«Ricordati che devi morire…».
«Come…?».
«Ricordati che devi morire…».
«Va bene…».
«Ricooordati che devi morireeee…!».
«Si si, mo’ me lo segno: non vi preoccupate…».
È uno dei dialoghi più esilaranti del film Non ci resta che piangere. Troisi si trova su di un balcone in attesa che torni Benigni e dal basso un domenicano, armato di crocifisso e faccia truce, inveisce contro di lui rammentandogli ciò che tutti gli uomini gradiscono di dimenticare. Siamo nel 1492 e per le strade della Firenze rinascimentale imperversano le agghiaccianti intemerate di Savonarola contro i peccatori di ogni ordine e grado. I nostri due eroi, spinti dal desiderio di liberare dal carcere il loro amico Vitellozzo, decidono di scrivere direttamente al focoso frate domenicano, cercando di fargli intendere il più delicatamente possibile che quel suo predicare rabbioso e violento potrebbe costargli caro. Troisi detta, Benigni scrive: Santissimo Savonarola quanto ci piaci a noi due! Scusa le volgarità eventuali. Santissimo, potresti lasciar vivere Vitellozzo, se puoi? Eh? Savonarola, e che è? Oh! Diamoci una calmata, eh! Oh! E che è? Qua pare che ogni cosa, ogni cosa uno non si può muovere che, questo e quello, pure per te! Oh! Noi siamo due personcine perbene, che non farebbero male nemmeno a una mosca, figuriamoci a un san-tone come te. Anzi, varrai più di una mosca, no? Noi ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi, senza chiederti nemmeno di stare fermo, puoi muoverti quanto ti pare e piace e noi zitti sotto. Scusa per il paragone tra la mosca e il frate, non volevamo minimamente offendere. I tuoi peccatori di prima, con la faccia dove sappiamo, sempre zitti, sotto”.
Come sia finita la vicenda di Vitellozzo il film non ce lo dice. Anche perché i protagonisti, subito dopo aver spedito la lettera, partono per una missione molto particolare: fermare Cristoforo Colombo. Sappiamo invece che fine abbia fatto Savonarola: purtroppo per lui.
Certo in quei tempi non andavano tanto per il sottile e se poco poco qualcuno era sospettato di eresia correva davvero il rischio di fare la fine dell’abbacchio alla scottadito.
Nei cosiddetti secoli buoi del Medioevo - che peraltro non furono affatto bui - la Chiesa, sconvolta dai sommovimenti economici e sociali delle masse e nell’intento di governare queste spinte verso il rinnovamento, divenne sempre più tenebrosa e oscurantista. Si diffusero così messaggi di paura, angoscia, di fine dei tempi (poenitentiam agite, appropinquabit enim regnum caelorum); s’istituì in dogma del Purgatorio; nacque l’Inquisizione. E così il Cristianesimo, che pure agli albori della sua avventura era una religione di gioia, di vita, di speranza, si trasformò in un’immanenza carica di terrore, di ombre, di repressione degli istinti vitali e dunque di morte. Bisogna attendere San Francesco e i suoi giullari per vedere un barlume di luce.
Ne è passato dunque di tempo da quando sulle tavole dei monaci vi era un teschio a rammentare la caducità della vita e l’incombenza della morte. Per fortuna, direi. Sui giornali di oggi però, c’è una notizia che se non fosse comica in se stessa, farebbe gelare il sangue nelle vene. L’inventore svedese Fredrik Colting infatti ha lanciato sul mercato un oggetto che riporta le lancette del tempo a quei secoli tenebrosi: Tikker, ovvero “l’orologio della morte”. Di cosa si tratta? Tikker è un orologio che, adeguatamente programmato - età, storia clinica e familiare, proprie abitudini (fumo, alcool, attività fisica), peso etc… - compie un rapido calcolo probabilistico e fa partire sul display un countdown - preciso al secondo - del momento esatto in cui il possessore dell’orologio tirerà le cuoia. Fantastico, non trovate? Portando sempre con se questo grazioso oggetto - che tra l’altro dice anche l’ora esatta - , ognuno potrà sapere in qualsiasi momento quanto tempo gli rimane da vivere. E il tutto per soli 59 dollari. Colting afferma che la sua invenzione non ha alcun intento macabro, ma al contrario è un portentoso strumento in grado di dare più sapore ai nostri giorni: “Dobbiamo imparare ad amare la vita e a cogliere ogni attimo, seguendo il nostro cuore. Se tutti fossimo consapevoli dell’approssimarsi della nostra fine, faremmo sicuramente scelte migliori”. Complimenti inventore, questa si che è alta filosofia. Ma sarà poi vero che sapendo la data della nostra morte godremmo con più intensità i giorni che ci rimangono da vivere? La cosa non mi convince affatto. L’uomo è l’unica bestia del creato in grado di astrarre e intuire la propria fine, e da ciò ne discende un’angoscia che altri animali non provano. Ciò che ci permette di vivere con un certo grado di serenità è la consapevolezza che questo evento tragico si verificherà in un tempo futuro ed indeterminato. Talmente indeterminato da apparire quasi irreale. Ed è solo grazie a questo pensiero che non veniamo precipitati nell’angoscia più totale. In altre parole non è il pensiero della morte a terrorizzarci, ma la certezza che essa arriverà in un dato momento: il condannato a morte, al quale viene detto che all’alba verrà fucilato, farebbe di tutto pur di accorciare quell’inutile spaventevole attesa.
E noi dunque, per apprezzare di più la vita, dovremmo metterci al polso l’orologio della morte? Egregio Fredrik Colting, ma ci faccia il piacere…!
Fonte: http://www.youtube.com/watch?v=Z_sKoPvEDNU
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