«E la maestra, ti capita di rivederla?».
«Si, di tanto in tanto la vedo. E ora cammina anche meglio: non porta neanche più il bastone».
«Bei tempi e che meraviglia di scuola. Avevamo anche le palestre, te le ricordi?».
«Si, e poi tutto quel verde ben curato…, e la ricreazione? Rammenti quel signore che portava frutta e panini? Altro che le merendine all’uranio impoverito e gli snack fatti con gli avanzi di topi morti. Non ci mancava nulla. Peccato che ormai…».
«Peccato cosa?».
«Ah già, ma tu non sai niente: la nostra scuola…».
«La nostra scuola cosa…?».
«Beh non esiste più…! O meglio esiste, ma non ci sono più dentro i bambini. Ora l’interno edificio è diventato un gerontocomio. Si insomma, una casa di riposo, una specie di “residence anni azzurri”».
«Nooo, non è possibile…! Non ci credo. Ma com’è potuto succedere? Ma se quando eravamo piccoli quella scuola era affollatissima…, ogni classe aveva almeno trenta alunni…! Che tragedia».
«E beh, sai come vanno le cose…, ormai nessuno più fa figli…, e quindi…».
«E sì, è triste ammetterlo, ma è proprio così. Però, ora che ci penso, non tutti i mali vengono per nuocere…».
«Cosa vorresti dire?».
«Stavo pensando che noi abbiamo cominciato in quella scuola il nostro cammino…, quando ci avvicineremo alla fine…, beh abbiamo un posto dove tornare: dalla culla alla tomba. Così chiudiamo il cerchio…!».
«A no, questo no: alla mia vecchiaia ci penserà la mia bella famigliola…».
«Ah sì, ne sei proprio sicuro? Sei proprio certo che troverai in casa qualcuno che ti prepari tutte le sere il semolino, ti dia lo sciroppone prima di coricarti e ti cambi il pannolone? Ad ogni modo io mi porto avanti: meglio essere previdenti. Proverò a rintracciare il bidello, Briguglio. Te lo ricordi?».
«È morto venticinque anni fa…».
Qualche tempo fa così conversavo in chat con un vecchio amico delle scuole elementari. Avendo lasciato neanche ventenne la città in cui ero nato e vissuto, avevo perso il contatto con quella realtà. Realtà che chiaramente era mutata, si era evoluto, distaccandosi anche notevolmente da quella che avevo vissuto io. E così, attraverso quei vecchi-nuovi contatti via web, riuscivo a ricostruire gli avvenimenti e a riempire i vuoti di quel passato. La mia cara, amatissima scuola “Anna Frank” non raccoglieva più i bimbi del quartiere Rondinella, la chiassosa e spensierata infanzia che si appropinquava alla vita, ma l’ultima tappa della terza età. Segno dei tempi.Stamane i giornali, oltre alle notizie riguardanti le manifestazioni – anche violente – svoltesi ieri nelle piazze italiane ed europee contro le misure di austerity imposte dai governi nazionali, si occupano anche dell’annuale rapporto Istat. Tra tutti i dati, quello che emerge più forte è il calo della natalità nel nostro paese: quindicimila bambini in meno rispetto all’anno passato. E il dato sarebbe ancor più preoccupante se non ci fossero gli stranieri che continuano a moltiplicarsi nonostante la crisi. Tra le coppie italiane infatti, dal 2008 ad oggi si registra un calo di quarantamila nascite. Emerge inoltre dal rapporto che un quarto dei neonati nascono da coppie non sposate, tendenza che va consolidandosi, mettendo il luce il fatto che l’istituto matrimonio non è più considerato propedeutico e indispensabile per mettere al mondo figli. I sociologi spiegano questi dati con il momento di crisi che stiamo affrontando: ci sono meno risorse, meno certezze, il futuro ci appare gravido di brutti presagi e senza speranza; a chi lasciare poi i figli, in un periodo in cui anche ai nonni – ormai da tempo considerati la stampella a cui appoggiarsi in caso di bisogno – viene imposto di andare in pensione sempre più tardi?
Tutti buoni motivi per non fare figli. O per rimandarli il più in là possibile: il sette per cento dei nati nel 2011 ha madri ultraquarantenni. Ed oltre a ciò si sottolinea la mancanza di politiche economiche a sostegno della famiglia, l’assenza di incentivi e sgravi fiscali, l’inadeguatezza del sistema di permessi per maternità/paternità. E così ecco spiegato questo trend negativo. Non manca peraltro qualche illustre opinionista che accoglie questi dati con un certo entusiasmo: “Siamo ormai troppi sulla Terra, rischiamo il collasso economico e ambientale: se si fanno meno figli ne guadagna tutta l’umanità”. Bell’affare verrebbe da dire: rinunciamo ai bambini per tenerci i vecchi cui la medicina ha allungato l’aspettativa di vita (per fortuna, s’intende). Ad essere sincero la questione economica non mi convince del tutto. È vero che la mancanza di risorse fa compiere determinate scelte, ci si limita in alcune cose, si cambiano i programmi. Ma questo cosa significa, che i figli saranno esclusivo appannaggio dei ricchi? Possibile che in così pochi decenni siamo arrivati al ribaltamento dei ruoli? Un tempi le classi povere venivano chiamate “proletari”, perché erano ricche solo di figli. E poco importava che ci fosse poco o nulla per tirarli su. Ed erano figli voluti nella maggior parte dei casi, e non piovuti dal cielo. Voluti perché due braccia in più facevano comodo alla famiglia: erano un investimento sicuro sul futuro. Oggi invece si cerca di spiegare la diminuzione della natalità semplicemente con fattori economici. Quando ero piccolo in casa non avevamo telefono – giù all’angolo della strada c’era una cabina telefonica, e quella bastava - niente automobile, niente vacanze - se non un paio di settimane ad agosto a casa dei nonni - ; i vestiti, soprattutto dei bimbi, venivano sfruttati e passati tra fratelli e cugini fino a che non diventavano lisi per il consumo; la spesa - una volta ritirata la busta paga - si faceva una volta al mese: e doveva bastare. Si viveva meglio allora che non oggi? C’erano più quattrini allora nei portafogli degli italiani rispetto ai nostri giorni? Non credo proprio. Eppure i nostri genitori non avevano timore di metter al mondo figli.
Cos’è che ci frega allora? La mancanza di futuro. Tutto qui. Per le vecchie generazioni l’avvenire era visto come un tempo e un luogo dove tutti sarebbero stati meglio, un eden da conquistare, una cornucopia che avrebbe dispensato felicità e armonia. La guerra aveva fatto intravedere il baratro, ma era ormai alle spalle. Da ora in poi – pur nella fatica – sarebbe stato festa tutti i giorni. Per noi invece, non si aprono che scenari da incubo, privi di speranza, privi di valori. Gli ideali che hanno ispirato intere generazioni sono tutti perlopiù tramontati, la politica – ma anche l’impegno civile – è vista come il male peggiore, la Chiesa non è più considerato un faro per l’umanità. È un po’ ciò che accadde nel tardo impero romano, le cui analogie con i nostri tempi sono inquietanti. Nessuno più metteva al mondo figli, la disillusione e la decadenza permeavano tutti gli strati della società, mancanza di vitalità, assenza di fiducia. Sembra di rivivere quei giorni. E quindi, dobbiamo rassegnarci a questa sorte? Parrebbe di sì, guardandoci intorno. Ma per fortuna abbiamo una grande maestra a cui affidarci: la storia c’insegna infatti che ogni qual volta ci si trova a raschiare il barile, bene o male ci rialza. Alle invasioni barbariche infondo successe il medioevo, epoca luminosissimo sebbene poco conosciuta. Si tratta di un momento, un brutto momento per l’umanità. Ma passerà. Come diceva Eduardo “Ha da passa’ ‘a nuttata”.
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