Prova


Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)

giovedì 22 novembre 2012

A ogni epoca la sua giungla

Qualche giorno fa i giornali hanno dato ampio risalto alle dichiarazioni del professor Gerald Crabtree, genetista dell’Università di Stanford, in merito alla presunta diminuzione dell’intelligenza del genere umano rispetto all’epoca preistorica. In due successivi articoli, pubblicati dalla rivista Trends in Genetics, l’esimio docente britannico sostiene che nel paleozoico la «punizione per la stupidità» era molto più forte di oggi, e questo contribuiva a selezionare una categoria di esseri umani migliori, più efficienti, più resistenti: «Se un cacciatore non riusciva a risolvere il problema di come trovare cibo moriva, e con lui tutta la sua progenie; oggi invece un manager di Wall Street che fa un errore riceve un cospicuo bonus e diventa un maschio più attrattivo. Chiaramente la selezione naturale non è più così estrema».
In effetti, il fatto di non essere più costretti a procurarci il cibo cacciando o andando a raccogliere per i boschi, oppure di non essere più obbligati a difendere la nostra vita dall’assalto dei predatori, o anche di non dover più accendere un fuoco con pietre focaie e bastoncini di legno per sopravvivere al rigore dell’inverno, ci ha reso meno scaltri, meno pronti ad affrontare lo stato di natura e le difficoltà. «La nostra civiltà, moderna e super tecnologica - continua Crabtree - , potrebbe portare ad una diminuzione dell’intelligenza umana»; con la conseguenza che «l’uomo del futuro sarà sempre più stupido». Leggendo queste dotte osservazioni, ed essendo io per natura un ribelle contestatore, ho subito pensato ad un modo per ribattere alle asserzioni di questo tale Crabtree. In fondo a me è sempre piaciuto il metodo di ricerca basato su tesi e antitesi, anche se spesso non mi ha portato a scovare soluzioni, ma bensì a ritrovarmi ancor più immerso nei dubbi e nel marasma. Marasma nel quale tutto sommato mi trovo a mio agio. Nella mia confusione infatti mi ci trovo assai bene, e guai a chi cerca di offrirmi un po’ di chiarezza. Ad ogni modo, tornado alla questione, la memoria mi ha restituito un pezzo molto completo di Maurizio Milani, comico e scrittore eccelso - ed ora anche esperto di storia dell’Umanità - : «Allora, a me dispiace dirlo, ma l’uomo primitivo era un mezzo scemo». E già qui si potrebbe chiudere, tale e tanta è la potenza espressiva dell’incipit. Ma andiamo avanti: «Vagava tutto il giorno, diceva una cosa ne pensava un’altra. Tendeva all’obesità. Era bello. Non aveva voglia di lavorare. In ultimo si fidanzava. Dopo un mese si stufava, ma non aveva il coraggio di riferirlo all’amata. A sua volta la donna piangeva apposta. Così l’uomo primitivo non la lasciava per non offenderla. Dopo cinque anni finalmente costruiva una piroga di bambù e scappava dall’arpia. Nel nuovo posto (Manciuria) conosceva un’altra ragazza e ricominciava tutto. Alcuni uomini primitivi invece non trovavano la morosa. I motivi: primo, scarsa igiene; secondo, ragionamenti da imbecille». Ecco, basterebbe questo per mettere in discussione in radice la teoria dell’uomo primitivo intelligente. Ma già immaginiamo le possibili obiezioni del lettore di fronte a tale presa di posizione: “Il Milani non è abbastanza titolato per essere considerato fonte autorevole”; “Ha la gamba corta e fa ragionamenti da osteria”; “É grande obeso e dunque ha il cervello scarsamente ossigenato”. E così abbiamo cercato altre possibili fonti per ribaltare l’ipotesi che l’uomo primitivo fosse più intelligente dell’uomo contemporaneo. Molti studiosi ad esempio ritengono che nell’uomo non siano diminuite le facoltà intellettive, bensì si siano diversificate. Vale a dire che l’intelligenza di cui disponiamo oggi ha trovato applicazione in molteplici campi, saperi, interessi, passioni. Mentre un tempo all’uomo primitivo l’intelligenza serviva soprattutto per non essere divorato dall’orso primitivo, oggi per esempio serve per trovare cure alle malattie. Liberati cioè dall’impellenza della sopravvivenza pura e semplice, abbiamo potuto mettere l’intelligenza al servizio di fini più elevati. Gli studiosi inoltre sostengono che negli ultimi cento anni, il quoziente intellettivo medio ha continuato a crescere, anche grazie ad un migliore regime alimentare. Ma tanta parte presumo debbano aver avuto anche l’aumentata scolarizzazione, le migliori cure mediche, gli ambienti abitativi più salubri. E chissà cos’altro. Ma a parte tutto ciò, al professor Crabtree mi piacerebbe fare questo tipo di obiezione: “Secondo lei, l’epoca che stiamo vivendo, con la crisi economica, il disfacimento della società, lo sfaldamento di tutto il sistema valoriale su cui si è basato per secoli il consorzio civile, la mancanza di certezze e di prospettive, le battaglie per il lavoro, sono un terreno fertile per l’infiacchimento della razza umana? In altre parole, professore, stiamo giocando in casa? Quella che stiamo affrontando è una partita semplice, dal risultato scontato e per la quale possiamo anche permetterci di non mettere in campo tutte le nostre migliori energie? O al contrario, siamo al cospetto di una delle sfide più ardue che l’umanità abbia mai affrontato. E ancora, la sopravvivenza si gioca solo nella giungla, di fronte alle fiere feroci e alle bufere di neve, o non anche con avversari che hanno perso zanne e artigli, ma che rimangono allo stesso modo letali?”. L’altro giorno mi sono recato in posta per una pratica. L’ufficio postale era chiuso e affisso alla porta d’ingresso vi era un cartello che annunciava alla cittadinanza il fatto che da quella data in poi l’apertura sarebbe stata limitata a due soli giorni della settimana. Nessuna spiegazione in merito a questa limitazione del servizio. La notizia mi ha colto di sorpresa e mi ha alquanto infastidito. Anche perché erano anni che mi servivo di quello sportello e da ora in poi mi sarei sempre dovuto chiedere: “Sarà aperto o chiuso…?”. Oppure avrei dovuto giocare alla roulette e sperare. A quel punto sono salito in macchina e mi sono diretto alla posta centrale. Dietro di me alcuni anziani avevano un altro argomento del quale lamentarsi ad alta voce. E così, giunto a destinazione, sono sceso e mi sono messo in coda. Una coda interminabile e molto innervosita dai tempi d’attesa. Quando è giunto il mio turno mi sono avvicinato ad una delle due impiegate ed ho palesato la mia richiesta, vale a dire il rilascio di una carta di credito. A quel punto l’impiegata mi ha fatto accomodare nell’ufficio interno e, con una calma e lentezza da “Grande di Spagna”, ha cominciato a raccontarmi tutto, ma proprio tutto sui servizi che avrei potuto richiedere e sottoscrivere in quella filiale. Dall’utenza telefonica agli investimenti finanziari, dai conti correnti a tassi agevolati, alle spedizioni on-line. A quel punto, dato che la faccenda andava per le lunghe, ho cominciato a dar segni d’insofferenza. Avevo fretta e oltretutto sapevo che di là dal muro, una sola addetta allo sportello aveva a che fare con una fila di clienti inferociti. E così ad un tratto, anche al costo di apparire scortese, ho sbottato: «Senta, la ringrazio per tutto quello che mi sta dicendo, ma a me non interessa niente di niente. Sono qui solo per quella fottuta carta di credito». Al che la signora, che nel frattempo si era qualificata con gran pompa, come la direttrice dell’ufficio, ha subito messo mano alla documentazione e in breve ha risolto la pratica. Sulla soglia della porta, un attimo prima di andarmene, e ancora irritato per la chiusura del mio vecchio caro sportello postale, ho chiesto:
«Ah scusi, mi tolga una curiosità, ma come mai l’altro ufficio ha ridotto l’attività?».
«Perché l’unità produttiva di quell’ufficio non ha raggiunto l’obiettivo minimo prefissato».
«Come sarebbe l’unità produttiva, in che senso?».
«Sì, l’unità produttiva…, l’addetta dell’ufficio non ha fatto sottoscrivere abbastanza contratti, abbastanza abbonamenti telefonici…, insomma non ha raggiunto il target minimo di produttività economica. E dunque…».
«E le mie lettere, le mie raccomandate?».
«Arrangiatevi…».

Ecco professor Crabtree: “unità produttiva”. Questo le basta?

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