Ieri sera in tv c’era un tipo che parlava di catastrofi, inondazioni, corrente del Golfo del Messico che potrebbe interrompersi bruscamente - talché ci sarebbe l’estinzione del 90% delle specie esistenti sulla Terra - desertificazione definitiva, scioglimento dei ghiacciai, uragani devastanti ed altre amene novelle. Che uno dice: “Già è domenica sera…, sta per chiudersi un w-e di pioggia e freddo…, niente di buono all’orizzonte… e tu ti sorbisci sta solfa catastrofista?”. In effetti me lo stavo giustappunto chiedendo, meditando di cambiare canale - “meglio Elisir sul tre, argomento imperdibile: emorroidi e prolassi anali” - , quando all’improvviso il conduttore se n’è uscito con tale sorprendente espressione: “Certo voi direte…, ma questo qui parla sempre di tragedie e cataclismi…”.
Al che il tipo, finalmente autoironico, mi è diventato d’improvviso simpatico, tanto che ho deciso di seguire l’intero teledrammone fino alla fine. La conclusione in estrema sintesi - come dicono i fini dicitori - è che se non ci diamo da fare, e anche alla svelta, sul pianeta Terra si corre davvero il rischio dell’estinzione. A quel punto, dopo i doverosi scongiuri del caso… - avendo sangue del sud nelle vene sono un vero maestro nell’arte del corno rosso attorcigliato - ho cominciato a riflettere su questa faccenda. Anche perché ormai siamo a poco più di un mese da quel famigerato 21 dicembre 2012, data che secondo i Maya coinciderebbe con la fine del Mondo. E così ho attaccato a fantasticare: “E se per assurdo un qualche scienziato certificasse che all’Umanità restano davvero pochi giorni alla fine? Io che farei? Come utilizzerei gli ultimi giorni della mia vita”. Spesso, soprattutto negli ultimi anni, mi sono considerato come una persona che vive alla giornata, senza progetti, senza futuro: “Vivo ogni giorno che il buon Dio manda in terra come se fosse l’ultimo che mi resta da vivere. E che se poi fosse davvero l’ultimo non me ne importerebbe un granché”. Questo è uno degli sms di cui – essendo un gran cialtrone – andavo più fiero; e di cui mi vantavo al bar con gli amici ubriaconi, ricevendo peraltro sguardi di profonda stima e ammirazione. E tutto ciò fino a che, l’altro week end Alessandra, di fronte al mio solito, trito e ritrito “Vivo ogni giorno che il buon Dio…” mi ha risposto a muso duro: «Ah no Lu, questo non è per niente rispettoso delle persone che sanno davvero di avere poco da vivere». Al che sono uscito all’improvviso dalla mia prosaicità un po’ malata e mi sono contristato molto. E così ho cominciato a riflettere davvero sulle ultime cose: “Che farei se sapessi che manca poco, che non c’è più tempo”. L’uomo è l’unico essere vivente cosciente della propria fine - almeno fino a che la scienza non ci dirà il contrario - , ovvero è in grado di immaginare, di astrarsi, di pensare al momento in cui non ci sarà più. Ed è per questo che si interroga da sempre, spesso con un terrore panico, sull’aldilà. Soprattutto negli ultimi anni, in cui ci siamo allontanati antropologicamente dal concetto della morte. E così, “un po’ per celia, un po’ per non morire” ho iniziato a fantasticare di viaggi, traversate oceaniche, scalate, evasione, conoscenza, incontri con civiltà altre dalle nostre. Tutte cose che mi portavano lontano da dove sono ora. E poi ancora di letture rimandate per anni, di visite ai musei, di incontri con persone che hanno contribuito a farmi diventare quello che sono. E mentre pensavo a tutte queste cose, mi dicevo: “Ma ha senso tutto ciò? Vedere un luogo che da qui a pochi giorni non esisterà più…, un luogo che non potrai raccontare a nessuno tra un mese. E leggere un libro? Avrebbe senso leggere alla fine del mondo?”. Poi ho riflettuto anche sul fatto che ogni agire dell’Umanità verrebbe sconvolto da tale notizia, il denaro - motore del nostro sistema - non avrebbe più senso, le scale sociali azzerate, il lavoro cesserebbe, nessuno più pagherebbe il mutuo, o andrebbe in palestra per rassodare le natiche. Il destino comune forse ci indurrebbe a riscoprirci fratelli, a guardarci in faccia e realizzare che chi ci sta di fronte è uguale a noi, ha le nostre stesse paure, angosce, prova gioia, dolore. E’ come noi. Tutte constatazioni che non siamo più in grado di fare, persi e rinchiusi purtroppo nella nostra condizione di isolamento, di rifiuto del prossimo, di paura e sospetto verso i rapporti umani.
E così, al termine di tutti questi ragionamenti sono giunto alla conclusione che, semmai davvero fossimo di fronte alla fine del mondo, l’unica cosa che vorrei veramente fare sarebbe questa: ritrovare tutte le persone con le quali è finita male, con le quali ci sono state incomprensioni, con le quali ci siamo persi. Persone che pure hanno contato molto per me, che però per varie vicissitudini mi sono lasciato sfuggire. Le guarderei negli occhi e proverei a riacciuffare il filo smarrito, le parole non dette, quelle sfuggite per errore o pronunciate per arroganza e presunzione. Riscoprirei in loro, in altre parole, l’altro me stesso, quello che ero ai loro occhi. Non meno reale di quello che pensavo di essere. E nella riconciliazione avvertirei anche un senso di benessere e serenità. Come colui che si addormenta, finalmente soddisfatto, in pace con il mondo e con se stesso. Ecco cosa farei se fossi al cospetto della fine.
Avrei altre considerazioni da fare, ma or ora mi è giunta una comunicazione che mi ha lasciato senza parole: una mia cara amica ha saputo ieri di essere in attesa di un figlio. Una nuova vita si profila all’orizzonte. Per lei oggi ho usato quest’espressione: “Tu ora sei suolo sacro”. E perché mai, è stata la risposta. “Perché se la vita è il bene più sacro, la donna che la custodisce è suolo sacro, al cospetto del quale ci si toglie i calzari”. E dunque di fronte a tutto ciò…, come si fa a parlare di fine del mondo?
No, meglio chiuderla qui: non c’è materia di discussione.
E voi invece, che fareste?
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