Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

martedì 20 novembre 2012

Una risposta spiazzante

Un paio di settimane fa sono andato a cena con una ex-collega. Non ci vedevamo da oltre dieci anni, vale a dire dai tempi in cui fui espulso dalla società per la quale lavoravo - e sì, già a quei tempi ero un gran bel farabutto - . Si trattava di una cooperativa che impiegava personale per la fiera di Milano e non solo. Ci occupavamo di accoglienza, ricevimento, e sorveglianza in occasione delle manifestazioni che si svolgevano durante l’anno. Fu il mio primo lavoro, e sebbene non fosse il massimo cui potessi aspirare, rimane nella mia mente e nei miei ricordi, come una delle esperienze più belle che abbia mai fatto. Anche perché si protrasse per diversi anni, e non si resta in un certo posto così a lungo se non piace e ci si trova bene.
In effetti era un ambiente giovane – i soci-lavoratori erano perlopiù studenti universitari – e il lavoro era sì lavoro, ma era anche un po’ divertimento. E le giornate poi, soprattutto se si ricopriva la qualifica di “coordinatore” qual’ero io, volavano letteralmente, visto e considerato che si era sempre in movimento, si conoscevano decine di persone ogni giorno, si legavano relazioni intense con i colleghi. Quando poi c’erano manifestazioni come il Salone Internazionale del Ciclo e Motociclo anche l’occhio aveva il suo bel tornaconto: “Donne e motori…, gioie e dolori”. Più gioie naturalmente: mai visto tante belle ragazze concentrate tutte insieme, neanche durante la Settimana della Moda. E così quelle giornate volavano via senza quasi accorgersene, a volte lavorando da buio a buio. Certo la faccenda cambiava se invece di essere un coordinatore del servizio ti trovavi a presidiare un’uscita di emergenza: lì la noia e la monotonia potevano anche condurre un soggetto poco equilibrato verso propositi sconsiderati e insani. Pare che lì sia nata per la prima volta l’idea del bungee jumping senza corda. Ed infatti, dialogando appunto con questa mia collega, è venuto fuori proprio questo diverso punto di vista. A dirla tutta la figura del “coordinatore”, nonostante all’epoca mi ostinassimo a considerarla un insieme di responsabilità e nulla più, era effettivamente un privilegio inestimabile rispetto a tutto il resto del personale. «Non sai quanto vi odiavamo – diceva Tamara fissandomi con uno sguardo tra il serio e il faceto - , potevano passare ore intere senza che nessuno vi vedesse…, ma dove diavolo vi andavate a cacciare?». Ogni mattina i coordinatori trovavamo una lista di persone incaricate di determinati servizi, e da quel momento in poi, tutto ciò che accadeva nel bene e nel male, in una determinata zona della fiera, ricadeva sotto la responsabilità loro: logistica, standard lavorativi, sostituzioni, pause pranzo e tutto il resto. Il coordinatore inoltre sostituiva materialmente i lavoratori per delle brevi pause che consentissero l’espletazione dei più elementari bisogni fisiologici. Come in ogni ambiente lavorativo c’erano elementi buoni ed altri cattivi. Anzi pessimi. E la categoria dei coordinatori non si sottraeva a questa regola. Alcuni erano davvero dei farabutti, facevano un giro rapidissimo tra le varie postazioni del personale loro assegnato, e senza neanche fermarsi a dire una parola, sparivano per ore intere, rendendosi assolutamente irreperibili. Dove andassero lo sapevo benissimo: il bar era il loro naturale ritrovo…! A dire il vero anch’io di tanto in tanto mi imboscavo, ma non era quello il mio piacere più grande. Io amavo incontrare persone, parlare con loro, sapere le loro storie. Sono sempre stato così, fin da piccolo, e quel lavoro mi consentiva di dar sfogo a questa smania di conoscenza. E di certo stando seduti al bar non si sarebbe conosciuta tutta quell’umanità: al massimo si faceva amicizia con la fiasca e qualche ubriacone. Ad ogni modo una volta capitò che il nostro personale fosse impegnato nei padiglioni nuovi del Portello. Era una delle prime volte che una manifestazione si svolgeva in quell’ambito, e la logistica era ancora di là dall’essere messa completamente a punto. C’erano più di un centinaio di addetti e i coordinatori circa una decina. Cercammo fin dal primo momento di suddividerci i compiti come meglio potevamo, facendo affidamento sulla nostra esperienza. Molto tuttavia restava legato l’improvvisazione. E così, intorno ad un tavolino mettemmo giù il piano operativo: «Allora, statemi bene a sentire, dobbiamo cercare di interagire, ognuno di noi si prenderà in carico un’area…, lasciate stare le liste del personale, pensate ai settori». «Esatto, sono perfettamente d’accordo: le liste sono fatte male, gli uomini sono sparpagliati in aree troppo distanti…, non è fattibile dar retta a schemi fissi. Dall’ufficio non hanno idea di cosa siano questi nuovi padiglioni…». «Giusto: l’unica cosa da fare è questa: Giovanni, tu prenderai in carico il primo livello, fino alla Torre Colleoni; tu Andrea parti dal Timpano e arrivi fino alla balconata Teodorico; Fabio, tu invece ti fai il resto, fino all’ingresso Scarampo…». E così, raggiunto un accordo di massima la manifestazione sembrò veleggiare verso acque tranquille. Per tutta la giornata comunque ci fu la necessità di sistemare qualcosa, di modificare qualche area di competenza, di rifinire dei dettagli. Ma nel complesso la giornata trascorse senza grosse difficoltà. Giunti a sera il personale cominciò a smontare dalle postazioni. I coordinatori attendevano presso il gabbiotto d’uscita che tutti passassero a timbrare il cartellino, così da spuntarli ed avere la certezza che non ci fosse più nessuno in giro. Verso le otto di sera non c’era praticamente più nessuno ed anche io e il mio collega Massimo, stanchissimi ma soddisfatti, ci preparavamo a smontare. Ad un tratto da una porta lontana saltò fuori uno dei nostri uomini. Da lontano non riuscivamo a intuire chi fosse. Ci guardammo in faccia e all’unisono ce ne uscimmo con una frase di tenore oxfordiano: «E questo chi cazzo è…?». E mentre ci veniva incontro costui, con il suo passo dondolante ed il volto che si contorceva in smorfie assai particolari, capimmo di chi si trattava. Era costui un personaggio alquanto singolare, poco più che trentenne, un tantino fuori di testa, ed era considerato da tutti il decano degli ascensoristi: una vita intera dedicata con grande abnegazione alla conduzione di elevatori, montacarichi, ascensori piccoli, medi, o anche giganteschi, di quelli che portavano su i tir. «Porca troia… - disse Massimo - , ma chi è che aveva in carico sto poveretto? Vuoi vedere che era nella mia lista?». «E no eh…, non me lo dire neanche per scherzo…, questo tizio è sicuramente qui dall’alba…!». «E sì, eccolo qua…, è segnato sull’ascensore numero 59. Cazzarola…, questo vuol dire che non ha visto nessuno per tutta la giornata…». «Quattordici ore senza neanche andare a pisciare…! Avrà la vescica gonfia come un canotto…». «Mi dispiace sai…, ma con sto casino di oggi…, me lo sono completamente perso. E poi non era mica di competenza di Andrea?». «Boh…, non ci capisco più niente… Ed ora come ne veniamo fuori, che gli diciamo…, come ci giustifichiamo?». «Dai retta a me, facciamo finta di niente: lascia che parli io». Il poveretto ci raggiunse, aveva una faccia stralunata, i capelli scompigliati, faceva dei versi strani e sembrava che parlasse con se stesso. Massimo mi guardò e lasciò partire una smorfia che tratteneva malamente una risata. Non riuscii a reggere e dovetti far finta che mi fosse caduta la penna per non esplodergli in faccia. A quel punto Massimo si ricompose e come nulla fosse disse: «Oh buonasera signor Petazzi. Da dove arriva di bello?». Al che il tipo lanciò uno sguardo verso l’alto, come a cercare una risposta alla quadratura del cerchio, ed esclamò con molta convinzione: «Petazzi…, Petazzi». Massimo mi guardò ancora…, gli occhi sgranati…, gli angoli della bocca protesi verso il basso e le gote gonfie da trombettista: ultimo disperatissimo tentativo di restare serio. Fu un attimo, scoppiammo a ridere come due idioti fatti e finiti.
E così, quando ho terminato di raccontare questo episodio a Tamara, lei mi ha guardato e sorridendo mi ha detto: «Che stronzi…». E le ho dato ragione.

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