per gioire sulla Terra, la felicità non è di questo mondo, e chiunque la ricerca si macchia di gravi peccati, cui dovrà rispondere ad un Dio punitivo e rancoroso. Ed è così che la società, un tempo allegra, spensierata, per nulla timorosa della morte – perché legata a filo doppio con la vita – , si trasforma in un insieme di individui timorosi, repressi, intristiti. La manifestazione dei propri sentimenti viene bandita, ogni agire umano, ogni pensiero, slancio, passione, viene assoggettato al dover rendere conto al castigatore.
E dunque, a conti fatti, chi tra noi e i romani antichi vive meglio? Certo ai nostri tempi non c’è più la schiavitù (almeno a parole…), non si muore più nell’arena per il piacere degli spettatori, né per una banale influenza. Ma siamo davvero sicuri che fosse tutto così sbagliato il loro mondo? Che non ci fosse qualcosa da salvare, e forse da riscoprire.
Quando qualche giorno fa ho avanzato tali interrogativi ad una mia amica, peraltro incinta da qualche mese, ho avuto delle risposte molto piccate. In effetti parlare ad una donna sposata, di come i romani trattavano le loro mogli – ed in un certo senso esaltarne le avventure extra-coniugali – non è stata una buona idea. Infondo però il mio era un modo per stuzzicare il carattere indomito e battagliero della mia amica, per accendere la dialettica. Ma l’effetto dei miei ragionamenti purtroppo è andato oltre ciò che mi prefiggevo. E così ora dovrò rimediare in qualche maniera.
Ad ogni modo, più mi addentro nella mentalità degli antichi, più mi rendo conto della saggezza che c’era a governo del loro modo di vedere il mondo. Tolto tutto ciò che è barbarie di un’epoca remota, lontanissima e disumana per certi aspetti – ricordiamoci che fuori dai confini dell’impero l’uomo viveva pressoché ancora ai tempi della pietra – resta di fondo un concetto, un modo di intendere la vita che dovremmo rifare nostro. Kairòs, il dio dell’attimo fuggente, dovrebbe tornare ad essere al centro della nostra esistenza. Soprattutto ora, epoca in cui il futuro ci appare sempre più fosco e incerto. Se imparassimo ad apprezzare di più il quotidiano, se dessimo più valore al presente e meno a ciò che verrà, forse il futuro ci farebbe meno paura. Senza contare che anche in fatto di amore e sesso ci libereremmo di molti fardelli inutili. Nel film Il ragazzo di campagna, Pozzetto timido ed impacciato si trova improvvisamente a letto con Angela, una donna rampante, moderna e disinibita. Piove intensamente e sul tetto della mansarda si ode un romantico ticchettio. Pozzetto è molto attratto da questa donna, ma viene da un ambiente retrogrado, moralista, perbenista, e quindi preferirebbe prima dichiararsi, presentarla alla famiglia, sposarla e poi prendersi il piacere e la gioia del sesso. E così si trova sul bordo del letto, lontano da Angela ed è molto imbarazzato. Al che lei gli dice: «Sei timido, vero?». Lui annuisce e lei, per “scioglierlo” un po’ gli chiede: «A cosa stai pensando?». Pozzetto si mette una mano sulla fronte pensieroso, sospira profondamente e dopo un lungo momento di riflessione risponde: «Stavo pensando che tutta quest’acqua farà un gran bene alla campagna».
Ecco, direi che forse dovremmo tornare ad occuparci un po’ di più dell’attimo fuggente. Carpe diem.
sabato 8 dicembre 2012
Una qualsiasi giornata di carità
Oggi il blog pubblica una lettera intensa del nostro carissimo amico Salvo: si tratta di uno splendido resoconto di una qualsiasi giornata da volontario della Caritas.
«Ciao Luì, ti mando due righe su una giornata passata in mensa, per spiegare un pò il mondo del volontariato; se ti va buttala dentro!
Oggi mi hanno messo al bancone degli ingressi in mensa, con l'incarico di controllare le tessere degli ospiti, farli firmare nel registro delle presenze e consegnare loro il buono-pasto.
E' un punto di osservazione privilegiato (per chi come me è curioso degli altri) davanti al quale scorre un’umanità che non t’aspetti, che ti sorprende: tanti italiani - forse la maggioranza, i nuovi poveri di queste crisi - tanti giovani, tante nazionalità che nemmeno te le immagini. E per tutti la dignità nei vestiti, modesti e curati, e dell’aspetto, e la pulizia - per quanto possibile - delle mani che tracciano la firma. E questa è la cosa che mi ha colpito di più, tanta è la cura che mettono - tutti - nello scrivere nome e cognome nella casella del giorno; così confronto la loro attenzione, e il tempo che ci impiegano, alla mia fretta usuale, allo scarabocchio veloce con cui scrivo il mio nome, quasi un fastidio, una formalità, mentre ho l'impressione che forse per loro è un'occasione per tracciare una presenza.. Scorrono nomi importanti: Vissani, Staiano, Di Pietro.. e luoghi di nascita che mi fanno riflettere: Giovanni, nato a Milano, Anna, nata a Pavia... cosa mai li avrà spinti a lasciare le loro città per finire la loro esistenza alla Caritas di Roma? Tanti Mohamed, tanti uomini ben messi, come quel ragazzo nero alto e sorridente con le cuffie sulle orecchie (mica gli auricolari!) e il giaccone The North Face, o quell'altro col cappellino di pajettes oro e rosse luccicanti... o quella signora coi capelli sciolti, lucidi e lunghissimi (più di un metro, mai visti così) tanto che Paola, la mia "collega", non può fare a meno di chiederle: "ma come fai a tenerli puliti?".. Poi ne arriva una vestita di nero, una col cappellino nero che sembra un uccellino e Paola - che la conosce - le porge il registro e le fa: "come mai così tardi oggi?" e lei: "sono passata da mia figlia, a vedere il mio nipotino... poi ci torno!".. Ma come - penso io - ha una figlia e viene qui a mangiare? Ma come si fa a mandare la propria madre alla mensa dei poveri? Boh. All’una e mezza si chiudono le porte (oggi ne sono entrati 506) e mentre loro finiscono di mangiare per noi è tempo di cominciare le pulizie: i pavimenti, le sedie e i tavoli, i vassoi e le brocche dell'acqua - che oggi la lavatrice è rotta - veloci che sta venendo fame anche a noi e non ci dispiace mangiare, insieme, quello che è rimasto in cucina alle tre di pomeriggio: minestra un po’ scotta, purèe e due mandarini. E due chiacchiere fra noi, che cominciamo a conoscerci».
«Ciao Luì, ti mando due righe su una giornata passata in mensa, per spiegare un pò il mondo del volontariato; se ti va buttala dentro!
Oggi mi hanno messo al bancone degli ingressi in mensa, con l'incarico di controllare le tessere degli ospiti, farli firmare nel registro delle presenze e consegnare loro il buono-pasto.
E' un punto di osservazione privilegiato (per chi come me è curioso degli altri) davanti al quale scorre un’umanità che non t’aspetti, che ti sorprende: tanti italiani - forse la maggioranza, i nuovi poveri di queste crisi - tanti giovani, tante nazionalità che nemmeno te le immagini. E per tutti la dignità nei vestiti, modesti e curati, e dell’aspetto, e la pulizia - per quanto possibile - delle mani che tracciano la firma. E questa è la cosa che mi ha colpito di più, tanta è la cura che mettono - tutti - nello scrivere nome e cognome nella casella del giorno; così confronto la loro attenzione, e il tempo che ci impiegano, alla mia fretta usuale, allo scarabocchio veloce con cui scrivo il mio nome, quasi un fastidio, una formalità, mentre ho l'impressione che forse per loro è un'occasione per tracciare una presenza.. Scorrono nomi importanti: Vissani, Staiano, Di Pietro.. e luoghi di nascita che mi fanno riflettere: Giovanni, nato a Milano, Anna, nata a Pavia... cosa mai li avrà spinti a lasciare le loro città per finire la loro esistenza alla Caritas di Roma? Tanti Mohamed, tanti uomini ben messi, come quel ragazzo nero alto e sorridente con le cuffie sulle orecchie (mica gli auricolari!) e il giaccone The North Face, o quell'altro col cappellino di pajettes oro e rosse luccicanti... o quella signora coi capelli sciolti, lucidi e lunghissimi (più di un metro, mai visti così) tanto che Paola, la mia "collega", non può fare a meno di chiederle: "ma come fai a tenerli puliti?".. Poi ne arriva una vestita di nero, una col cappellino nero che sembra un uccellino e Paola - che la conosce - le porge il registro e le fa: "come mai così tardi oggi?" e lei: "sono passata da mia figlia, a vedere il mio nipotino... poi ci torno!".. Ma come - penso io - ha una figlia e viene qui a mangiare? Ma come si fa a mandare la propria madre alla mensa dei poveri? Boh. All’una e mezza si chiudono le porte (oggi ne sono entrati 506) e mentre loro finiscono di mangiare per noi è tempo di cominciare le pulizie: i pavimenti, le sedie e i tavoli, i vassoi e le brocche dell'acqua - che oggi la lavatrice è rotta - veloci che sta venendo fame anche a noi e non ci dispiace mangiare, insieme, quello che è rimasto in cucina alle tre di pomeriggio: minestra un po’ scotta, purèe e due mandarini. E due chiacchiere fra noi, che cominciamo a conoscerci».
venerdì 7 dicembre 2012
Lui è peggio di me...
Qualche tempo fa, durante un viaggio in treno, capitai per caso di fronte ad una ragazza che parlava del marito con un altro tizio, forse un suo collega. Raccontava, senza pudore, ed anzi carica di ironia e sarcasmo, di quanti e quali dolori articolari soffrisse il poveretto. E più ne descriveva e ancor più ne rideva, quasi da buttarsi via. E darle retta il poveretto doveva essere conciato davvero male: sciatica lombare, cervicale cronica, mialgia muscolare etc…
Io provavo a non ascoltare, ma quelle storie avevano un non so che di estremamente ridicolo e quindi interessante: chissà perché sulle disgrazie umane - vedi la classica caduta accidentale per strada - si sono sempre create delle epopee tragicomiche? La mente umana è davvero singolare. Oltretutto la ragazza che raccontava - decisamente una bella ragazza - era abbigliata in maniera così minimal da lasciar poco spazio alla fantasia. Il culmine l’ha raggiunto quando ha ricordato di una domenica mattina: entrando in cucina pare che abbia visto il marito in pigiama accartocciato sul tavolo e gli abbia detto: «Ma Carlo, cos’hai, stai pensando ai nostri debiti?». Devo riconoscere che a queste parole anch’io sono scoppiato a ridere. Nessuno si tratteneva più ed in quel clima lugubre da treno di deportati, si è sparsa una ventata benefica di buonumore. Quella facezia ha innescato all’istante altri ragionamenti e altre critiche feroci da parte di uomini e donne nei confronti dei rispettivi coniugi assenti. Ovunque mi voltassi c’erano voci sarcastiche che raccontavano: «Dovresti sentire come russa il mio adorato maritino: un trombone dell’orchestra Verdi farebbe meno chiasso…». «Ah si, perché non hai sentito mia moglie: l’altra notte sono stato costretto ad andare a dormire in soggiorno… e la sentivo pure da là: ho dovuto tirare una scarpa nel muro…». «E poi dovresti vedere come sbraita quella pazza se non rifaccio i letti al mattino…». «Per non parlare di quella ciofeca di caffè che mi porta a letto appena sveglio: mi verrebbe voglia di tirarglielo dietro, a lei e a quella rompicoglioni della madre». «Ah no guarda, non apriamo il capitolo suocera, ti prego: vorrei arrivare a lavoro senza un attacco di bile, se possibile».
Era tutto uno sfogo virulento, irridente ed irriverente. Verrebbe da chiedersi come fa la nostra società a reggersi ancora sul primato del matrimonio.
In ogni rapporto umano vi sono specifici comportamenti, modi di esprimersi, abitudini, che possono generare insofferenza, fastidio e risentimento, ma a quanto pare nel rapporto di coppia vi sarebbero alcune fattispecie di condotte particolari e ricorrenti - e ritenute difetti - , che si ripresentano a qualsiasi latitudine del globo terracqueo. Almeno stando agli studi condotti da Allan e Barbara Pease, due psicoterapeuti australiani, esperti di comunicazione e linguaggio del corpo, (autori tra l’altro di best seller come “Perché gli uomini non ascoltano e le donne non sanno consultare una mappa stradale?”, “Perché gli uomini mentono e le donne piangono?” e “Perché gli uomini lasciano sempre alzata l'asse del water e le donne occupano il bagno per ore?”). Nella ricerca i due scienziati hanno classificato i “sette peccati” più gravi che la donna rimprovera al partner. Andiamo ad analizzarli uno per uno. Il primo, quello che più fa infuriare mogli, compagne e conviventi, è quello di “dare consigli non richiesti in casa”. Soprattutto in fatto di cucina, mi permetterei di aggiungere. So di mariti pugnalati con coltellacci da pesce, perché scoperti in flagrante ad infilare una salsiccetta nel ragù fatto alla moda di “mia madre”.
Al secondo posto si classifica “fa continuamente zapping”. In effetti questo è uno dei drammi più spaventevoli della nostra società moderna, e in quasi tutte le famiglie si registrano quotidianamente liti furibonde e zuffe feroci, con tanto di unghiate negli occhi e calci con rincorsa nei testicoli. A quanto ci consta, il “telecomando-dipendente” che detiene a tutt’oggi il record imbattuto di cambi di canale è il Ragioniere Ugo Fantozzi: 380 cambi di canale in 26 secondi netti. Restando in tema di citazioni dotte, come dimenticare poi l’esimio Renzo Arbore: “Tu nella vita comandi fino a quando/hai stretto in mano il tuo telecomando”.
Sulla piazza d’onore invece si colloca un altro comportamento assai indigesto: “non vuole chiedere mai informazioni, neanche quando perde la strada”. Quante volte ho visto i miei litigare per questo futile motivo: mia madre sempre pronta a chiedere qualunque cosa, fiduciosa e aperta verso il prossimo; mio padre invece chiuso nel suo orgoglio di uomo del sud, abituato a fare da se, in qualsiasi occasione. Una volta si trovavano a Verona, e a nessuno dei due veniva in mente il nome del fiume che attraversa la città. Mia madre, nonostante il marito le dicesse di non chiedere, fermò una signora e le chiede: «Mi scusi, che fiume è questo?». E quella rispose con dura espressione teutonica: «Atice, qvesto essere fiume Atige». Mio padre concluse: «Ecco, te l’avevo detto: hai visto che bella figura di merda…!».
Al quarto posto troviamo “lascia il bagno in disordine”. Ed in effetti questo è davvero un rimprovero sul quale noi uomini dovremmo riflettere e contristarci non poco: ci vuole tanto ad abbassare quella dannatissima tavoletta del cesso? Cosa ci costa? E poi un minimo d’attenzione quando si usano i sanitari…! Una volta lessi un cartello nel bagno di un ristorante: “Attenzione prego, signori uomini: quello che avete in mano non è un idrante, e per terra non c’è un incendio da spegnere”.
Alla quinta piazza troviamo “odia lo shopping”. In questo caso però mi sento di spezzare una lancia a favore del mio genere d’appartenenza: le donne e lo shopping, associate in un giorno semi-festivo, sono tra le calamità più devastanti mai registrate nella storia dell’umanità. Ancor peggio delle piaghe d’Egitto. So di amici costretti a passare tutti i sabati pomeriggio presso mostruosi e affollatissimi ipermercati, a guinzaglio della moglie, impegnata nell’improbabile ricerca dell’abitino carino, economico e che le stia bene. Dalle ultime stime pervenuteci pare che il 50% di questi disgraziati vadano incontro a disturbi bipolari, già a partire dal terzo sabato di visite consecutive a questo girone di dannati.
In fondo alla classifica troviamo “ha manie disgustose” e “dice parolacce”. A sorpresa restano fuori dalla top seven l’egoismo (“pensi sempre e solo a te stesso…”), la superficialità (“ma come fai a non apprezzare Sette sfumature di grigio…? Sei proprio gretto e superficiale”), l’incapacità di comprendere i sentimenti (“non so se fai finta di non capire…, o se proprio non riesci…”) e soprattutto la cosiddetta mammosità (“basta…, non ne posso più di sentirti parlare di tua madre: fai i bagagli e tornatene da lei…”).
E per gli uomini, quali sono i difetti peggiori delle donne? Al primo posto, con un margine enorme, c’è la gelosia. Considerata maniacale, asfissiante e assurda nella maggior parte dei casi. D’altra parte si sa, la donna è possessiva, e basta un semplice sguardo “marpionesco” del suo uomo verso un’occasionale passante per scatenare il putiferio. Il fatto è che la donna non capisce che l’uomo è sì cacciatore, ma è pure un fanciullino nell’animo, sempre pronto a giocare, a scherzare, soprattutto sul piccante rapporto uomo-donna. Ma non c’è niente da fare: la donna è quasi completamente priva di humour per natura, e dunque occorre rassegnarsi.
Tra gli altri comportamenti femminili insopportabili si possono poi annoverare l’invadenza (“e forza, dimmi chi ti ha chiamato…, fammi leggere l’ultimo messaggio…”), l’altezzosità, l’introversione, l’aggressività, la petulanza, l’invidia, le manie per lo shopping e la linea e per finire l’ordine. C’è da prendere paura solo a leggerla una lista del genere.
Da quest’elenco di difetti, e ragionando per deduzione, ne viene fuori un uomo saturo, al limite della sopportazione. Egli vorrebbe una donna capace di seguirlo e sostenerlo con discrezione, ma al contrario si ritrova una specie di arpia invadente e aggressiva che, in molti casi, si sostituisce alla figura della madre. Forse aveva ragione mio nonno quando, tra lo scetticismo dei falsi moralisti, sosteneva: “Ricordati, la prima pugnalata ti arriverà da tua moglie…”. Ma molti uomini indubbiamente meritano ciò che hanno; altri ne hanno addirittura bisogno. In ogni caso spesso il comportamento di una persona è semplicemente una reazione ad un’azione non gradita. Una ripicca: «Mi hai trascinato a cena da quei rompicoglioni dei tuoi, ora tu vieni con me alla Rinascente». Peccato che poi si oda un tuono lontano: il poveretto che si è tirato una revolverata. Bisognerebbe che ognuno di noi avesse ben chiaro nella propria testa che le passioni, le idee e le ambizioni altrui - che nella sostanza sono il modo in cui si esprime il nostro animo, la nostra essenza - andrebbero sempre e in ogni caso rispettate. Non ci vuole molto: basterebbe solo un briciolo di tolleranza e una buona disponibilità al compromesso. In fondo la vita stessa è un compromesso. Così come occorrerebbe rendersi conto che il dialogo è il fondamento della convivenza. Ma purtroppo talvolta tutto ciò non è né facile da intendere, né da accettare e praticare.
Ecco perché Alberto Sordi alla domanda ma perché non ti sposi? rispondeva: «Ma che sei pazzo, e che mi metto un’estranea in casa».
Io provavo a non ascoltare, ma quelle storie avevano un non so che di estremamente ridicolo e quindi interessante: chissà perché sulle disgrazie umane - vedi la classica caduta accidentale per strada - si sono sempre create delle epopee tragicomiche? La mente umana è davvero singolare. Oltretutto la ragazza che raccontava - decisamente una bella ragazza - era abbigliata in maniera così minimal da lasciar poco spazio alla fantasia. Il culmine l’ha raggiunto quando ha ricordato di una domenica mattina: entrando in cucina pare che abbia visto il marito in pigiama accartocciato sul tavolo e gli abbia detto: «Ma Carlo, cos’hai, stai pensando ai nostri debiti?». Devo riconoscere che a queste parole anch’io sono scoppiato a ridere. Nessuno si tratteneva più ed in quel clima lugubre da treno di deportati, si è sparsa una ventata benefica di buonumore. Quella facezia ha innescato all’istante altri ragionamenti e altre critiche feroci da parte di uomini e donne nei confronti dei rispettivi coniugi assenti. Ovunque mi voltassi c’erano voci sarcastiche che raccontavano: «Dovresti sentire come russa il mio adorato maritino: un trombone dell’orchestra Verdi farebbe meno chiasso…». «Ah si, perché non hai sentito mia moglie: l’altra notte sono stato costretto ad andare a dormire in soggiorno… e la sentivo pure da là: ho dovuto tirare una scarpa nel muro…». «E poi dovresti vedere come sbraita quella pazza se non rifaccio i letti al mattino…». «Per non parlare di quella ciofeca di caffè che mi porta a letto appena sveglio: mi verrebbe voglia di tirarglielo dietro, a lei e a quella rompicoglioni della madre». «Ah no guarda, non apriamo il capitolo suocera, ti prego: vorrei arrivare a lavoro senza un attacco di bile, se possibile».
Era tutto uno sfogo virulento, irridente ed irriverente. Verrebbe da chiedersi come fa la nostra società a reggersi ancora sul primato del matrimonio.
In ogni rapporto umano vi sono specifici comportamenti, modi di esprimersi, abitudini, che possono generare insofferenza, fastidio e risentimento, ma a quanto pare nel rapporto di coppia vi sarebbero alcune fattispecie di condotte particolari e ricorrenti - e ritenute difetti - , che si ripresentano a qualsiasi latitudine del globo terracqueo. Almeno stando agli studi condotti da Allan e Barbara Pease, due psicoterapeuti australiani, esperti di comunicazione e linguaggio del corpo, (autori tra l’altro di best seller come “Perché gli uomini non ascoltano e le donne non sanno consultare una mappa stradale?”, “Perché gli uomini mentono e le donne piangono?” e “Perché gli uomini lasciano sempre alzata l'asse del water e le donne occupano il bagno per ore?”). Nella ricerca i due scienziati hanno classificato i “sette peccati” più gravi che la donna rimprovera al partner. Andiamo ad analizzarli uno per uno. Il primo, quello che più fa infuriare mogli, compagne e conviventi, è quello di “dare consigli non richiesti in casa”. Soprattutto in fatto di cucina, mi permetterei di aggiungere. So di mariti pugnalati con coltellacci da pesce, perché scoperti in flagrante ad infilare una salsiccetta nel ragù fatto alla moda di “mia madre”.
Al secondo posto si classifica “fa continuamente zapping”. In effetti questo è uno dei drammi più spaventevoli della nostra società moderna, e in quasi tutte le famiglie si registrano quotidianamente liti furibonde e zuffe feroci, con tanto di unghiate negli occhi e calci con rincorsa nei testicoli. A quanto ci consta, il “telecomando-dipendente” che detiene a tutt’oggi il record imbattuto di cambi di canale è il Ragioniere Ugo Fantozzi: 380 cambi di canale in 26 secondi netti. Restando in tema di citazioni dotte, come dimenticare poi l’esimio Renzo Arbore: “Tu nella vita comandi fino a quando/hai stretto in mano il tuo telecomando”.
Sulla piazza d’onore invece si colloca un altro comportamento assai indigesto: “non vuole chiedere mai informazioni, neanche quando perde la strada”. Quante volte ho visto i miei litigare per questo futile motivo: mia madre sempre pronta a chiedere qualunque cosa, fiduciosa e aperta verso il prossimo; mio padre invece chiuso nel suo orgoglio di uomo del sud, abituato a fare da se, in qualsiasi occasione. Una volta si trovavano a Verona, e a nessuno dei due veniva in mente il nome del fiume che attraversa la città. Mia madre, nonostante il marito le dicesse di non chiedere, fermò una signora e le chiede: «Mi scusi, che fiume è questo?». E quella rispose con dura espressione teutonica: «Atice, qvesto essere fiume Atige». Mio padre concluse: «Ecco, te l’avevo detto: hai visto che bella figura di merda…!».
Al quarto posto troviamo “lascia il bagno in disordine”. Ed in effetti questo è davvero un rimprovero sul quale noi uomini dovremmo riflettere e contristarci non poco: ci vuole tanto ad abbassare quella dannatissima tavoletta del cesso? Cosa ci costa? E poi un minimo d’attenzione quando si usano i sanitari…! Una volta lessi un cartello nel bagno di un ristorante: “Attenzione prego, signori uomini: quello che avete in mano non è un idrante, e per terra non c’è un incendio da spegnere”.
Alla quinta piazza troviamo “odia lo shopping”. In questo caso però mi sento di spezzare una lancia a favore del mio genere d’appartenenza: le donne e lo shopping, associate in un giorno semi-festivo, sono tra le calamità più devastanti mai registrate nella storia dell’umanità. Ancor peggio delle piaghe d’Egitto. So di amici costretti a passare tutti i sabati pomeriggio presso mostruosi e affollatissimi ipermercati, a guinzaglio della moglie, impegnata nell’improbabile ricerca dell’abitino carino, economico e che le stia bene. Dalle ultime stime pervenuteci pare che il 50% di questi disgraziati vadano incontro a disturbi bipolari, già a partire dal terzo sabato di visite consecutive a questo girone di dannati.
In fondo alla classifica troviamo “ha manie disgustose” e “dice parolacce”. A sorpresa restano fuori dalla top seven l’egoismo (“pensi sempre e solo a te stesso…”), la superficialità (“ma come fai a non apprezzare Sette sfumature di grigio…? Sei proprio gretto e superficiale”), l’incapacità di comprendere i sentimenti (“non so se fai finta di non capire…, o se proprio non riesci…”) e soprattutto la cosiddetta mammosità (“basta…, non ne posso più di sentirti parlare di tua madre: fai i bagagli e tornatene da lei…”).
E per gli uomini, quali sono i difetti peggiori delle donne? Al primo posto, con un margine enorme, c’è la gelosia. Considerata maniacale, asfissiante e assurda nella maggior parte dei casi. D’altra parte si sa, la donna è possessiva, e basta un semplice sguardo “marpionesco” del suo uomo verso un’occasionale passante per scatenare il putiferio. Il fatto è che la donna non capisce che l’uomo è sì cacciatore, ma è pure un fanciullino nell’animo, sempre pronto a giocare, a scherzare, soprattutto sul piccante rapporto uomo-donna. Ma non c’è niente da fare: la donna è quasi completamente priva di humour per natura, e dunque occorre rassegnarsi.
Tra gli altri comportamenti femminili insopportabili si possono poi annoverare l’invadenza (“e forza, dimmi chi ti ha chiamato…, fammi leggere l’ultimo messaggio…”), l’altezzosità, l’introversione, l’aggressività, la petulanza, l’invidia, le manie per lo shopping e la linea e per finire l’ordine. C’è da prendere paura solo a leggerla una lista del genere.
Da quest’elenco di difetti, e ragionando per deduzione, ne viene fuori un uomo saturo, al limite della sopportazione. Egli vorrebbe una donna capace di seguirlo e sostenerlo con discrezione, ma al contrario si ritrova una specie di arpia invadente e aggressiva che, in molti casi, si sostituisce alla figura della madre. Forse aveva ragione mio nonno quando, tra lo scetticismo dei falsi moralisti, sosteneva: “Ricordati, la prima pugnalata ti arriverà da tua moglie…”. Ma molti uomini indubbiamente meritano ciò che hanno; altri ne hanno addirittura bisogno. In ogni caso spesso il comportamento di una persona è semplicemente una reazione ad un’azione non gradita. Una ripicca: «Mi hai trascinato a cena da quei rompicoglioni dei tuoi, ora tu vieni con me alla Rinascente». Peccato che poi si oda un tuono lontano: il poveretto che si è tirato una revolverata. Bisognerebbe che ognuno di noi avesse ben chiaro nella propria testa che le passioni, le idee e le ambizioni altrui - che nella sostanza sono il modo in cui si esprime il nostro animo, la nostra essenza - andrebbero sempre e in ogni caso rispettate. Non ci vuole molto: basterebbe solo un briciolo di tolleranza e una buona disponibilità al compromesso. In fondo la vita stessa è un compromesso. Così come occorrerebbe rendersi conto che il dialogo è il fondamento della convivenza. Ma purtroppo talvolta tutto ciò non è né facile da intendere, né da accettare e praticare.
Ecco perché Alberto Sordi alla domanda ma perché non ti sposi? rispondeva: «Ma che sei pazzo, e che mi metto un’estranea in casa».
Iscriviti a:
Post (Atom)