Ciao amici,
Ieri ho chiamato Dominique per sapere come procede il suo programma d’allenamento. Il ragazzo si sta preparando coscienziosamente per il cimento prossimo venturo (così come tutti noi immagino), mettendo chilometri su chilometri nelle gambe. Gli ho consigliato di non forzare troppo, di usare sempre marce basse per abituare il fisico allo sforzo prolungato, con un esercizio regolare ed aerobico (così che l’acido lattico non provochi sovraccarichi di fatica nelle gambe).
Tutte cose che peraltro egli già sapeva. Ma, come diceva giustamente Enrico Montesano, “repetiva Juve”. Abbiamo anche affrontato l’argomento cosa portare e cosa non portare in borsa.
Ecco un piccolo prontuario, tratto dalle esperienze personali in bicicletta e da altre analoghe (tipo trekking). La regola base, per tutto ciò che riguarda viaggi con zaini/borse sul groppone (o sul portapacchi) è sempre la stessa: minimizzare il peso.
Ma proviamo a fare una lista. Aggiungete o togliete (a seconda delle vostre esperienze…) ciò che vi sembra utile.
Cosa portare per il Marche & Abruzzo Bike Tour
Bicicletta e accessori vari
• Bicicletta con portapacchi (ovviamente).
• Controllare stato generale del mezzo (condizione dei copertoni, usura pattini dei freni, lubrificazione catena, perni dei pedali etc…, e se del caso provvedere).
• Borse laterali (io porto un modello B-Win da 20 + 20).
• Copriborse impermeabile antipioggia (o in alternativa sacchetti di plastica da collocare ben stretti all’interno delle borse medesime).
• Due/tre camere d’aria di riserva (io porto anche un kit per riparazione: un paio di leva copertoni, un paio di chiavi inglesi, un cacciavite, pezze e mastice, un cavo per freni etc…).
• Pompa funzionante (lasciate perdere quelle bombolette d’aria compressa che non servono a un Kaiser…).
• Torcia elettrica + catarifrangente posteriore (non si sa mai, dovessimo fare qualche galleria…).
• Borraccia + bottiglia di plastica da 1,5 litri di riserva da tenere in borsa (bella schiacciata).
• Sella: che sia comoda! Per i maschietti, meglio forse pensare ad una di quelle con foro centrale, tipo prostatici. Fa ridere, detta così, ma dieci giorni in sella potrebbero rivelarsi poco piacevoli per le protuberanze ischiatiche.
• Appendici ai lati del manubrio: assai utili per cambiare posizione durante la pedalata (costano pochissimo e rendono un grande servigio).
• Contachilometri: meglio un modello senza fili (telemetrico).
• Olio spray per la catena.
• Casco (per chi ce l’ha e/o cmq lo sopporta)/catenaccio per legare la bici.
Abbigliamento
• Scarpe comode (vanno bene sia quelle specifiche con attacchi, sia quelle normali da ginnastica). Valutate voi se è il caso di portare un secondo paio di scarpe. Se prendessimo pioggia, potrebbe essere utile averne un paio di riserva.
• Sandali per la sera. Io ne porto un paio di gomma così li uso anche per la doccia e la piscina.
• Giacca antipioggia (o anche K-way)/Giacca antivento (meglio se in un unico capo d’abbigliamento).
• Smanicato wind-stop in tela leggera (utilissimo).
• Magliette traspiranti manica corta (un paio dovrebbero essere sufficienti: alla sera si fa il bucato).
• Pantaloncini con rinforzo in zona inguinale/scrotale (due paia sono sufficienti). Io porto anche un paio di gambali lunghi, in caso faccia freddo).
• Maglia a manica lunga (in caso faccia freddo).
• Cappellino/bandana per il sole.
• Pantaloni lunghi per la sera: un paio (quelli da trekking vanno benissimo: leggeri ed eleganti).
• Pantaloncini corti: un paio (quelli da trekking vanno benissimo: leggeri ed eleganti).
• Maglietta/Polo/Camicia per la sera (il minimo indispensabile).
• Pigiama (per chi lo usa: io per esempio dormo nudo…).
• Ricambi: due paia di mutande (che non si indossano sotto i pantaloncini da bici, naturalmente…); due/tre paia di calzettine corte; canottiera (indispensabile per il mare).
• Costume da bagno + cuffia per la piscina (metti che ci voglia…).
• Asciugamano grande per relax a bordo piscina o in riva al mare (rigorosamente in microfibra).
• Busta per igiene personale (che ci sia l’indispensabile: dentifricio, shampoo etc…! Senza dimenticare il deodorante: meglio se al borotalco) + cordino e mollette per bucato.
• Crema solare, doposole, crema lenitiva per le zone dove non batte il sole (l’Ale consiglia la Prep).
• Medicinali vari: aspirina, tachipirina, Ventolin, Soluzione Schoum, Dolce Euchessina, Amaro Medicinale Giuliani…! Insomma, quello che pensate possa servirvi (Dio non voglia).
• Aiutini vari: come consigliato in precedenza, sarebbe assai utile portarsi dietro, e assumere durante il giorno, degli amminoacidi ramificati. Al Decathlon ce ne sono di diversi tipi. Il beneficio che se ne trae da questi integratori alimentari (non farmaci...) è che pedalando non si risente della fatica del giorno prima: aiuta il recupero muscolare. Utili altresì i sali minerali in comode compresse; e i gel di zucchero in bustine.
• Macchina fotografica.
• Occhiali da sole.
• Fazzoletti di carta (quanto basta…).
• Mappe e cartine. Sarebbe utile che ognuno avesse delle fotocopie con se, di modo tale che anche restando isolati, non ci si perde.
Se vi viene in mente qualcos’altro…!
Prova
“Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)
Pagine
mercoledì 31 luglio 2013
martedì 30 luglio 2013
Pompieri v.s. bollenti spiriti: una missione veramente “eroica”
La figura del pompiere, o per meglio dire del Vigile del Fuoco, è da sempre simbolo di eroismo, di senso del dovere, di dedizione e sacrificio a favore del prossimo. C’è una considerazione legata ai tragici avvenimenti dell’11 settembre (2001) che più di ogni altra esprime questo sentimento tutt’altro che retorico: “Quando tutti scappano, noi arriviamo”. Ed infondo è esattamente ciò che accade nella realtà: mentre tutti coloro che sono coinvolti in un incendio, in un crollo o in un incidente scappano, fuggono lontano dal pericolo, cercano di mettersi in salvo con il minor danno possibile, i Vigili del Fuoco accorrono. A rischio della propria vita. Non ricordo chi pronunciò questa frase, ma sicuramente si trattava di un vigile del NYFD (New York Fire Department). In quella tragica giornata, in cui il Mondo cambiò all’improvviso, furono 341 i pompieri rimasti sotto le macerie delle Torri Gemelle.
La cinematografia mondiale, peraltro, da sempre ha esaltato a giusta ragione il coraggio di questi uomini, e decine sono i film che hanno raccontato le vicende dell’eterna lotta tra fuoco e pompieri. Da bambino vidi un film in televisione che mi rimase impresso e che contribuì non poco ad accrescere e strutturare la mia stima per questi angeli in tuta ignifuga: L’inferno di cristallo. Un grattacielo prende fuoco, e tra mille orrori, i vigili del Corpo di San Francisco, coordinati dal Capitano Mike O’Halloran (Steve McQueen) si lanciano nei soccorsi. È una battaglia impari e disperata, nella quale si contano moltissime vittime. Anche tra i soccorritori. Nella scena finale del film, i due protagonisti, il progettista del grattacielo e il Comandante dei Vigili, guardando i resti fumanti dell’edificio finalmente spento, si trovano per un ultimo momento insieme a ragionare amaramente sull’accaduto. «Non lo so, forse dovrebbero lasciarlo lì com’è - dice l’architetto Doug Roberts - : un altare a tutte le pagliacciate del mondo». «Siamo stati fortunati - risponde O’Halloran - i morti sono meno di 200. Un giorno o l’altro ne moriranno 10 mila in una di queste trappole infernali. E io continuerò a mangiare fumo e a tirare fuori corpi. Finché non domanderanno a noi come farli». «Va bene, glielo domando io». «Sa dove trovarmi. Addio architetto».
È l’apoteosi della stupidità umana da un lato (quella della speculazione sulla sicurezza e sulla vita stessa degli uomini), e del coraggio e dell’altruismo dall’altro (anche a rischio della propria incolumità). Per fortuna, tuttavia, i pompieri non sono sempre chiamati a spegnere grattacieli, né a tirar fuori cadaveri abbrustoliti dalle macerie. Più e più volte si ascoltano storie banali, o addirittura al limite del ridicolo riguardo agli interventi dei pompieri. Si va dall’allagamento in casa perché si è rotto il tubo della lavatrice, al classico gattino finito in cima ad un albero e incapace di scendere. “Ci chiamano per ogni cosa…” - dicono spesso i vigili. Ed in effetti è così, anche perché nell’immaginario collettivo non c’è nulla che i pompieri non riescano a risolvere. Anche se a volte basterebbe chiamare un idraulico o un fabbro e non una squadra con tanto di autobotte. L’altra sera, ad esempio, a Dervio, sull’alto lago di Como, sono dovute intervenire ben due unità dei Vigili del Fuoco, munite di autoscala, per recuperare un raro esemplare di Ara Ararauna, ovvero un pappagallaccio dalle penne gialle e blu. Pare che l’evento abbia attirato centinaia di persone curiose sul luogo. E non una che abbia portato con se una carabina di precisione, aggiungo, per tirar giù il pennuto. Ad ogni modo, dicono le cronache, intorno alle 20.30 il volatile è stato restituito sano e salvo al proprietario. Tra gli applausi della folla, pare. Ma questo, che pure è tanto, è nulla al confronto di ciò che stiamo per raccontarvi. Ieri il quotidiano britannico Times, ha pubblicato un articolo dal titolo francamente imbarazzante: “London fire crews blame erotic fiction for rising calls”. Ovvero i pompieri londinesi sempre più alle prese con “incidenti” causati (o ispirati) dalla narrativa erotica. Osservando le statistiche degli interventi ci si è accorti infatti che le richieste d’aiuto legate a situazioni particolari, come appunto i giochi erotici, sono in vertiginosa salita. Negli ultimi tre anni, afferma Dave Brown, uno degli ufficiali in comando alla London Fire Brigade, almeno 79 sono stati i casi di questo genere: “Non so se è per via dell’effetto 50 sfumature di grigio, ma il numero di incidenti legato a manette o oggetti simili, è in aumento”. Ma non finisce qui. E sì perché, al di là del numero banale e tutto sommato circoscritto di incidenti come appunto quello che può essere lo smarrimento delle chiavi delle manette, sono ben altri i numeri che fanno pensare. Sempre nel triennio ben 1.300 sono stati gli incidenti nei quali chi chiedeva aiuto era rimasto intrappolato a causa di oggetti di uso domestico usati in maniera impropria. E nonostante non ci siano descrizioni dei particolari, possiamo appena immaginare tutta l’infinita sequela di bottiglie, scatolette, barattoli di carne in scatola, accessori e ortaggi vari usati per l’abbisogna. Negli anni anche i giornali italiani ne hanno raccontate di belle. Tra le righe del report tuttavia, qualche nota di colore si scopre qua e là: nove casi di uomini che chiedevano aiuto perché il loro pene era rimasto intrappolato dentro anelli di metallo; o un altro caso di un uomo con il pene incastrato dentro il tubo di un aspirapolvere; o un altro ancora bloccato in un tostapane. “A volte - afferma laconicamente Brown - basterebbe un po’ di buon senso”. Se mai ce ne può essere ancore nella testa di un soggetto ridotto a questo stadio.
Ecco a cosa si riduce l’eroismo dei pompieri in alcuni casi. La notizia mi ha fatto venire il mente un vecchio sketch di Maurizio Milani, ai tempi in cui andava in giro per Milano a vantarsi di essere il latrinaio più famoso d’Italia:
Nell’ultimo cesso c’è un rapito. Si perché solo con l’offerta dell’urina non ce la faccio. D’altra parte le spese ci sono. È tre mesi che ce l’ho in mano. Martedì mi ha messo il pene tra gli elementi del termosifone. È lì tutto il giorno…, qualcosa deve fare…! Mi è andato su di volume… e non riusciva più a tirarlo fuori. Allora mi sono commosso, e l’ho mutilato…! A secco. Lui è rimasto un po’ deluso. Poi alla fine ha capito, e mi ha ringraziato. Adesso la parte ce l’ho io di là. Se c’è da discutere per il riscatto con i parenti, si spedisce quella. È inutile operare ancora sto uomo…!.
Se anche i pompieri si commuovessero e dunque procedessero alla mutilazione, la piaga sono certo che sarebbe definitivamente sradicata.
Fonte: http://www.timeslive.co.za/lifestyle/2013/07/29/london-fire-crews-blame-erotic-fiction-for-rising-calls
Guarda anche: http://www.youtube.com/watch?v=ThnLE8tD30U
La cinematografia mondiale, peraltro, da sempre ha esaltato a giusta ragione il coraggio di questi uomini, e decine sono i film che hanno raccontato le vicende dell’eterna lotta tra fuoco e pompieri. Da bambino vidi un film in televisione che mi rimase impresso e che contribuì non poco ad accrescere e strutturare la mia stima per questi angeli in tuta ignifuga: L’inferno di cristallo. Un grattacielo prende fuoco, e tra mille orrori, i vigili del Corpo di San Francisco, coordinati dal Capitano Mike O’Halloran (Steve McQueen) si lanciano nei soccorsi. È una battaglia impari e disperata, nella quale si contano moltissime vittime. Anche tra i soccorritori. Nella scena finale del film, i due protagonisti, il progettista del grattacielo e il Comandante dei Vigili, guardando i resti fumanti dell’edificio finalmente spento, si trovano per un ultimo momento insieme a ragionare amaramente sull’accaduto. «Non lo so, forse dovrebbero lasciarlo lì com’è - dice l’architetto Doug Roberts - : un altare a tutte le pagliacciate del mondo». «Siamo stati fortunati - risponde O’Halloran - i morti sono meno di 200. Un giorno o l’altro ne moriranno 10 mila in una di queste trappole infernali. E io continuerò a mangiare fumo e a tirare fuori corpi. Finché non domanderanno a noi come farli». «Va bene, glielo domando io». «Sa dove trovarmi. Addio architetto».
È l’apoteosi della stupidità umana da un lato (quella della speculazione sulla sicurezza e sulla vita stessa degli uomini), e del coraggio e dell’altruismo dall’altro (anche a rischio della propria incolumità). Per fortuna, tuttavia, i pompieri non sono sempre chiamati a spegnere grattacieli, né a tirar fuori cadaveri abbrustoliti dalle macerie. Più e più volte si ascoltano storie banali, o addirittura al limite del ridicolo riguardo agli interventi dei pompieri. Si va dall’allagamento in casa perché si è rotto il tubo della lavatrice, al classico gattino finito in cima ad un albero e incapace di scendere. “Ci chiamano per ogni cosa…” - dicono spesso i vigili. Ed in effetti è così, anche perché nell’immaginario collettivo non c’è nulla che i pompieri non riescano a risolvere. Anche se a volte basterebbe chiamare un idraulico o un fabbro e non una squadra con tanto di autobotte. L’altra sera, ad esempio, a Dervio, sull’alto lago di Como, sono dovute intervenire ben due unità dei Vigili del Fuoco, munite di autoscala, per recuperare un raro esemplare di Ara Ararauna, ovvero un pappagallaccio dalle penne gialle e blu. Pare che l’evento abbia attirato centinaia di persone curiose sul luogo. E non una che abbia portato con se una carabina di precisione, aggiungo, per tirar giù il pennuto. Ad ogni modo, dicono le cronache, intorno alle 20.30 il volatile è stato restituito sano e salvo al proprietario. Tra gli applausi della folla, pare. Ma questo, che pure è tanto, è nulla al confronto di ciò che stiamo per raccontarvi. Ieri il quotidiano britannico Times, ha pubblicato un articolo dal titolo francamente imbarazzante: “London fire crews blame erotic fiction for rising calls”. Ovvero i pompieri londinesi sempre più alle prese con “incidenti” causati (o ispirati) dalla narrativa erotica. Osservando le statistiche degli interventi ci si è accorti infatti che le richieste d’aiuto legate a situazioni particolari, come appunto i giochi erotici, sono in vertiginosa salita. Negli ultimi tre anni, afferma Dave Brown, uno degli ufficiali in comando alla London Fire Brigade, almeno 79 sono stati i casi di questo genere: “Non so se è per via dell’effetto 50 sfumature di grigio, ma il numero di incidenti legato a manette o oggetti simili, è in aumento”. Ma non finisce qui. E sì perché, al di là del numero banale e tutto sommato circoscritto di incidenti come appunto quello che può essere lo smarrimento delle chiavi delle manette, sono ben altri i numeri che fanno pensare. Sempre nel triennio ben 1.300 sono stati gli incidenti nei quali chi chiedeva aiuto era rimasto intrappolato a causa di oggetti di uso domestico usati in maniera impropria. E nonostante non ci siano descrizioni dei particolari, possiamo appena immaginare tutta l’infinita sequela di bottiglie, scatolette, barattoli di carne in scatola, accessori e ortaggi vari usati per l’abbisogna. Negli anni anche i giornali italiani ne hanno raccontate di belle. Tra le righe del report tuttavia, qualche nota di colore si scopre qua e là: nove casi di uomini che chiedevano aiuto perché il loro pene era rimasto intrappolato dentro anelli di metallo; o un altro caso di un uomo con il pene incastrato dentro il tubo di un aspirapolvere; o un altro ancora bloccato in un tostapane. “A volte - afferma laconicamente Brown - basterebbe un po’ di buon senso”. Se mai ce ne può essere ancore nella testa di un soggetto ridotto a questo stadio.
Ecco a cosa si riduce l’eroismo dei pompieri in alcuni casi. La notizia mi ha fatto venire il mente un vecchio sketch di Maurizio Milani, ai tempi in cui andava in giro per Milano a vantarsi di essere il latrinaio più famoso d’Italia:
Nell’ultimo cesso c’è un rapito. Si perché solo con l’offerta dell’urina non ce la faccio. D’altra parte le spese ci sono. È tre mesi che ce l’ho in mano. Martedì mi ha messo il pene tra gli elementi del termosifone. È lì tutto il giorno…, qualcosa deve fare…! Mi è andato su di volume… e non riusciva più a tirarlo fuori. Allora mi sono commosso, e l’ho mutilato…! A secco. Lui è rimasto un po’ deluso. Poi alla fine ha capito, e mi ha ringraziato. Adesso la parte ce l’ho io di là. Se c’è da discutere per il riscatto con i parenti, si spedisce quella. È inutile operare ancora sto uomo…!.
Se anche i pompieri si commuovessero e dunque procedessero alla mutilazione, la piaga sono certo che sarebbe definitivamente sradicata.
Fonte: http://www.timeslive.co.za/lifestyle/2013/07/29/london-fire-crews-blame-erotic-fiction-for-rising-calls
Guarda anche: http://www.youtube.com/watch?v=ThnLE8tD30U
lunedì 29 luglio 2013
L’angolo della cartolina
“Da queste mura il guardo si spinge fino al mare, e abbraccia il Golfo da Gaeta a Scauri…! Un assaggio del corso che ricomincerà a settembre.
Ciao! Salvo”.
venerdì 26 luglio 2013
Una piccola storia nella grande storia
Più guardo quelle immagini spaventose del deragliamento del treno diretto a Santiago de Compostela e più faccio fatica a credere che non si tratti di un video-gioco. In effetti siamo abituati ormai a tutto, ma le immagini che riprendono le stragi fanno quasi sempre riferimento ad eventi già consumati, a lamiere accartocciate, a tracce di incendi domate. Vedere un treno che a folle velocità affronta una curva e si schianta contro un muro di cemento armato, ribaltandosi sul fianco, è qualcosa di dirompente, lascia increduli e senza fiato: come se si trattasse appunto di un modellino della “Trenini Lima”. Il bilancio parla di ottanta morti e decine di feriti, anche molto gravi. A quanto pare ci sarebbe anche un italiano tra le vittime. E fa ancora più specie pensare che quasi tutti i passeggeri fossero pellegrini, diretti verso il Santuario in cui sono conservate le spoglie di San Giacomo.
La prima cosa che ho pensato, guardando quel filmato è stata: “Ma per la miseria, possibile che non esista un sistema computerizzato capace di arrestare un treno che imbocca una tratta a velocità troppo elevata rispetto al consentito? Possibile non ci sia un ausilio in grado di mettere in sicurezza un convoglio in caso di distrazione, malore o assopimento improvviso del macchinista?”. A sto punto c’è poco da star tranquilli anche sui treni, ho pensato per deduzione. Questa mattina tuttavia sui giornali italiani si leggono commenti autorevoli e rassicuranti: “Quanto accaduto a Santiago de Compostela in Italia non potrebbe accadere, i passeggeri italiani possono stare tranquilli” (Giorgio Diana, massimo esperto di sicurezza ferroviaria del Politecnico di Milano, che si occupò del deragliamento del Pendolino di Piacenza nel 1997). E il motivo è presto detto: sui 12mila km di linea del nostro Paese vi è installato un sistema automatico (SCMT - “Sistema controllo marcia treni”) in grado di gestire la corsa dei treni: ogni 200 metri dei nostri binari dove transitano intercity e treni pendolari, delle boe mandano costantemente dei segnali a un decoder installato sul treno, che dice al macchinista quando deve rallentare o fermarsi. Quando non lo fa, scatta il sistema automatico di frenatura. Un controllo a distanza così ravvicinata permette dunque che il treno non raggiunga velocità elevate. Sulle tratte ad Alta Velocità, in più, vi è un sistema dotato di mappatura gps in grado di intervenire in automatico in caso di superamento dei limiti di velocità. Dunque, facendo i debiti scongiuri, da noi i treni dovrebbero essere abbastanza sicuri.
Questa tremenda sciagura mi ha fatto tornare alla mente un episodio di vita familiare. Molti e molti anni fa mio nonno paterno fu coinvolto in un deragliamento spaventoso, e ne uscì miracolosamente illeso. Quello che segue è il racconto che ne ho fatto per Il Cialtrone.
Questioni di famiglia
Michele e Luigi erano fratelli e provenivano da una famiglia molto numerosa. Fino a che non erano diventati autonomi erano vissuti in una piccola abitazione insieme agli altri sei fratelli, di cui quattro femmine, il padre - unico sostegno di famiglia - , la madre e gli anziani nonni. Era una lotta continua per la sopravvivenza. La madre era costretta a nascondere il pane ogni giorno in un nascondiglio diverso, onde evitare che la sera, a tavola, mancasse l’alimento principe su cui si basava la loro dieta. Crebbero tutti grandi e grossi nonostante le ristrettezze ed in breve ognuno riuscì a farsi una propria vita. Michele e Luigi rimasero negli anni molto attaccati: il primo aveva quasi dieci anni più del secondo ed aveva un atteggiamento molto protettivo nei suoi confronti; il secondo aveva altresì nei riguardi del primo un rispetto assoluto, quasi a considerarlo un secondo padre […]. Una bella mattina i due fratelli si recarono alla stazione e salirono sul diretto per Napoli: nel pomeriggio la squadra locale, di cui erano tifosi, avrebbe affrontato la blasonata Inter. Avevano acquistato i biglietti tre mesi prima. Poco prima dell’alba, nell’approssimarsi della stazione di Benevento Luigi si accorse - da buon ferroviere qual era - che il treno viaggiava ad una velocità insolitamente elevata. Si aggrappò ad una maniglia temendo il peggio e dopo qualche attimo il convoglio deragliò in maniera spaventosa. Il treno, coricatosi sul fianco destro, andò a schiantarsi contro un’ala della stazione ferroviaria di Benevento, causando 22 morti e una settantina di feriti. Luigi assistette a quell’Apocalisse reggendosi disperatamente a quella maniglia. Tutto intorno era la fine del mondo: corpi scaraventati contro le pareti, carrozze accartocciate, stridore di lamiera, vetri infranti, urla strazianti. Quando, dopo un tempo che parve infinito, il treno impazzito si arrestò Luigi lasciò la maniglia e precipitò pesantemente su qualcosa di morbido, che ne attutì la caduta. Nella confusione non si rese subito conto di dove fosse atterrato. Spostò un impermeabile bagnato e sotto di esso vide il corpo senza vita di un uomo obeso, lo stesso che aveva visto dormire placidamente un attimo prima. Tra le lamiere iniziarono lentamente a sentirsi le grida disperate dei sopravvissuti. Luigi cominciò a cercare il fratello a gran voce: in quello scenario di morte e distruzione temeva che non fosse sopravvissuto. «Michele… Michele rispondi… Michele». Il fratello giaceva a poca distanza da lui e, sebbene sentisse quelle grida, non poteva rispondere dal momento che aveva subito uno schiacciamento toracico, oltreché la frattura del braccio destro. Quando Luigi ripeté per l’ennesima volta quell’urlo disperato Michele non ne poté più e sbottò in un nervosissimo: «…e statti zitto, accidenti a te: stai mettendo in subbuglio tutto il treno…». I primi soccorsi giunsero dopo quasi un’ora e con grande difficoltà le vittime cominciarono ad essere evacuate. Nella confusione andarono perse valigie, cappotti ed ogni altra cosa, e dunque - data la stagione invernale (era il 16 febbraio del ’53) - Luigi dovette suo malgrado accaparrarsi un palettò di cammello, elegantissimo, appartenuto ad un ragazzo che si trovava in viaggio di nozze con la moglie: entrambi erano deceduti. Nel frattempo a Foggia la notizia del disastro era arrivata in un baleno: i parenti si erano riuniti tutti intorno a Teresa, la matrona della famiglia, madre di Luigi e Michele, in attesa di sapere che fine avessero fatto i loro congiunti. Le prime informazioni parlavano di un deragliamento spaventoso, come mai se ne erano registrati fino ad allora, ed il bilancio dei morti, sebbene provvisorio, faceva temere il peggio. Le donne piangevano angosciate, ma sopra ad esse si levava la voce straziante di Teresa, come una litania ripetuta all’infinito per la salvezza dei figli: ad ogni preghiera ripeteva tre volte il nome di Michele ed una sola quella di Luigi. La faccenda parve strana al primogenito di Luigi: «Mamma’, ma perché la nonna dice tre volte il nome dello zio Michele ed una sola quello di papà?». Al che Marcella, che era una donna coraggiosa, fatalista e soprattutto molto intelligente rispose: «Perché lo zio le porta le medicine…!». Michele venne ricoverato all’ospedale di Benevento mentre Luigi, che aveva riportato solo una leggera ferita sulla fronte, tornò a casa. Fece tutto il viale che dalla Stazione portava alla Villa Comunale, salutato come un reduce da parenti e conoscenti, curiosi di sapere di quella triste avventura. A nessun sfuggì quell’elegante palettò di cammello, tanto che qualcuno arrivò a malignare biecamente, sostenendo che Luigi aveva approfittato di quella circostanza per rifarsi il guardaroba. Quando Marcella lo vide imboccare via Salomone con quel suo passo marziale da ex-sottufficiale dell’Esercito, sentì scendere due calde lacrime dagli occhi: non aveva pianto fino ad allora, era troppo ottimista per pensare che lui, proprio lui che aveva fatto la guerra in Grecia e Albania, e che dopo l’armistizio aveva sfidato la sorte durante l’occupazione tedesca pur di mantenere la famiglia, non sarebbe tornato. Scese in strada e lo fissò: solo allora si accorse dell’eleganza di suo marito. Sorrise appena, poi un singulto violento la scosse. Gli corse incontro con passi brevi, le mani veloci ad asciugare il volto rigato. L’angoscia che aveva sospeso il corso naturale dei giorni spariva all’improvviso, spazzata via da sciabolate di felicità. Lungo il vicolo c’era una folla curiosa che assisteva a quella scena mettendo imbarazzo. Ma Luigi, che pure era uomo schivo e di una serietà prussiana, quando la moglie gli fu vicino, non poté fare a meno di sollevarla e di stringerla a se tra le sue braccia forti. Quegli sguardi indiscreti erano svaniti.
P.S. Nell’atrio della stazione di Benevento, c’è una targa commemorativa che ricorda le vittime dell’incidente avvenuto il 16 febbraio 1953. Treno 816, ore 04.45. Ventidue morti e 70 feriti. E questo è ciò che disse il Ministro Malvestiti in risposta ad un’interrogazione parlamentare del 23 marzo 1953:
“In base alle risultanze dell’inchiesta all’uopo espletata, già rese di pubblico dominio, si può affermare che le cause del disastro ferroviario avvenuto a Benevento il 16 febbraio 1953 sono da ricercarsi nel mancato o troppo ritardato azionamento dei mezzi di frenatura del treno, la cui responsabilità è da attribuire ai due macchinisti del treno stesso, entrambi del deposito locomotive di Napoli smistamento. Il mancato intervento dei due agenti di macchina si verificò con ogni probabilità perché essi non rilevarono l’oltrepassamento del segnale di avviso e, solo allorché si trovarono a transitare sotto il segnale di prima categoria, sia resero conto che stavano ormai entrando in stazione, cioè troppo tardi per un efficace intervento. Nessun difetto presentava l’apparecchiatura di comando sia del freno automatico sia del freno moderabile, ubicata nella cabina anteriore nel senso di marcia, del locomotore 423.212 del treno di cui trattasi. Per quanto riguarda la sicurezza dell’esercizio essa è normalmente garantita dagli impianti esistenti e dalla applicazione delle norme che la disciplinano; naturalmente se tali disposizioni non vengono osservate possono verificarsi inconvenienti che in certi casi come in quello di Benevento assumono carattere di particolare gravità”.
La prima cosa che ho pensato, guardando quel filmato è stata: “Ma per la miseria, possibile che non esista un sistema computerizzato capace di arrestare un treno che imbocca una tratta a velocità troppo elevata rispetto al consentito? Possibile non ci sia un ausilio in grado di mettere in sicurezza un convoglio in caso di distrazione, malore o assopimento improvviso del macchinista?”. A sto punto c’è poco da star tranquilli anche sui treni, ho pensato per deduzione. Questa mattina tuttavia sui giornali italiani si leggono commenti autorevoli e rassicuranti: “Quanto accaduto a Santiago de Compostela in Italia non potrebbe accadere, i passeggeri italiani possono stare tranquilli” (Giorgio Diana, massimo esperto di sicurezza ferroviaria del Politecnico di Milano, che si occupò del deragliamento del Pendolino di Piacenza nel 1997). E il motivo è presto detto: sui 12mila km di linea del nostro Paese vi è installato un sistema automatico (SCMT - “Sistema controllo marcia treni”) in grado di gestire la corsa dei treni: ogni 200 metri dei nostri binari dove transitano intercity e treni pendolari, delle boe mandano costantemente dei segnali a un decoder installato sul treno, che dice al macchinista quando deve rallentare o fermarsi. Quando non lo fa, scatta il sistema automatico di frenatura. Un controllo a distanza così ravvicinata permette dunque che il treno non raggiunga velocità elevate. Sulle tratte ad Alta Velocità, in più, vi è un sistema dotato di mappatura gps in grado di intervenire in automatico in caso di superamento dei limiti di velocità. Dunque, facendo i debiti scongiuri, da noi i treni dovrebbero essere abbastanza sicuri.
Questa tremenda sciagura mi ha fatto tornare alla mente un episodio di vita familiare. Molti e molti anni fa mio nonno paterno fu coinvolto in un deragliamento spaventoso, e ne uscì miracolosamente illeso. Quello che segue è il racconto che ne ho fatto per Il Cialtrone.
Questioni di famiglia
Michele e Luigi erano fratelli e provenivano da una famiglia molto numerosa. Fino a che non erano diventati autonomi erano vissuti in una piccola abitazione insieme agli altri sei fratelli, di cui quattro femmine, il padre - unico sostegno di famiglia - , la madre e gli anziani nonni. Era una lotta continua per la sopravvivenza. La madre era costretta a nascondere il pane ogni giorno in un nascondiglio diverso, onde evitare che la sera, a tavola, mancasse l’alimento principe su cui si basava la loro dieta. Crebbero tutti grandi e grossi nonostante le ristrettezze ed in breve ognuno riuscì a farsi una propria vita. Michele e Luigi rimasero negli anni molto attaccati: il primo aveva quasi dieci anni più del secondo ed aveva un atteggiamento molto protettivo nei suoi confronti; il secondo aveva altresì nei riguardi del primo un rispetto assoluto, quasi a considerarlo un secondo padre […]. Una bella mattina i due fratelli si recarono alla stazione e salirono sul diretto per Napoli: nel pomeriggio la squadra locale, di cui erano tifosi, avrebbe affrontato la blasonata Inter. Avevano acquistato i biglietti tre mesi prima. Poco prima dell’alba, nell’approssimarsi della stazione di Benevento Luigi si accorse - da buon ferroviere qual era - che il treno viaggiava ad una velocità insolitamente elevata. Si aggrappò ad una maniglia temendo il peggio e dopo qualche attimo il convoglio deragliò in maniera spaventosa. Il treno, coricatosi sul fianco destro, andò a schiantarsi contro un’ala della stazione ferroviaria di Benevento, causando 22 morti e una settantina di feriti. Luigi assistette a quell’Apocalisse reggendosi disperatamente a quella maniglia. Tutto intorno era la fine del mondo: corpi scaraventati contro le pareti, carrozze accartocciate, stridore di lamiera, vetri infranti, urla strazianti. Quando, dopo un tempo che parve infinito, il treno impazzito si arrestò Luigi lasciò la maniglia e precipitò pesantemente su qualcosa di morbido, che ne attutì la caduta. Nella confusione non si rese subito conto di dove fosse atterrato. Spostò un impermeabile bagnato e sotto di esso vide il corpo senza vita di un uomo obeso, lo stesso che aveva visto dormire placidamente un attimo prima. Tra le lamiere iniziarono lentamente a sentirsi le grida disperate dei sopravvissuti. Luigi cominciò a cercare il fratello a gran voce: in quello scenario di morte e distruzione temeva che non fosse sopravvissuto. «Michele… Michele rispondi… Michele». Il fratello giaceva a poca distanza da lui e, sebbene sentisse quelle grida, non poteva rispondere dal momento che aveva subito uno schiacciamento toracico, oltreché la frattura del braccio destro. Quando Luigi ripeté per l’ennesima volta quell’urlo disperato Michele non ne poté più e sbottò in un nervosissimo: «…e statti zitto, accidenti a te: stai mettendo in subbuglio tutto il treno…». I primi soccorsi giunsero dopo quasi un’ora e con grande difficoltà le vittime cominciarono ad essere evacuate. Nella confusione andarono perse valigie, cappotti ed ogni altra cosa, e dunque - data la stagione invernale (era il 16 febbraio del ’53) - Luigi dovette suo malgrado accaparrarsi un palettò di cammello, elegantissimo, appartenuto ad un ragazzo che si trovava in viaggio di nozze con la moglie: entrambi erano deceduti. Nel frattempo a Foggia la notizia del disastro era arrivata in un baleno: i parenti si erano riuniti tutti intorno a Teresa, la matrona della famiglia, madre di Luigi e Michele, in attesa di sapere che fine avessero fatto i loro congiunti. Le prime informazioni parlavano di un deragliamento spaventoso, come mai se ne erano registrati fino ad allora, ed il bilancio dei morti, sebbene provvisorio, faceva temere il peggio. Le donne piangevano angosciate, ma sopra ad esse si levava la voce straziante di Teresa, come una litania ripetuta all’infinito per la salvezza dei figli: ad ogni preghiera ripeteva tre volte il nome di Michele ed una sola quella di Luigi. La faccenda parve strana al primogenito di Luigi: «Mamma’, ma perché la nonna dice tre volte il nome dello zio Michele ed una sola quello di papà?». Al che Marcella, che era una donna coraggiosa, fatalista e soprattutto molto intelligente rispose: «Perché lo zio le porta le medicine…!». Michele venne ricoverato all’ospedale di Benevento mentre Luigi, che aveva riportato solo una leggera ferita sulla fronte, tornò a casa. Fece tutto il viale che dalla Stazione portava alla Villa Comunale, salutato come un reduce da parenti e conoscenti, curiosi di sapere di quella triste avventura. A nessun sfuggì quell’elegante palettò di cammello, tanto che qualcuno arrivò a malignare biecamente, sostenendo che Luigi aveva approfittato di quella circostanza per rifarsi il guardaroba. Quando Marcella lo vide imboccare via Salomone con quel suo passo marziale da ex-sottufficiale dell’Esercito, sentì scendere due calde lacrime dagli occhi: non aveva pianto fino ad allora, era troppo ottimista per pensare che lui, proprio lui che aveva fatto la guerra in Grecia e Albania, e che dopo l’armistizio aveva sfidato la sorte durante l’occupazione tedesca pur di mantenere la famiglia, non sarebbe tornato. Scese in strada e lo fissò: solo allora si accorse dell’eleganza di suo marito. Sorrise appena, poi un singulto violento la scosse. Gli corse incontro con passi brevi, le mani veloci ad asciugare il volto rigato. L’angoscia che aveva sospeso il corso naturale dei giorni spariva all’improvviso, spazzata via da sciabolate di felicità. Lungo il vicolo c’era una folla curiosa che assisteva a quella scena mettendo imbarazzo. Ma Luigi, che pure era uomo schivo e di una serietà prussiana, quando la moglie gli fu vicino, non poté fare a meno di sollevarla e di stringerla a se tra le sue braccia forti. Quegli sguardi indiscreti erano svaniti.
P.S. Nell’atrio della stazione di Benevento, c’è una targa commemorativa che ricorda le vittime dell’incidente avvenuto il 16 febbraio 1953. Treno 816, ore 04.45. Ventidue morti e 70 feriti. E questo è ciò che disse il Ministro Malvestiti in risposta ad un’interrogazione parlamentare del 23 marzo 1953:
“In base alle risultanze dell’inchiesta all’uopo espletata, già rese di pubblico dominio, si può affermare che le cause del disastro ferroviario avvenuto a Benevento il 16 febbraio 1953 sono da ricercarsi nel mancato o troppo ritardato azionamento dei mezzi di frenatura del treno, la cui responsabilità è da attribuire ai due macchinisti del treno stesso, entrambi del deposito locomotive di Napoli smistamento. Il mancato intervento dei due agenti di macchina si verificò con ogni probabilità perché essi non rilevarono l’oltrepassamento del segnale di avviso e, solo allorché si trovarono a transitare sotto il segnale di prima categoria, sia resero conto che stavano ormai entrando in stazione, cioè troppo tardi per un efficace intervento. Nessun difetto presentava l’apparecchiatura di comando sia del freno automatico sia del freno moderabile, ubicata nella cabina anteriore nel senso di marcia, del locomotore 423.212 del treno di cui trattasi. Per quanto riguarda la sicurezza dell’esercizio essa è normalmente garantita dagli impianti esistenti e dalla applicazione delle norme che la disciplinano; naturalmente se tali disposizioni non vengono osservate possono verificarsi inconvenienti che in certi casi come in quello di Benevento assumono carattere di particolare gravità”.
giovedì 25 luglio 2013
Il ritorno dell’usato
La crisi economica ormai ha raggiunto un tale livello che non passa giorno che non se ne parli più che abbondantemente su tutti i giornali, i telegiornali e i siti internet: stime di Confindustria, rapporti di Federalberghi, dati del Ministero dell’Economia, Eurostat, tutti a snocciolare le cifre di questa difficile situazione. Stando all’ultimo rapporto Istat per esempio, a maggio si è registrato l’undicesimo mese consecutivo di flessioni nel comparto consumi e vendite: una vera mazzata per il mondo della produzione. Persino il settore alimentare stenta a tenere. E così gli italiani, di fronte a quest’emergenza agghiacciante, oltre a praticare altri tre o quattro buchi nella cintura dei calzoni, lentamente stanno riscoprendo usi e abitudini seppellite da tempo. Come quella del baratto: tu hai qualcosa che a me serve, ed io qualcosa di utile per te: bene, vediamo di scambiarcele senza che nessuno ci rimetta, ma anzi ci guadagni. Altro sintomo della crisi è la proliferazione dei “Compro oro” in tutte le città d’Italia. Avete fatto caso a quanti ne stanno spuntando? Quando la crisi era solo all’inizio si assisteva al curioso fenomeno della chiusura costante ed inarrestabile delle attività economiche e produttive, mentre continuavano a proliferare sportelli bancari. Ora invece, che anche le banche sono alla canna del gas (almeno questo è quello che vogliono farci credere…), non si assiste che all’apertura appunto di questi negozi in cui si acquistano le gioie domestiche, le piccole ricchezze conservate gelosamente nei cassetti più reconditi della casa (così i ladri non le scoprono…). Ovviamente anche quest’attività è, per usare un termine oscenamente moderno, un progetto a termine: quando si esauriranno i tesori di famiglia, inevitabilmente chiuderanno anche questi novelli banchi dei pegni senza resa.
Ma oltre ai preziosi, tutto il mercato dell’usato è in grande fermento. Se n’è occupato il quotidiano La Repubblica in un recente articolo. Stando ai dati forniti da Subito.it, uno dei maggiori portali di compravendite tra i privati, negli ultimi tempi si sta assistendo ad un incremento di acquisti/vendite dell’usato che in alcuni casi raggiunge la doppia cifra percentuale. E sono gli oggetti di maggior uso ad essere al vertice delle contrattazioni, a dimostrazione che il mercato dell’usato non è più una risorsa per prodotti marginali e di nicchia, ma una vera e propria alternativa ai negozi tradizionali. Si va dall’abbigliamento (+60 per cento), agli accessori (+60 per cento), dagli elettrodomestici (+55 per cento) ai libri (+48 per cento). E a riprova del fatto che le cose stanno veramente cambiando, compreso il rapporto che gli italiani hanno con i mezzi di trasporto, è significativo anche l’incremento delle compravendite di biciclette (+59 per cento). Personalmente non ho mai acquistato nulla attraverso questo canale. Una volta provai a comprare una mountain bike da un privato, ma all’ultimo non se ne fece nulla: il tipo, un ragazzo forse neanche maggiorenne, mi chiamò piagnucolando cinque minuti prima che andassi a ritirarla, dicendomi che c’aveva ripensato e non voleva più venderla. Altre volte, abbiamo provato a vendere qualche oggetto di famiglia non più in uso, tipo un elettrodomestico, un mobile. Per anni non abbiamo mai ricevuto alcuna chiamata per le nostre inserzioni. Forse non era il momento giusto, o il prezzo non era adeguato. La famiglia di mia zia di Napoli, viceversa, è specializzata in questo campo, e le riesce di piazzare qualunque tipo di cianfrusaglia in un tempo record. Il motivo non si capisce bene. Mio padre sostiene, un po’ maliziosamente, che chiunque riuscirebbe a vendere un oggetto (sostanzialmente ancora nuovo) comprato a cento e rivenduto a dieci. Ma forse non è tutto così semplice. Forse dipende anche dal bacino d’utenza, dalle parole che accompagnano la proposta, dal momento che si sceglie per entrare nel mercato. Ci sono mille variabili. In effetti però, ultimamente, ci è capitato di assistere ad un’inversione di tendenza, tanto che siamo riusciti a vendere un tavolo vecchio, delle sedie, un fornetto elettrico ed altre piccole cosucce. Non passa che qualche giorno che qualcuno si faccia vivo. Si tratta, com’è facilmente immaginabile, di acquirenti tutt’altro che benestanti: lo si capisce da molte cose, dal loro abbigliamento, dall’auto con la quale si presentano. E quando poi succede di riscuotere il denaro come contropartita per quegli oggetti, rimane in bocca come un gusto amaro, come colui che prende più di quanto sia lecito. Il che è assurdo considerato che quello è comunque un prezzo scontatissimo, stracciato, un valore simbolico purché qualcuno ci liberi da quel fardello ingombrante. C’è poco da fare: mercanti si nasce…! Una volta mia madre arrivò all’assurdo: cambiati i sanitari del bagno al piano terra, ci restavano sul groppone il vecchio lavabo, un bedet, e una tazza del water. Il primo venne ritirato da un rigattiere, mentre il secondo, essendo spaccato alla base, finì mestamente in discarica. Rimaneva il water. Che farne? A mia madre venne il lampo di genio: “Lo mettiamo in vendita su Secondamano”. Cercai di oppormi con tutte le mie forze pensando che fosse poco dignitoso mercanteggiare su quell’oggetto di decenza. Ma mia madre insistette. Si pose il problema di cosa scrivere nell’annuncio. Me ne tirai fuori assai vigliaccamente. Dopo lungo pensa e ripensa, ecco la trovata geniale: “Vendesi water in ceramica Pozzi seminuovo, usato poco e ancora bello da vedere”. Ventiquattrore dopo la comparsa dell’inserzione, venne acquistato. E senza neanche la richiesta del classico sconticino. D’altra parte bello era bello.
Fonte: http://www.repubblica.it/economia/2013/07/24/news/boom_dell_usato_online_anti-crisi_caccia_all_occasione_dai_vestitini_alle_barche-63594260/
Ma oltre ai preziosi, tutto il mercato dell’usato è in grande fermento. Se n’è occupato il quotidiano La Repubblica in un recente articolo. Stando ai dati forniti da Subito.it, uno dei maggiori portali di compravendite tra i privati, negli ultimi tempi si sta assistendo ad un incremento di acquisti/vendite dell’usato che in alcuni casi raggiunge la doppia cifra percentuale. E sono gli oggetti di maggior uso ad essere al vertice delle contrattazioni, a dimostrazione che il mercato dell’usato non è più una risorsa per prodotti marginali e di nicchia, ma una vera e propria alternativa ai negozi tradizionali. Si va dall’abbigliamento (+60 per cento), agli accessori (+60 per cento), dagli elettrodomestici (+55 per cento) ai libri (+48 per cento). E a riprova del fatto che le cose stanno veramente cambiando, compreso il rapporto che gli italiani hanno con i mezzi di trasporto, è significativo anche l’incremento delle compravendite di biciclette (+59 per cento). Personalmente non ho mai acquistato nulla attraverso questo canale. Una volta provai a comprare una mountain bike da un privato, ma all’ultimo non se ne fece nulla: il tipo, un ragazzo forse neanche maggiorenne, mi chiamò piagnucolando cinque minuti prima che andassi a ritirarla, dicendomi che c’aveva ripensato e non voleva più venderla. Altre volte, abbiamo provato a vendere qualche oggetto di famiglia non più in uso, tipo un elettrodomestico, un mobile. Per anni non abbiamo mai ricevuto alcuna chiamata per le nostre inserzioni. Forse non era il momento giusto, o il prezzo non era adeguato. La famiglia di mia zia di Napoli, viceversa, è specializzata in questo campo, e le riesce di piazzare qualunque tipo di cianfrusaglia in un tempo record. Il motivo non si capisce bene. Mio padre sostiene, un po’ maliziosamente, che chiunque riuscirebbe a vendere un oggetto (sostanzialmente ancora nuovo) comprato a cento e rivenduto a dieci. Ma forse non è tutto così semplice. Forse dipende anche dal bacino d’utenza, dalle parole che accompagnano la proposta, dal momento che si sceglie per entrare nel mercato. Ci sono mille variabili. In effetti però, ultimamente, ci è capitato di assistere ad un’inversione di tendenza, tanto che siamo riusciti a vendere un tavolo vecchio, delle sedie, un fornetto elettrico ed altre piccole cosucce. Non passa che qualche giorno che qualcuno si faccia vivo. Si tratta, com’è facilmente immaginabile, di acquirenti tutt’altro che benestanti: lo si capisce da molte cose, dal loro abbigliamento, dall’auto con la quale si presentano. E quando poi succede di riscuotere il denaro come contropartita per quegli oggetti, rimane in bocca come un gusto amaro, come colui che prende più di quanto sia lecito. Il che è assurdo considerato che quello è comunque un prezzo scontatissimo, stracciato, un valore simbolico purché qualcuno ci liberi da quel fardello ingombrante. C’è poco da fare: mercanti si nasce…! Una volta mia madre arrivò all’assurdo: cambiati i sanitari del bagno al piano terra, ci restavano sul groppone il vecchio lavabo, un bedet, e una tazza del water. Il primo venne ritirato da un rigattiere, mentre il secondo, essendo spaccato alla base, finì mestamente in discarica. Rimaneva il water. Che farne? A mia madre venne il lampo di genio: “Lo mettiamo in vendita su Secondamano”. Cercai di oppormi con tutte le mie forze pensando che fosse poco dignitoso mercanteggiare su quell’oggetto di decenza. Ma mia madre insistette. Si pose il problema di cosa scrivere nell’annuncio. Me ne tirai fuori assai vigliaccamente. Dopo lungo pensa e ripensa, ecco la trovata geniale: “Vendesi water in ceramica Pozzi seminuovo, usato poco e ancora bello da vedere”. Ventiquattrore dopo la comparsa dell’inserzione, venne acquistato. E senza neanche la richiesta del classico sconticino. D’altra parte bello era bello.
Fonte: http://www.repubblica.it/economia/2013/07/24/news/boom_dell_usato_online_anti-crisi_caccia_all_occasione_dai_vestitini_alle_barche-63594260/
mercoledì 24 luglio 2013
Il decalogo della distrazione di massa
Nel panorama dell’informazione globale spesso passano notizie talmente insulse che per forza di cose ci si lascia andare a commenti tutt’altro che oxfordiani: “I principini mostrano felici il futuro erede al trono”. Commento: e chi se ne fotte…! “Antonella Bricoli ha dato alle stampe il suo ultimo libro di ricette: sarà di certo il successo editoriale dell’anno”. Commento: ma sti cazzi…! “Il ritorno delle espadrillas”. Mej cojoni…! “In Germania la spesa è gratis per i clienti nudi”. Cosa non si farebbe per battere la crisi. “Tartaruga alligatore trovata nelle risaie lombarde”. Fantastico: speriamo che il primo ad essere morso sia l’autore dello scoop.
Tutto sommato però qui si tratta di notizie di alleggerimento, ovvero articoli e servizi che solitamente chiudono i telegiornali e che si collocano nella categoria “costume e società”, tanto amata da lettori e spettatori. E fin qui tutto normale, a patto che ciò occupi uno spazio minimo rispetto a tutto il resto dell’offerta informativa. I problemi veri, in realtà sono altri. Una società complessa come la nostra per essere guidata “a dovere” necessita di meccanismi, tattiche e strategie comunicative assai raffinate. Gustave Le Bon, antropologo, psicologo e sociologo francese, sosteneva che: “Nell’anima collettiva, le attitudini intellettuali degli uomini, e di conseguenza le loro individualità, si annullano. L’eterogeneo si dissolve nell’omogeneo e i caratteri inconsci predominano”. Assunto preso alla lettera dai “padroni del vapore” di ogni epoca e latitudine. In effetti governare un popolo strutturato su di un modello unico di pensiero e di sviluppo, uno stile unico di vita (il famigerato “way of life”), una comune appartenenza di culture, costumi, abitudini, tradizioni, è molto più semplice che non tenere sotto controllo una massa di persone libere di abbeverarsi alle fonti che più gradiscono. Non per nulla l’intellettuale non irreggimentato è da sempre il nemico numero uno delle dittature. In altre parole, il tutto sta nell’omologare: poi il resto viene da se. E che ciò avvenga attraverso una subdola manipolazione delle opinioni e delle abitudini delle masse, poco conta: l’importante è che prevalga il bene collettivo. Già, ma chi stabilisce cos’è bene e cos’è male? La crescita economica esponenziale è un bene o un male? I consumi sono un bene in se o sono indispensabili perché altrimenti il sistema produttivo così impostato crollerebbe? Produciamo per consumare, o consumiamo per produrre? Domande che, in un sistema di valori perfettamente chiuso, non troverebbero neanche asilo. Noam Chomsky, filosofo e teorico della comunicazione statunitense, nonché professore emerito di linguistica al MIT (Massachusetts Institute of Technology), servendosi di dieci regole ha spiegato in che maniera i cosiddetti “poteri forti” riescono a manipolare le menti delle masse. Andiamo a dare un’occhiata:
1) Per ottenere un efficace controllo sociale prima di tutto occorre mettere in atto la strategia della distrazione: si allontana il pubblico dai problemi importanti annegando la sua attenzione sotto un’ondata di informazioni inutili. Così facendo è più semplice far passare provvedimenti e decisioni sgradite a tutti tranne che alle elite dominanti.
2) In secondo luogo è assai utile attivare la catena “problema- reazione- soluzione”. Si crea volutamente un problema (sicurezza, epidemie etc…) con lo scopo di provocare una reazione delle masse, tale che la situazione evolva nella maniera desiderata da coloro che tirano le fila. Ad esempio, restringimento delle libertà personali, acquisti esorbitanti di farmaci (con relativi profitti per le lobby…). Alcuni arrivano a sostenere che la crisi economica sia tutta una montatura al fine di far accettare come indispensabili i tagli al welfare.
3) Altra grande trovata è la strategia della gradualità. Se si diluisce nel tempo un provvedimento inaccettabile né ora né mai, è più facile che ci si faccia l’abitudine.
4) Vi è poi la strategia del differimento, ovvero presentare una decisione impopolare come “dolorosa e necessaria”, procrastinandone l’applicazione in futura. Futuro che prima o poi arriverà però. Il cittadino medio spesso a questo non ci pensa. E comunque può sempre sperare che le cose migliorino col tempo.
5) Occorre inoltre rivolgersi al pubblico come se si parlasse a dei bambini. Secondo il principio della suggestionabilità, infatti, se qualcuno si rivolge a noi con atteggiamento infantile, tenderemo a regolarci sulla sua stessa lunghezza d’onda. Facendo crollare il nostro senso critico. Questo è il classico sistema usato in pubblicità.
6) Bisogna poi spingere sull’aspetto emotivo piuttosto che sul ragionamento e la riflessione. Un individuo preda delle emozioni, sarà più facilmente influenzabile. Di solito in politica si usa l’espressione: “Occorre parlare alla pancia del paese”.
7) Per tenere le masse sotto controllo inoltre è necessario far dilagare ignoranza e mediocrità.
8) E come conseguenza è cosa “buona e giusta” stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità, la volgarità, la stupidità, abituarlo al peggio e non al meglio.
9) Rafforzare l’auto-colpevolezza. Più si farà credere alle masse che la triste condizione in cui versano è colpa loro e non di altri, e più si spanderà un clima di rassegnazione sulle fasce sociali. E come conseguenza non vi saranno ribellioni, manifestazioni, né rivendicazioni di alcun genere.
10) L’ultima regola poi, la più bieca di tutte, consiste nel conoscere gli individui meglio e di più di quanto essi stessi si conoscano. E a ciò vengono in aiuto tutti i più avanzati sistemi di monitoraggio di massa sulle mode, sulle tendenze, sui gusti e sulle opinioni. Quando decidiamo che qualcosa ci piace, 99 su 100 è perché qualcuno ha già deciso per noi.
E noi saremmo quelli che vogliono esportare democrazia e libertà in giro per il mondo? Ma fatemi il piacere…!
Tutto sommato però qui si tratta di notizie di alleggerimento, ovvero articoli e servizi che solitamente chiudono i telegiornali e che si collocano nella categoria “costume e società”, tanto amata da lettori e spettatori. E fin qui tutto normale, a patto che ciò occupi uno spazio minimo rispetto a tutto il resto dell’offerta informativa. I problemi veri, in realtà sono altri. Una società complessa come la nostra per essere guidata “a dovere” necessita di meccanismi, tattiche e strategie comunicative assai raffinate. Gustave Le Bon, antropologo, psicologo e sociologo francese, sosteneva che: “Nell’anima collettiva, le attitudini intellettuali degli uomini, e di conseguenza le loro individualità, si annullano. L’eterogeneo si dissolve nell’omogeneo e i caratteri inconsci predominano”. Assunto preso alla lettera dai “padroni del vapore” di ogni epoca e latitudine. In effetti governare un popolo strutturato su di un modello unico di pensiero e di sviluppo, uno stile unico di vita (il famigerato “way of life”), una comune appartenenza di culture, costumi, abitudini, tradizioni, è molto più semplice che non tenere sotto controllo una massa di persone libere di abbeverarsi alle fonti che più gradiscono. Non per nulla l’intellettuale non irreggimentato è da sempre il nemico numero uno delle dittature. In altre parole, il tutto sta nell’omologare: poi il resto viene da se. E che ciò avvenga attraverso una subdola manipolazione delle opinioni e delle abitudini delle masse, poco conta: l’importante è che prevalga il bene collettivo. Già, ma chi stabilisce cos’è bene e cos’è male? La crescita economica esponenziale è un bene o un male? I consumi sono un bene in se o sono indispensabili perché altrimenti il sistema produttivo così impostato crollerebbe? Produciamo per consumare, o consumiamo per produrre? Domande che, in un sistema di valori perfettamente chiuso, non troverebbero neanche asilo. Noam Chomsky, filosofo e teorico della comunicazione statunitense, nonché professore emerito di linguistica al MIT (Massachusetts Institute of Technology), servendosi di dieci regole ha spiegato in che maniera i cosiddetti “poteri forti” riescono a manipolare le menti delle masse. Andiamo a dare un’occhiata:
1) Per ottenere un efficace controllo sociale prima di tutto occorre mettere in atto la strategia della distrazione: si allontana il pubblico dai problemi importanti annegando la sua attenzione sotto un’ondata di informazioni inutili. Così facendo è più semplice far passare provvedimenti e decisioni sgradite a tutti tranne che alle elite dominanti.
2) In secondo luogo è assai utile attivare la catena “problema- reazione- soluzione”. Si crea volutamente un problema (sicurezza, epidemie etc…) con lo scopo di provocare una reazione delle masse, tale che la situazione evolva nella maniera desiderata da coloro che tirano le fila. Ad esempio, restringimento delle libertà personali, acquisti esorbitanti di farmaci (con relativi profitti per le lobby…). Alcuni arrivano a sostenere che la crisi economica sia tutta una montatura al fine di far accettare come indispensabili i tagli al welfare.
3) Altra grande trovata è la strategia della gradualità. Se si diluisce nel tempo un provvedimento inaccettabile né ora né mai, è più facile che ci si faccia l’abitudine.
4) Vi è poi la strategia del differimento, ovvero presentare una decisione impopolare come “dolorosa e necessaria”, procrastinandone l’applicazione in futura. Futuro che prima o poi arriverà però. Il cittadino medio spesso a questo non ci pensa. E comunque può sempre sperare che le cose migliorino col tempo.
5) Occorre inoltre rivolgersi al pubblico come se si parlasse a dei bambini. Secondo il principio della suggestionabilità, infatti, se qualcuno si rivolge a noi con atteggiamento infantile, tenderemo a regolarci sulla sua stessa lunghezza d’onda. Facendo crollare il nostro senso critico. Questo è il classico sistema usato in pubblicità.
6) Bisogna poi spingere sull’aspetto emotivo piuttosto che sul ragionamento e la riflessione. Un individuo preda delle emozioni, sarà più facilmente influenzabile. Di solito in politica si usa l’espressione: “Occorre parlare alla pancia del paese”.
7) Per tenere le masse sotto controllo inoltre è necessario far dilagare ignoranza e mediocrità.
8) E come conseguenza è cosa “buona e giusta” stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità, la volgarità, la stupidità, abituarlo al peggio e non al meglio.
9) Rafforzare l’auto-colpevolezza. Più si farà credere alle masse che la triste condizione in cui versano è colpa loro e non di altri, e più si spanderà un clima di rassegnazione sulle fasce sociali. E come conseguenza non vi saranno ribellioni, manifestazioni, né rivendicazioni di alcun genere.
10) L’ultima regola poi, la più bieca di tutte, consiste nel conoscere gli individui meglio e di più di quanto essi stessi si conoscano. E a ciò vengono in aiuto tutti i più avanzati sistemi di monitoraggio di massa sulle mode, sulle tendenze, sui gusti e sulle opinioni. Quando decidiamo che qualcosa ci piace, 99 su 100 è perché qualcuno ha già deciso per noi.
E noi saremmo quelli che vogliono esportare democrazia e libertà in giro per il mondo? Ma fatemi il piacere…!
martedì 23 luglio 2013
Turisti fai da te? Ahi ahi ahi…!
Un tempo quando si decideva di andare in vacanza in un qualche luogo ove non si fosse mai stati prima ci si consultava con amici e conoscenti, si prendevano informazioni dove si poteva, ci si confidava con chi quel posto già lo conosceva o che comunque aveva notizie di prima mano. Le voci giravano, si davano delle dritte sulle località più amene, sugli alberghi più accoglienti, sui ristoranti più rinomati. Era un passaparola che assicurava, se non la certezza, per lo meno una certa qual garanzia di non incorrere in fregature bell’e buone. Ed era così che si programmavano spesso le ferie, dando cioè retta alle voci di chi era tornato soddisfatto, di chi meritava fiducia sulla parola. Perché infondo spendere soldi avendo in cambio un servizio scadente, oggi come allora, non piace proprio a nessuno. Chi poteva permetterselo viceversa, si affidava alle agenzie viaggi, che dietro un congruo compenso, programmavano tutto, dal viaggio al vitto e all’alloggio. Anche oggi è così. Negli ultimi anni tuttavia, grazie alle possibilità offerte da Internet, e all’abilità raggiunta dai navigatori del web, si è diffusa la moda di organizzare viaggi in perfetta autonomia. Secondo un recente sondaggio della Doxa infatti, ben 62 italiani su 100 scelgono il web per organizzare viaggi o programmare le ferie. D’altra parte ormai non ci sono più frontiere alla conoscenza e alla scoperta dei luoghi, delle strutture, dei mezzi di trasporto e quant’altro. Basta solo un po’ di buona volontà. Chiunque infatti, non solo può immaginare, e dunque realizzare qualsiasi tipo di viaggio, ma addirittura può visualizzare sul proprio schermo il luogo in cui ha scelto di soggiornare, scrutarne gli interni, ammirare gli scorci di mare che si aprono dalla finestra della camere prenotata. Con Google Street-View addirittura è possibile seguire passo passo l’itinerio prescelto, addentrarsi lungo le strade, soffermarsi sui panorami. Ci sono portali poi che non solo mettono a disposizione liste infinite di ristoranti, alberghi, locande e altri tipo di strutture ricettive, ma che addirittura raccolgono giudizi e recensioni fatte dai clienti transitati da quei luoghi. Una vera e propria banca dati a disposizione degli utenti della rete. E così, grazie a pochi minuti di lettura proficua e attenta, ecco che chiunque può farsi un’idea sul posto individuato per trascorrere le proprie vacanze. E, se del caso, rallegrarsi con se stessi per l’ottima scelta, oppure correre ai ripari optando per un’altra soluzione. Sul La Stampa di ieri però ho letto un articolo con un titolo inquietante: “Sul web recensioni pilotate di hotel e ristoranti - casi di vacanze rovinate aumentano, anche a causa delle false recensione postate on-line dagli alberghi”. O per bacco, mi son detto con espressione stupita e contrariata. In effetti avevo immaginato che non fosse proprio tutto oro colato ciò che si legge in rete, questo è ovvio, ma mai avrei immaginato di leggere ciò che stiamo per andarvi a raccontare. Secondo il quotidiano torinese infatti, per un albergatore senza troppi scrupoli e desideroso di aumentare la reputazione della propria attività ad ogni costo, è un gioco da ragazzi acquisire falsi titoli di merito. Per fare ciò pare che esistano agguerritissime agenzie appositamente specializzate in “servizi di marketing” (dietro questa stramaledetta locuzione ormai si nascondono business di ogni genere) in grado di inondare il web di commenti e giudizi menzogneri e prezzolati. Per quanto se ne sa, esistono listini e tariffari che offrono vari tipo di servizi e prestazioni: si va dai 49 euro per poter esibire un migliaio di “fans” su Facebook, ai 25 per un giudizio positivo sui siti degli alberghi, fino ai 9 euro per mille visite al proprio video caricato su Youtube. Tutto ha un prezzo, come si sa, e questo mercato dell’inganno non fa eccezione. Leggendo di queste cifre e di questi mercanteggiamenti, mi è venuta in mente la scena del film Fantozzi contro tutti, quando il tragico ragioniere si reca in chiesa per ordinare una messa. E il laido sacerdote gli chiede a bruciapelo: “Pro o contro? Contro sono 50 mila. Cantata fanno centomila”.
Non c’è limite all’orrore, e Villaggio, pur nella caricatura, ha affondato sapientemente il coltello nella piaga della nostra meschinità.
A quanto pare, peraltro, tutto ciò non ha alcunché di illegale, nonostante la frode palesemente conclamata. Federalberghi precisa infatti, che così come non è sostanzialmente possibile proteggersi da eventuali recensioni diffamatorie pubblicate sul web, allo stesso tempo non è possibile vietare la pubblicazione di false recensioni positive. Secondo le stime della Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) sulla rete ogni tre recensioni, una è falsa.
Per arginare questo fenomeno deleterio, che rischia di assestare un duro colpo alla credibilità di siti come Tripadvisor, Trivago, Venere.com etc…, ci sono equipe appositamente impiegate allo scopo di smascherare le “bufale”. Ad ogni modo, suggeriscono gli esperti, onde evitare fregature, occorre seguire tre regole. Primo: diffidare degli esercizi che contano su di una sola recensione; secondo: controllare le date dei commenti (se sono coincidenti o troppo prossime le une con le altre vuol dire che qualcosa non torna); terzo: verificare che colui che ha effettuato la recensione sia una persona identificabile.
Devo essere sincero, anch’io ho lasciato dietro di me un giudizio su un albergo. Ero stato con amici a Rimini per la consueta biciclettata di metà primavera. Avevamo soggiornato in un hotel di Marina Centro e quella volta ero andato veramente al risparmio: 36 euro per la mezza pensione. Tanto che il nostro amico Salvo commentò la cosa con queste parole: “Bene, molto bene: per meno di 36 euro si va a dormire sotto i ponti”. L’albergo non era niente di eccezionale, questo è vero, le stanze piccole, i cessi ancor di più, ma la colazione era abbondante e la cena, tutto sommato dignitosa. I più esigenti tuttavia ebbero a lamentarsi per il trattamento e a nulla valse la mia obiezione: “Sì, ma c’è anche il bere compreso nel prezzo”. Alla fine del soggiorno, mi congedai cordialmente dal simpatico ragazzotto che gestiva l’albergo. Forse troppo cordialmente. Ed infatti, un attimo prima di inforcare le bici, costui mi raggiunse e sottovoce mi sussurrò: “Posso chiederti un favore? Non è che faresti una recensione - a favore, s’intende - sul nostro albergo? Sai, ci sarebbe di grande utilità”. Gli risposi evasivamente che appena fossi tornato a casa mi sarei dato da fare. Trascorsero un paio di giorni, e sebbene non ne avessi alcuna voglia, buttai giù alcune righe. Mi sforzai di trovare un giusto equilibrio, ma ne venne fuori ugualmente una specie di panegirico di cui più tardi mi sarei vergognato. Non so perché venne fuori quel genere di recensione (a gratis, tra l’altro: a saperlo prima mi facevo scucire 25 euro…), ma così fu. Che poi, ad essere sinceri, non mi ero trovato male in quell’albergo. Certo non ci sarei tornato, ma per quella cifra non si poteva pretendere niente di più.
Ecco, l’unica speranza è quella di non aver contribuito a diffondere false illusioni. Di certo comunque non c’ho guadagnato niente: almeno l’onore è salvo.
Fonte: http://www.lastampa.it/2013/07/22/societa/come-smascherare-le-bugie-che-rovinano-le-vacanze-3CyzYDgVB9ImOjhWV4sm1I/pagina.html
Non c’è limite all’orrore, e Villaggio, pur nella caricatura, ha affondato sapientemente il coltello nella piaga della nostra meschinità.
A quanto pare, peraltro, tutto ciò non ha alcunché di illegale, nonostante la frode palesemente conclamata. Federalberghi precisa infatti, che così come non è sostanzialmente possibile proteggersi da eventuali recensioni diffamatorie pubblicate sul web, allo stesso tempo non è possibile vietare la pubblicazione di false recensioni positive. Secondo le stime della Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) sulla rete ogni tre recensioni, una è falsa.
Per arginare questo fenomeno deleterio, che rischia di assestare un duro colpo alla credibilità di siti come Tripadvisor, Trivago, Venere.com etc…, ci sono equipe appositamente impiegate allo scopo di smascherare le “bufale”. Ad ogni modo, suggeriscono gli esperti, onde evitare fregature, occorre seguire tre regole. Primo: diffidare degli esercizi che contano su di una sola recensione; secondo: controllare le date dei commenti (se sono coincidenti o troppo prossime le une con le altre vuol dire che qualcosa non torna); terzo: verificare che colui che ha effettuato la recensione sia una persona identificabile.
Devo essere sincero, anch’io ho lasciato dietro di me un giudizio su un albergo. Ero stato con amici a Rimini per la consueta biciclettata di metà primavera. Avevamo soggiornato in un hotel di Marina Centro e quella volta ero andato veramente al risparmio: 36 euro per la mezza pensione. Tanto che il nostro amico Salvo commentò la cosa con queste parole: “Bene, molto bene: per meno di 36 euro si va a dormire sotto i ponti”. L’albergo non era niente di eccezionale, questo è vero, le stanze piccole, i cessi ancor di più, ma la colazione era abbondante e la cena, tutto sommato dignitosa. I più esigenti tuttavia ebbero a lamentarsi per il trattamento e a nulla valse la mia obiezione: “Sì, ma c’è anche il bere compreso nel prezzo”. Alla fine del soggiorno, mi congedai cordialmente dal simpatico ragazzotto che gestiva l’albergo. Forse troppo cordialmente. Ed infatti, un attimo prima di inforcare le bici, costui mi raggiunse e sottovoce mi sussurrò: “Posso chiederti un favore? Non è che faresti una recensione - a favore, s’intende - sul nostro albergo? Sai, ci sarebbe di grande utilità”. Gli risposi evasivamente che appena fossi tornato a casa mi sarei dato da fare. Trascorsero un paio di giorni, e sebbene non ne avessi alcuna voglia, buttai giù alcune righe. Mi sforzai di trovare un giusto equilibrio, ma ne venne fuori ugualmente una specie di panegirico di cui più tardi mi sarei vergognato. Non so perché venne fuori quel genere di recensione (a gratis, tra l’altro: a saperlo prima mi facevo scucire 25 euro…), ma così fu. Che poi, ad essere sinceri, non mi ero trovato male in quell’albergo. Certo non ci sarei tornato, ma per quella cifra non si poteva pretendere niente di più.
Ecco, l’unica speranza è quella di non aver contribuito a diffondere false illusioni. Di certo comunque non c’ho guadagnato niente: almeno l’onore è salvo.
Fonte: http://www.lastampa.it/2013/07/22/societa/come-smascherare-le-bugie-che-rovinano-le-vacanze-3CyzYDgVB9ImOjhWV4sm1I/pagina.html
lunedì 22 luglio 2013
La Transiberiana d’Italia
L’altro giorno su Facebook la nostra amica Alessandra di Pescara, ha commentato un video che gira su Youtube: “In viaggio sulla Transiberiana d’Italia”. Sottotitolo: “Un viaggio indimenticabile con 70 fotoamatori e blogger a bordo del treno”. Ne sono subito stato attratto, c’è poco da dire: quando si tratta di treni, non riesco a resistere. Sarà una questione sentimentale (mio padre, mio nonno e il mio bisnonno hanno lavorato per le ferrovie…), sarà che respiro gli odori delle stazioni e dei binari fin dall’infanzia (ho imparato a viaggiare col treno già da piccolissimo), sarà che amo questo mezzo di trasporto più di ogni altro, (su di esso mi sento sicuro, non devo fare attenzione a ciò che accade intorno a me, posso godermi comodamente lo spettacolo, anche se con visione laterale), fatto sta che quando si tratta di notizie di questo genere non riesco a fare a meno di immergermi in quest’atmosfera sferragliante. E così sono andato immediatamente a guardare il video. La tratta in questione è la “Sulmona - Isernia”, una linea leggendaria che, passando da Roccaraso, Castel di Sangro, San Pietro Avellana, Carpinone, sfiora le vette più alte d’Abruzzo, ovvero il Gran Sasso e la Majella. Un paesaggio spaventosamente affascinante, fatto di monti coperti di boschi, vette spoglie e brulle, paesini arrampicati sulle colline, gole rocciose. Il tutto sotto un cielo azzurro cosparso di candidi batuffoli di cotone.
Progettata nel 1885, la linea venne inaugurata il 18 settembre 1892. Per completare i suoi 129 chilometri, fu necessario realizzare 58 gallerie e 103 ponti e viadotti. A causa delle violente nevicate che interessano la zona nel periodo invernale, si rese inoltre necessaria la costruzione di gallerie paravalanghe, muri protettivi e addirittura la piantagione di intere pinete. Un prodigio dell’ingegneria ferroviaria. Dai 405 metri di Sulmona i binari salgono a Rivisondoli, 1268 metri (la stazione più alta dell’intera linea dopo quella del Brennero), per poi ridiscendere, attraverso l’alto Molise, verso i 403 metri di Isernia. In alcuni punti la pendenza sfiora il 35 per mille, e quando ancora le locomotive sfruttavano la forza del vapore, era necessaria la sosta a Sant’Ilario Sangro per fare il pieno d’acqua.
Fuori dal finestrino si rincorrono paesaggi incantati, panorami ondulati, distese brulle dove non è così difficile intravedere branchi di cavalli allo stato brado. Siamo nella terra degli antichi Sanniti, i fieri e indomiti avversari di Roma.
Ebbene, questa meraviglia, a partire dall’11 dicembre 2011, è stata dichiarata “tratta antieconomica”e come conseguenza sono sparite le ultime due coppie di collegamenti tra Sulmona e Castel di Sangro e viceversa, residui dei già tagliati collegamenti diretti tra Napoli e Sulmona. Ad oggi, di tutta la linea, solo l’ultimo brevissimo tratto molisano, Carpinone-Isernia, effettua servizio regolare. Sul restante tratto circolano ogni tanto treni straordinari (una domenica al mese), grazie all’impegno di alcuni volontari che non vogliono arrendersi alla scomparsa di questa realtà. Una sorta di riserva indiana, tenuta viva dalla presenza dei pochi turisti attirati dalle iniziative organizzate da associazioni locali.
Il convoglio parte da Isernia al mattino, raggiunge Sulmona e nel pomeriggio, dopo una sosta di un paio d’ore, fa ritorno nella cittadina molisana. Il tutto per 35 euro, pranzo a bordo compreso. E per le normali giornate feriali? Nessun problema: come ci ricorda puntualmente Wikipedia “le corse sono infatti sostituite da autobus i quali, per toccare tutti i paesi prima serviti dalla ferrovia, impiegano un tempo maggiore del treno. Proprio per arrivare venti minuti prima del treno tra Sulmona e Castel di Sangro, gli autobus hanno tagliato il transito per diverse stazioni effettuando solo il transito sulla SS 17”. Che meraviglia, non vi pare? Questo è il progresso: là dove un tempo esisteva il concetto di servizio al cittadino (fosse anche in perdita), oggi c’è il profitto quale unica stella polare da seguire. E dunque si taglia, si ridimensiona o addirittura si sopprime. In un articolo de La Repubblica di sabato scorso, dal titolo “Treni più lenti di 40 anni fa - ecco come viaggia l’Italia”, si tratteggia la situazione del trasporto ferroviario attuale. Con una fantasmagorica dicotomia tra le tratte “ad alta velocità”, assai remunerative e dunque polo gravitazionale di investimenti e attenzioni, e le linee anti-economiche, abbandonate inesorabilmente al loro triste destino. Esse e gli sfortunati utenti (opss… clienti…) che disgraziatamente sono obbligati a utilizzarle. E così si scopre che, mentre un tempo per raggiungere Roma da Milano ci si impiegavano oltre cinque ore, oggi ne bastano poco meno di tre. Ma al contempo, per esempio, sulla tratta Messina - Palermo la velocità media di percorrenza è scesa dai 95 km/h. del 1975 ai 74 di oggi. E ciò non accade solo nel profondo Sud, ma anche nel ricco e progredito Nord: tra Brescia e Cremona (51 chilometri) un tempo all’Espresso bastavano quarantuno minuti, oggi ne occorrono cinquantatre con il Regionale Veloce.
L’unica speranza a questo punto è che il turismo ferroviario, sul modello delle linee alpine (tipo il Bernina Express) si sviluppi e prenda sempre più piede, e che dunque non si arrivi alla dismissione completa della Transiberiana d’Italia. Non ci resta che incrociare le dita. Auguri.
Fonte: http://www.youtube.com/watch?v=fMuAPcnEsZI&list=UU5tHqUSETqLGa3bu2uEzRxw
Leggi anche: http://www.repubblica.it/cronaca/2013/07/20/news/treni_pi_lenti_di_40_anni_fa_ecco_come_viaggia_litalia-63350856/?ref=HREC2-13
http://viaggi.corriere.it/viaggi/vacanze/2013/transiberiana-italia/transiberiana-italia-tempiliberi.shtml
Progettata nel 1885, la linea venne inaugurata il 18 settembre 1892. Per completare i suoi 129 chilometri, fu necessario realizzare 58 gallerie e 103 ponti e viadotti. A causa delle violente nevicate che interessano la zona nel periodo invernale, si rese inoltre necessaria la costruzione di gallerie paravalanghe, muri protettivi e addirittura la piantagione di intere pinete. Un prodigio dell’ingegneria ferroviaria. Dai 405 metri di Sulmona i binari salgono a Rivisondoli, 1268 metri (la stazione più alta dell’intera linea dopo quella del Brennero), per poi ridiscendere, attraverso l’alto Molise, verso i 403 metri di Isernia. In alcuni punti la pendenza sfiora il 35 per mille, e quando ancora le locomotive sfruttavano la forza del vapore, era necessaria la sosta a Sant’Ilario Sangro per fare il pieno d’acqua.
Fuori dal finestrino si rincorrono paesaggi incantati, panorami ondulati, distese brulle dove non è così difficile intravedere branchi di cavalli allo stato brado. Siamo nella terra degli antichi Sanniti, i fieri e indomiti avversari di Roma.
Ebbene, questa meraviglia, a partire dall’11 dicembre 2011, è stata dichiarata “tratta antieconomica”e come conseguenza sono sparite le ultime due coppie di collegamenti tra Sulmona e Castel di Sangro e viceversa, residui dei già tagliati collegamenti diretti tra Napoli e Sulmona. Ad oggi, di tutta la linea, solo l’ultimo brevissimo tratto molisano, Carpinone-Isernia, effettua servizio regolare. Sul restante tratto circolano ogni tanto treni straordinari (una domenica al mese), grazie all’impegno di alcuni volontari che non vogliono arrendersi alla scomparsa di questa realtà. Una sorta di riserva indiana, tenuta viva dalla presenza dei pochi turisti attirati dalle iniziative organizzate da associazioni locali.
Il convoglio parte da Isernia al mattino, raggiunge Sulmona e nel pomeriggio, dopo una sosta di un paio d’ore, fa ritorno nella cittadina molisana. Il tutto per 35 euro, pranzo a bordo compreso. E per le normali giornate feriali? Nessun problema: come ci ricorda puntualmente Wikipedia “le corse sono infatti sostituite da autobus i quali, per toccare tutti i paesi prima serviti dalla ferrovia, impiegano un tempo maggiore del treno. Proprio per arrivare venti minuti prima del treno tra Sulmona e Castel di Sangro, gli autobus hanno tagliato il transito per diverse stazioni effettuando solo il transito sulla SS 17”. Che meraviglia, non vi pare? Questo è il progresso: là dove un tempo esisteva il concetto di servizio al cittadino (fosse anche in perdita), oggi c’è il profitto quale unica stella polare da seguire. E dunque si taglia, si ridimensiona o addirittura si sopprime. In un articolo de La Repubblica di sabato scorso, dal titolo “Treni più lenti di 40 anni fa - ecco come viaggia l’Italia”, si tratteggia la situazione del trasporto ferroviario attuale. Con una fantasmagorica dicotomia tra le tratte “ad alta velocità”, assai remunerative e dunque polo gravitazionale di investimenti e attenzioni, e le linee anti-economiche, abbandonate inesorabilmente al loro triste destino. Esse e gli sfortunati utenti (opss… clienti…) che disgraziatamente sono obbligati a utilizzarle. E così si scopre che, mentre un tempo per raggiungere Roma da Milano ci si impiegavano oltre cinque ore, oggi ne bastano poco meno di tre. Ma al contempo, per esempio, sulla tratta Messina - Palermo la velocità media di percorrenza è scesa dai 95 km/h. del 1975 ai 74 di oggi. E ciò non accade solo nel profondo Sud, ma anche nel ricco e progredito Nord: tra Brescia e Cremona (51 chilometri) un tempo all’Espresso bastavano quarantuno minuti, oggi ne occorrono cinquantatre con il Regionale Veloce.
L’unica speranza a questo punto è che il turismo ferroviario, sul modello delle linee alpine (tipo il Bernina Express) si sviluppi e prenda sempre più piede, e che dunque non si arrivi alla dismissione completa della Transiberiana d’Italia. Non ci resta che incrociare le dita. Auguri.
Fonte: http://www.youtube.com/watch?v=fMuAPcnEsZI&list=UU5tHqUSETqLGa3bu2uEzRxw
Leggi anche: http://www.repubblica.it/cronaca/2013/07/20/news/treni_pi_lenti_di_40_anni_fa_ecco_come_viaggia_litalia-63350856/?ref=HREC2-13
http://viaggi.corriere.it/viaggi/vacanze/2013/transiberiana-italia/transiberiana-italia-tempiliberi.shtml
venerdì 19 luglio 2013
Le scelte dei viaggiatori 2013
Venerdì pomeriggio di una settimana di mezza estate. Caldo afoso in città, sete, arsura, voglia di una bibita fresca, anzi ghiacciata. Anzi, prima ancora di questo, desiderio di ascoltare il rumore del ghiaccio contro il bicchiere, la sensazione di freddo umido sulla mano. Manca poco ormai alle meritate vacanze, e tra breve, chi con una destinazione, chi con un’altra, ce ne andremo a trascorrere qualche giorno lontano da casa. Già, ma dove andare. Montagna, mare, città d’arte? Dove? Insieme ad altri quattro o cinque malati di mente, ce ne andremo, come già detto, a spasso in bicicletta nell’entroterra marchigiano e abruzzese. Con qualche piccola puntata al mare. Che male non fa (come dice giustamente Fabio, anche se lui in realtà parlava del vino). Altri listoniani sicuramente opteranno per la montagna. Che come si sa, in questa stagione, offre temperature fresche e clima rigenerante. Altri se ne andranno verso mete esotiche, città famose, parchi oltreoceano. Recentemente il sito di viaggi Tripadvisor ha stilato una serie di classifiche relative ai luoghi più belli del Mondo da visitare. Nella graduatoria delle 25 destinazioni più votate dagli utenti del sito, ben tre sono le città italiane. Roma, Venezia e Firenze. Ecco la lista completa: Parigi, New York, Londra, Roma, Barcellona, Venezia, San Francisco, Firenze, Praga, Sidney, Berlino, Istanbul, Bangkok, Chicago, Tokyo, Città del Capo, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Marrakech, San Pietroburgo, Pechino, Shangai, Siem Reap (Cambogia), Chiang Mai (Thailandia), Queenstown (Nuova Zelanza).
Nella speciale classifica dei luoghi più famosi del mondo troviamo delle meraviglie assolute, i cui soli nomi lasciano senza fiato: Machu Picchu, Angkor Wat, Taj Mahal, Petra, Tempio Bayon (Cambogia) etc…
Nella classifica delle 25 spiagge più belle del mondo invece, sempre secondo gli internauti, al primo posto troviamo una località italiana: la Spiaggia dei Conigli di Lampedusa. E questa è la lista completa: Spiaggia dei Conigli (Lampedusa), Grace Bay (Isole Turks & Caicos - Caraibi), Whitehaven Beach (Australia), Baia do Sancho (Brasile), Flamenco Beach (Portorico), Playa de las Catedrales (Ribadeo, Spagna), Lopes Mendes Beach (Brasile), Horseshoe Bay Beach (Bermuda), Eagle Beach (Aruba - Caraibi), Rhossili (Swansea, Regno Unito), Playa Paraiso Beach (Cayo Largo, Cuba), Playa de ses Illetes (Formentera, Isole Baleari), Chesterman Beach (Tofino, Columbia Britannica), Playa de Norte (Isla Mujeres - Messico), Ka'anapali Beach (Hawaii), Siesta Key Public Beach (Florida), Anse Lazio (Seychelles), Gulf Islands National Seashore (Pensacola, Florida), Turquoise Bay Exmouth (Australia), Fort De Soto (Florida), Akumal Beach (Messico), The Baths (Isole Vergini Britanniche), Seven Mile Beach (Gran Cayman), White Beach (Filippine), Woolacombe Beach (Regno Unito).
E per quanto riguarda le isole più amate del Mondo? Qui niente bandiere italiane, almeno tra le prime dieci posizioni: Ambergris Caye (Belize Cayes), St. John (Isole Vergini Americane), Bora Bora (Isole della Società), Isola di San Juan (Washington), Santorini (Cicladi), Isla Mujeres (Messico), Moorea (Isole della Società), Koh Tao (Thailandia), Isola di Pasqua (Cile), Nosy Be (Madagascar). Nomi per lo più sconosciuti al sottoscritto. E tra le isole europee, quali le più apprezzate? Come volevasi dimostrare in questo caso è la Grecia a farla da padrone con ben quattro nomi tra i primi dieci: Santorini, Cefalonia, Capri, Naxos, Mainland (Orcadi, GB), Isola di Gozo (Malta), Zacinto, Jersey (Canale della Manica), Isola di Skye (Ebridi), Fuerteventura (Canarie).
E per concludere la classifica delle isole italiane più ambite: Capri, Lampedusa, Favignana, Ischia, Isola d’Elba, Procida, Ustica, Pantelleria, La Maddalena, Isola di Vulcano.
Ventotene, la mia isola preferita, non compare tra le prime dieci. Dispiace, ma forse è meglio così. In fondo il fascino di alcuni luoghi sta proprio nella scarsa presenza di turisti.
A sto punto fate le vostre scelte e poi fateci sapere. E fate tante foto, mi raccomando.
Ecco le classifiche complete: http://www.tripadvisor.it/TravelersChoice
Nella speciale classifica dei luoghi più famosi del mondo troviamo delle meraviglie assolute, i cui soli nomi lasciano senza fiato: Machu Picchu, Angkor Wat, Taj Mahal, Petra, Tempio Bayon (Cambogia) etc…
Nella classifica delle 25 spiagge più belle del mondo invece, sempre secondo gli internauti, al primo posto troviamo una località italiana: la Spiaggia dei Conigli di Lampedusa. E questa è la lista completa: Spiaggia dei Conigli (Lampedusa), Grace Bay (Isole Turks & Caicos - Caraibi), Whitehaven Beach (Australia), Baia do Sancho (Brasile), Flamenco Beach (Portorico), Playa de las Catedrales (Ribadeo, Spagna), Lopes Mendes Beach (Brasile), Horseshoe Bay Beach (Bermuda), Eagle Beach (Aruba - Caraibi), Rhossili (Swansea, Regno Unito), Playa Paraiso Beach (Cayo Largo, Cuba), Playa de ses Illetes (Formentera, Isole Baleari), Chesterman Beach (Tofino, Columbia Britannica), Playa de Norte (Isla Mujeres - Messico), Ka'anapali Beach (Hawaii), Siesta Key Public Beach (Florida), Anse Lazio (Seychelles), Gulf Islands National Seashore (Pensacola, Florida), Turquoise Bay Exmouth (Australia), Fort De Soto (Florida), Akumal Beach (Messico), The Baths (Isole Vergini Britanniche), Seven Mile Beach (Gran Cayman), White Beach (Filippine), Woolacombe Beach (Regno Unito).
E per quanto riguarda le isole più amate del Mondo? Qui niente bandiere italiane, almeno tra le prime dieci posizioni: Ambergris Caye (Belize Cayes), St. John (Isole Vergini Americane), Bora Bora (Isole della Società), Isola di San Juan (Washington), Santorini (Cicladi), Isla Mujeres (Messico), Moorea (Isole della Società), Koh Tao (Thailandia), Isola di Pasqua (Cile), Nosy Be (Madagascar). Nomi per lo più sconosciuti al sottoscritto. E tra le isole europee, quali le più apprezzate? Come volevasi dimostrare in questo caso è la Grecia a farla da padrone con ben quattro nomi tra i primi dieci: Santorini, Cefalonia, Capri, Naxos, Mainland (Orcadi, GB), Isola di Gozo (Malta), Zacinto, Jersey (Canale della Manica), Isola di Skye (Ebridi), Fuerteventura (Canarie).
E per concludere la classifica delle isole italiane più ambite: Capri, Lampedusa, Favignana, Ischia, Isola d’Elba, Procida, Ustica, Pantelleria, La Maddalena, Isola di Vulcano.
Ventotene, la mia isola preferita, non compare tra le prime dieci. Dispiace, ma forse è meglio così. In fondo il fascino di alcuni luoghi sta proprio nella scarsa presenza di turisti.
A sto punto fate le vostre scelte e poi fateci sapere. E fate tante foto, mi raccomando.
Ecco le classifiche complete: http://www.tripadvisor.it/TravelersChoice
mercoledì 17 luglio 2013
Il miglior anno di sempre per l’Umanità? Il 1978
È tradizione l’ultimo dell’anno brindare con lo spumante gelato e augurarsi che l’anno che verrà sia migliore dell’anno che si chiude. La crisi economica, la perdita dei valori, la caduta delle certezze, la mancanza di prospettive future, non hanno fatto che far crescere la speranza (per chi ce l’ha ancora) di giorni migliori a venire, di uno spiraglio di luce nelle tenebre. Ecco perché in quella notte incantata, i calici si alzano all’unisono e si augura gioia e prosperità per se stessi e per gli altri. Se tutto ciò già ci fosse, e in abbondanza, che senso avrebbe augurarsene dell’altro? Va be’ che l’uomo è un essere vivente voglioso e bulimico, ma non fino a questo punto. Fatto sta che poi, insieme agli auguri per l’anno che verrà, ci si trova a riflettere su una frase amara lanciata nella mischia da uno a caso, e subito ripresa e approvata con entusiasmo da tutto l’uditorio: “Quest’anno è stato proprio orribile…!”. Non so voi, ma sono anni che personalmente ascolto sempre la stessa frase…! Dal che se ne deduce che viviamo proprio un brutto momento della nostra storia.
Ora a confermare questa amara constatazione, giunge un recente studio anglo-americano-australiano, pubblicato su Ecological Economics: il migliore anno della nostra vita è stato il 1978. I ricercatori hanno messo a confronto il PIL (che non è, come dice Benigni, “una cosa escrementizia”, ma la somma di tutte le attività economiche di una nazione messe insieme) con il GPI (Genuine Progress Indicator), un metodo di valutazione in cui ad ogni singola attività viene assegnato un segno più o un segno meno a seconda del fatto che esse aumentino o diminuiscano la qualità della nostra vita.
Sottraggono valore al PIL ad esempio, le spese per armamenti, quelle relative ai procedimenti penali e civili, le spese sanitarie e le bonifiche causate dall’inquinamento, le ore perse nel traffico. Aggiungono valore, al contrario, tutte quelle attività che solitamente non vengono tenute in conto ai fini di una quantificazione economica, tipo la cura dei parenti o il volontariato. E Dio solo sa quanta importanza abbia il volontariato, soprattutto in Italia, in questi tempi di casse erariali vuote.
L’analisi dei ricercatori ha preso in esame il GPI di 17 Stati che rappresentano il 53 per cento di tutta la popolazione mondiale e il 59 per cento del PIL. Ebbene, mentre quest’ultimo, fin dagli anni ’50 non conosce arretramenti, il GPI pro capite, viceversa, è avanzato fino agli ultimi ’70, dopo di che ha cominciato a diminuire. Tanto che, stimano gli studiosi, l’anno magico del benessere e della qualità della vita, si è registrato appunto nel 1978. E da allora, lentamente, è stato un lungo, inesorabile decadimento. In altre parole, abbagliati dai successi strabilianti della modernità e del progresso registrati negli ultimi 40 anni, ci siamo semplicemente disinteressati ai costi ambientali e sociali che tutto ciò portava con se. Ed oggi ci troviamo a fare i conti. “Non stiamo realizzando profitto sociale - sostiene Robert Costanza - In particolare, le crescenti diseguaglianze di reddito e il degrado ambientale sono i maggiori fattori che spingono il GPI verso il basso”.
Curiosamente, argomentano i ricercatori, il GPI pro capite (benessere/qualità della vita individuale) tende a crescere fino a che il PIL pro capite (ricchezza globale divisa per testa) arriva a 7 mila dollari all’anno. Superata questa soglia il GPI scende. In altra parole più ricchezza equivale a peggiore qualità della vita. Ovvero, esemplificando, posso anche trovare un lavoro che mi gratifichi di più da un punto di vista economico, ma se poi a ciò vi aggiungo stress, allungamento dei tempi di trasporto, minor tempo a mia disposizione, peggioramento dei rapporti con famiglia e amici etc…, facendo la somma di tutto ciò, mi conviene? Ecco la domanda a cui dovremmo rispondere.
Nel 1978 avevo sei anni e frequentavo le scuole elementari. Quell’anno morì mia nonna paterna e fui operato alle tonsille. Questi sono gli unici ricordi che ho di quell’anno. Quella nonna non riuscii a conoscerla come avrei dovuto. Lei abitava in Puglia, io e i miei a Milano: la vidi solo per qualche giorno d’estate. Quando andavo da lei, la prima cosa che faceva era prendermi per mano e portarmi nel soggiorno, davanti ad una mobile basso. Apriva un cassetto e da una busta di carta prendeva una manciata di cioccolatini avvolti da stagnole scintillanti. E me li consegnava con un silenzioso sorriso d’intesa. Ecco tutto ciò che mi rimane di quella donna.
In quel 1978 la Francia faceva ancora esperimenti nucleari nelle isole del Pacifico; Andreotti era Presidente del Consiglio per la quarta volta (lo sarebbe stato per altre tre…); Aldo Moro veniva assassinato dalla Brigate Rosse; la Rai mandava in onda il primo episodio di Atlas Ufo Robot (4 aprile, ore 18.45); Messner e Habeler raggiungevano la vetta dell’Everest per la prima volta senza bombole d’ossigeno; venivano approvate la “legge Basaglia” (chiusura dei manicomi) e la “194” sull’interruzione volontaria della gravidanza; si svolgevano i Mondiali d’Argentina (Bettega, Causio, Antognoni, Benetti…); Mina appariva per l’ultima volta in televisione; Pertini veniva eletto Presidente della Repubblica; Albino Luciani veniva eletto Papa; il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e suoi uomini fanno irruzione nel covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso; a seguito della morte improvvisa di Papa Giovanni Paolo I, veniva eletto al soglio di Pietro Carol Wojtyla (16 ottobre); con la legge numero 833, veniva istituito il Servizio Sanitario Nazionale, con il quale si stabilisce il criterio di copertura universale ed egualitario per tutti i cittadini; la Spagna, dopo quarant’anni di dittatura, diveniva una democrazia.
Ecco cos’è stato il ’78. E pare che si stesse molto meglio di oggi.
Fonte: http://www.newscientist.com/article/mg21929254.600-the-wonder-year-why-1978-was-the-best-year-ever.html#.UeZPES1H7IU
Leggi anche: http://it.wikipedia.org/wiki/1978
Curiosamente, argomentano i ricercatori, il GPI pro capite (benessere/qualità della vita individuale) tende a crescere fino a che il PIL pro capite (ricchezza globale divisa per testa) arriva a 7 mila dollari all’anno. Superata questa soglia il GPI scende. In altra parole più ricchezza equivale a peggiore qualità della vita. Ovvero, esemplificando, posso anche trovare un lavoro che mi gratifichi di più da un punto di vista economico, ma se poi a ciò vi aggiungo stress, allungamento dei tempi di trasporto, minor tempo a mia disposizione, peggioramento dei rapporti con famiglia e amici etc…, facendo la somma di tutto ciò, mi conviene? Ecco la domanda a cui dovremmo rispondere.
Nel 1978 avevo sei anni e frequentavo le scuole elementari. Quell’anno morì mia nonna paterna e fui operato alle tonsille. Questi sono gli unici ricordi che ho di quell’anno. Quella nonna non riuscii a conoscerla come avrei dovuto. Lei abitava in Puglia, io e i miei a Milano: la vidi solo per qualche giorno d’estate. Quando andavo da lei, la prima cosa che faceva era prendermi per mano e portarmi nel soggiorno, davanti ad una mobile basso. Apriva un cassetto e da una busta di carta prendeva una manciata di cioccolatini avvolti da stagnole scintillanti. E me li consegnava con un silenzioso sorriso d’intesa. Ecco tutto ciò che mi rimane di quella donna.
In quel 1978 la Francia faceva ancora esperimenti nucleari nelle isole del Pacifico; Andreotti era Presidente del Consiglio per la quarta volta (lo sarebbe stato per altre tre…); Aldo Moro veniva assassinato dalla Brigate Rosse; la Rai mandava in onda il primo episodio di Atlas Ufo Robot (4 aprile, ore 18.45); Messner e Habeler raggiungevano la vetta dell’Everest per la prima volta senza bombole d’ossigeno; venivano approvate la “legge Basaglia” (chiusura dei manicomi) e la “194” sull’interruzione volontaria della gravidanza; si svolgevano i Mondiali d’Argentina (Bettega, Causio, Antognoni, Benetti…); Mina appariva per l’ultima volta in televisione; Pertini veniva eletto Presidente della Repubblica; Albino Luciani veniva eletto Papa; il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e suoi uomini fanno irruzione nel covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso; a seguito della morte improvvisa di Papa Giovanni Paolo I, veniva eletto al soglio di Pietro Carol Wojtyla (16 ottobre); con la legge numero 833, veniva istituito il Servizio Sanitario Nazionale, con il quale si stabilisce il criterio di copertura universale ed egualitario per tutti i cittadini; la Spagna, dopo quarant’anni di dittatura, diveniva una democrazia.
Ecco cos’è stato il ’78. E pare che si stesse molto meglio di oggi.
Fonte: http://www.newscientist.com/article/mg21929254.600-the-wonder-year-why-1978-was-the-best-year-ever.html#.UeZPES1H7IU
Leggi anche: http://it.wikipedia.org/wiki/1978
martedì 16 luglio 2013
I film che fanno viaggiare
La British Airways, in occasione dell’evento cinematografico “Silent Pictures” (Londra, 22-26 luglio), ha deciso di stilare la classifica dei 100 film che potrebbero ispirare un viaggio. Il sondaggio ha coinvolto circa 2000 passeggeri, oltreché un numero imprecisato di personaggi dello spettacolo, e ha messo in fila pellicole di ogni epoca e genere, dai viaggi romantici a quelli fantasiosi, da quelli epici a quelli onirici, da quelli storici a quelli a sfondo farsesco.
E così, nella top ten della graduatoria si scopre che al primo posto si piazza Un ottima annata, girato in Provenza e con protagonista Russel Crowe; in seconda posizione troviamo Camera con vista, film dell’86 del regista James Ivory (Londra - Italia); a seguire Priscilla, la regina del deserto (Australia); Nel favoloso mondo di Amelie [(Francia…) spendido, uno dei miei film preferiti…)]; Anchorman, la leggenda di Ron Burgundy (San Diego); Io e Annie [New York (W.Allen, Diane Keaton)]; Il giro del Mondo in 80 giorni (Berlino, Brandeburgo, New York, San Francisco); Australia (Australia, ovviamente. Vi pare che mettono come titolo ad un film Australia e poi lo girano a Frascati…?); The Beach (Thailandia); Prima dell’alba (Vienna).
Scorrendo la lista poi si trovano alcuni tra i classici della cinematografia di tutti i tempi, tipo Colazione da Tiffany, Casablanca, Via col vento, La dolce vita, Thelma & Louise. Chissà quanti turisti in effetti hanno deciso di visitare un determinato luogo, una città in particolare, proprio grazie a questi film. Qualche anno fa, ad esempio, ci fu un boom di visitatori inglesi in Toscana, nella zona di Cortona. Ed il motivo era legato al successo del film Under the toscan sun, girato appunto in quei luoghi. C’è poco da fare, il grande schermo ha in fascino tutto particolare e difficilmente si può resistere al trasporto che si prova assistendo alla proiezione di una pellicola particolarmente bella ed evocativa. Chi non si farebbe travolgere dal desiderio di visitare quei paesaggi straordinari che compaiono a volo d’uccello nel film Il Signore degli Anelli (Nuova Zelanda)? E chi non ha cominciato a viaggiare con la mente osservando la meraviglia selvaggia raffigurata nelle scene di Into the wild? E in quelle de I diari della motocicletta, a bordo della “Portentosa” insieme a Ernesto Guevara del La Serna e Alberto Granado? Un tuffo nell’immensità della natura primordiale. Ecco, se devo essere sincero, sono questi i luoghi che mi fanno sognare. I film ambientati nelle città, viceversa, non mi fanno sorgere alcuna curiosità di visita. Si, magari lì per lì ne apprezzo le scenografie, mi piace il contesto, ma mai mi sognerei di pensare: “Ah però, che bella San Diego…! Quasi quasi prendo un aereo e vado a darle un’occhiata”. E invece, a quanto pare sono tante le persone che intraprenderebbero un viaggio in una città che ha fatto da sfondo ad un film: nella classifica infatti si leggono tantissimi nomi di pellicole girate in contesti urbani: Momenti di Gloria (Parigi), Il codice Da Vinci (Parigi, Londra), Quattro matrimoni e un funerale (Londra), Notting Hill (ancora Londra), Lost in translation (Tokio), Pretty Woman (Los Angeles), Harry ti presento Sally (Chicago, New York) etc…!
Nella mia personalissima classifica, ad esempio, avrei aggiunto volentieri i film del primo Salvatores: Marrakech Express dell’89 e Mediterraneo del ’91. Il primo narra di un viaggio avventuroso in macchina da parte di quattro amici alla ricerca di un loro vecchio compagno disperso nelle sabbie del deserto nord -africano. Splendido…! Il secondo racconta le vicende tragicomiche di una squadra di militari italiani impegnati nella difesa di un’isola greca sperduta nei mari funestati dalla seconda guerra mondiale. Completamente abbandonati dai superiori, i nostri eroi s’inventeranno una nuova vita completamente integrati con gli abitanti del luogo. Fino a che la guerra si ricorderà di loro. L’anno che uscì questo film lo vidi al cinema con gli amici della vecchia compagnia. Quella stessa estate, terminati gli esami di maturità, partimmo tutti per la Grecia. Ovviamente…!
Ecco la classifica completa:
http://www.vanityfair.it/viaggi-traveller/notizie-viaggio/news/13/07/04/i-film-che-ispirano-i-viaggi
Ecco la classifica completa:
http://www.vanityfair.it/viaggi-traveller/notizie-viaggio/news/13/07/04/i-film-che-ispirano-i-viaggi
lunedì 15 luglio 2013
Fiume Sand Creek
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura/sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura/fu un generale di vent’anni
occhi turchini e giacca uguale/fu un generale di vent’anni
figlio d’un temporale/c’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek.
Così comincia la canzone di Fabrizio De Andrè, Fiume Sand Creek, pubblicata nell’81. Il testo racconta del massacro compiuto ai danni di inermi e pacifici pellerossa, da parte di un reparto di cavalleria (circa 800 uomini), agli ordini del colonnello John Chivington. La mattina del 29 novembre 1864, all’alba, i cavalleggeri in giacca blu circondarono l’accampamento dove si trovavano circa 500 indiani delle tribù Cheyenne e Arapaho, e li trucidarono senza pietà. De Andrè scrive “I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte…”, ed effettivamente così andò. Quando Chivington decise di attaccare, i guerrieri indiani erano lontani dalle loro famiglie, impegnati nella ricerca di cibo. E al contempo sicuri di non dover temere nulla dall’uomo bianco: il trattato di Fort Wise del 1861 dichiarava il territorio di Sand Creek, Colorado, luogo protetto dai combattimenti delle guerre indiane. E invece quel giorno si doveva compiere uno degli atti più infami della storia degli Stati Uniti d’America. Qualche anno prima, a causa della corsa all’oro, migliaia e migliaia di coloni si erano riversati nei territori del nord-ovest, causando inevitabilmente la reazione delle popolazioni locali. Come conseguenza, l’esercito mise in atto una feroce repressione ai danni dei nativi. Una volta vinti, gli indiani accettarono di essere rinchiusi nelle riserve, luoghi in cui, in cambio della libertà, ricevevano protezione e sussistenza da parte dello Stato americano (almeno sulla carta). Il tutto avvenne sottoscrivendo trattati solenni alla presenza dei Capi delle Nazioni indiane e dei rappresentanti del Governo. In quei giorni di novembre tuttavia, così come doveva accadere tante altre volte, gli accordi non furono rispettati e dopo la carica della cavalleria rimasero sul campo tra 150 e 184 Cheyenne. Tra questi vennero rinvenuti anche Antilope Bianca, Occhio Solo e Copricapo di Guerra, i capi tribù. La maggior parte delle vittime furono donne, bambini e anziani. Moltissimi di costoro furono orrendamente mutilati. La stampa in un primo momento magnificò l’impresa dei cavalleggeri, ma già dopo qualche giorno la verità cominciò ad emergere. Vennero aperte un paio d’indagini conoscitive. Il Comitato di Condotta della Guerra sentenziò: «Per quanto riguarda il Colonnello Chivington […] ha deliberatamente organizzato ed eseguito un folle e vile massacro in cui numerose sono state le vittime della sua crudeltà. Egli conoscendo chiaramente la cordialità del loro carattere, avendo egli stesso in un certo senso tentato di porre le vittime in una condizione di fittizia sicurezza, ha sfruttato l’assenza di alcun tipo di difesa e la loro convinzione di sentirsi sicuri per potere gratificare la peggiore passione che abbia mai attraversato il cuore di un uomo. Qualunque peso tutto questo abbia avuto sul Colonnello Chivington, la verità è che ha sorpreso e assassinato, a sangue freddo, inaspettatamente uomini, donne e bambini, i quali avevano tutte le ragioni per credere di essere sotto la protezione delle autorità statunitensi, e poi ritornando a Denver si è vantato dell’azione coraggiosa che lui e gli uomini sotto il suo comando hanno eseguito. In conclusione questo comitato è dell’opinione che al fine di vendicare la causa di giustizia e mantenere l’onore della nazione, pronte e rigorose misure debbano essere adottate per rimuovere chiunque avesse così vilipeso il governo presso cui sono impiegati, e di punire, adeguatamente al crimine commesso, coloro che sono colpevoli di questi atti brutali e codardi». È appena il caso di ricordare che, a fronte di un tale sconvolgente atto di accusa, i responsabili del massacro non furono mai perseguiti.
Ora, a distanza di 149 anni, quattro discendenti delle vittime pellerossa, hanno deciso di fare causa al Governo degli Stati Uniti per ottenere “i giusti risarcimenti per gli atti di genocidio, tortura, mutilazione, abuso e intimidazione” compiuti a Sand Creek”. A darne notizia è il Denver Post di giovedì scorso. I querelanti, tra l’altro, nell’atto di citazione hanno richiamato una promessa “solenne” fatta dal Governo Federale alle stesse tribù, nel 1866, nella quale si ammettevano i torti e si stanziavano terre e contanti a favore dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. “Gli Stati Uniti riconobbero le atrocità commesse e si impegnarono a versare dei risarcimenti alle vittime, ma questo non è mai avvenuto”. E così ora i discendenti delle vittime chiedono che finalmente, gli Stati Uniti onorino quella promessa e rifondano i danni già allora stanziati e mai consegnati (se non in minima parte) alle popolazioni vittime della crudeltà dell’uomo bianco. È assai probabile che la causa intentata si trasformi presto in una “class action”, così che tutti i discendenti delle tribù Cheyenne e Arapaho (circa 15 mila) possano trovare giustizia.
Io spero che un giorno gli Stati Uniti trovino il coraggio di rinnegare definitivamente questa tragica vicenda e provvedano a risarcire il male commesso. Se vi è un briciolo di orgoglio e dignità nelle vene dei governanti di Washington, tutto ciò non potrà che avverarsi. Ho ancora un altro sogno, ma temo che non riuscirò mai a vederlo realizzato: che il “popolo degli uomini” torni un giorno a solcare le grandi terre come facevano un tempo i loro antenati. Liberi come il vento, padroni del loro destino.
Fonte: http://www.denverpost.com/breakingnews/ci_23642176/sand-creek-massacre-descendants-sue-federal-government-reparations
Leggi anche: http://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_Sand_Creek
Così comincia la canzone di Fabrizio De Andrè, Fiume Sand Creek, pubblicata nell’81. Il testo racconta del massacro compiuto ai danni di inermi e pacifici pellerossa, da parte di un reparto di cavalleria (circa 800 uomini), agli ordini del colonnello John Chivington. La mattina del 29 novembre 1864, all’alba, i cavalleggeri in giacca blu circondarono l’accampamento dove si trovavano circa 500 indiani delle tribù Cheyenne e Arapaho, e li trucidarono senza pietà. De Andrè scrive “I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte…”, ed effettivamente così andò. Quando Chivington decise di attaccare, i guerrieri indiani erano lontani dalle loro famiglie, impegnati nella ricerca di cibo. E al contempo sicuri di non dover temere nulla dall’uomo bianco: il trattato di Fort Wise del 1861 dichiarava il territorio di Sand Creek, Colorado, luogo protetto dai combattimenti delle guerre indiane. E invece quel giorno si doveva compiere uno degli atti più infami della storia degli Stati Uniti d’America. Qualche anno prima, a causa della corsa all’oro, migliaia e migliaia di coloni si erano riversati nei territori del nord-ovest, causando inevitabilmente la reazione delle popolazioni locali. Come conseguenza, l’esercito mise in atto una feroce repressione ai danni dei nativi. Una volta vinti, gli indiani accettarono di essere rinchiusi nelle riserve, luoghi in cui, in cambio della libertà, ricevevano protezione e sussistenza da parte dello Stato americano (almeno sulla carta). Il tutto avvenne sottoscrivendo trattati solenni alla presenza dei Capi delle Nazioni indiane e dei rappresentanti del Governo. In quei giorni di novembre tuttavia, così come doveva accadere tante altre volte, gli accordi non furono rispettati e dopo la carica della cavalleria rimasero sul campo tra 150 e 184 Cheyenne. Tra questi vennero rinvenuti anche Antilope Bianca, Occhio Solo e Copricapo di Guerra, i capi tribù. La maggior parte delle vittime furono donne, bambini e anziani. Moltissimi di costoro furono orrendamente mutilati. La stampa in un primo momento magnificò l’impresa dei cavalleggeri, ma già dopo qualche giorno la verità cominciò ad emergere. Vennero aperte un paio d’indagini conoscitive. Il Comitato di Condotta della Guerra sentenziò: «Per quanto riguarda il Colonnello Chivington […] ha deliberatamente organizzato ed eseguito un folle e vile massacro in cui numerose sono state le vittime della sua crudeltà. Egli conoscendo chiaramente la cordialità del loro carattere, avendo egli stesso in un certo senso tentato di porre le vittime in una condizione di fittizia sicurezza, ha sfruttato l’assenza di alcun tipo di difesa e la loro convinzione di sentirsi sicuri per potere gratificare la peggiore passione che abbia mai attraversato il cuore di un uomo. Qualunque peso tutto questo abbia avuto sul Colonnello Chivington, la verità è che ha sorpreso e assassinato, a sangue freddo, inaspettatamente uomini, donne e bambini, i quali avevano tutte le ragioni per credere di essere sotto la protezione delle autorità statunitensi, e poi ritornando a Denver si è vantato dell’azione coraggiosa che lui e gli uomini sotto il suo comando hanno eseguito. In conclusione questo comitato è dell’opinione che al fine di vendicare la causa di giustizia e mantenere l’onore della nazione, pronte e rigorose misure debbano essere adottate per rimuovere chiunque avesse così vilipeso il governo presso cui sono impiegati, e di punire, adeguatamente al crimine commesso, coloro che sono colpevoli di questi atti brutali e codardi». È appena il caso di ricordare che, a fronte di un tale sconvolgente atto di accusa, i responsabili del massacro non furono mai perseguiti.
Ora, a distanza di 149 anni, quattro discendenti delle vittime pellerossa, hanno deciso di fare causa al Governo degli Stati Uniti per ottenere “i giusti risarcimenti per gli atti di genocidio, tortura, mutilazione, abuso e intimidazione” compiuti a Sand Creek”. A darne notizia è il Denver Post di giovedì scorso. I querelanti, tra l’altro, nell’atto di citazione hanno richiamato una promessa “solenne” fatta dal Governo Federale alle stesse tribù, nel 1866, nella quale si ammettevano i torti e si stanziavano terre e contanti a favore dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. “Gli Stati Uniti riconobbero le atrocità commesse e si impegnarono a versare dei risarcimenti alle vittime, ma questo non è mai avvenuto”. E così ora i discendenti delle vittime chiedono che finalmente, gli Stati Uniti onorino quella promessa e rifondano i danni già allora stanziati e mai consegnati (se non in minima parte) alle popolazioni vittime della crudeltà dell’uomo bianco. È assai probabile che la causa intentata si trasformi presto in una “class action”, così che tutti i discendenti delle tribù Cheyenne e Arapaho (circa 15 mila) possano trovare giustizia.
Io spero che un giorno gli Stati Uniti trovino il coraggio di rinnegare definitivamente questa tragica vicenda e provvedano a risarcire il male commesso. Se vi è un briciolo di orgoglio e dignità nelle vene dei governanti di Washington, tutto ciò non potrà che avverarsi. Ho ancora un altro sogno, ma temo che non riuscirò mai a vederlo realizzato: che il “popolo degli uomini” torni un giorno a solcare le grandi terre come facevano un tempo i loro antenati. Liberi come il vento, padroni del loro destino.
Fonte: http://www.denverpost.com/breakingnews/ci_23642176/sand-creek-massacre-descendants-sue-federal-government-reparations
Leggi anche: http://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_Sand_Creek
venerdì 12 luglio 2013
Abbracci gratis
Qualche tempo fa in tv passò una candid camera in cui un tale, al centro di una via affollata, andava incontro ai passanti e, improvvisamente, ne abbracciava qualcuno. Teneramente. Quasi tutti reagivano all’inizio con un forte senso di disagio, che spesso sfociava nell’incredulità quando non anche nella paura. In effetti, di fronte ad un evento inatteso e fuori dall’ordinario l’essere umano si paralizza, si blocca come in attesa che il cervello dia una qualche spiegazione razionale a ciò che accade. In quel caso le persone coinvolte in quell’abbraccio improvviso restavano impietrite per alcuni attimi, come tramortite. Poi, vedendo che l’effusione affettuosa non aveva nulla di pericoloso, si lasciavano andare a qualche sorriso. Qualcuno addirittura ricambiava l’abbraccio con trasporto. E andandosene poi via per la propria strada, tutti, ma proprio tutti, avevano dipinto sul viso un’espressione di profonda gioia e serenità. Quest’inverno, a Capodanno, mi è capitata una situazione analoga. Nel rifugio di montagna dove abitualmente passiamo alcuni giorni, questa volta c’era anche un gruppo di ragazzi disabili psichici. Ebbene, il modo più diretto che hanno questi ragazzi di entrare in confidenza con altre persone è l’abbraccio (o comunque la sfera tattile). Più o meno audace, a seconda del carattere di ognuno, è sempre spontaneo e sincero, ed è associato ad un grande sorriso. Sandrino, per esempio, aspetto spesso truce e dalle vocalità fortemente gutturali, quando decideva che era il momento di stringere forte qualcuno, spalancava le braccia e apriva la via ad uno dei sorrisi più radiosi che abbia mai visto in vita mia. E di fronte a tale esplosione sentimentale non si poteva far altro che sorridergli e abbracciarlo di rimando. Perché infondo tutto ciò è manifestazione d’amore, e l’amore non è che uno specchio in cui ci si riflette.
Il New York Times di venerdì scorso ha pubblicato un bell’articolo su Richard Renaldi, fotografo americano, e sul suo libro di prossima pubblicazione Touching Strangers. Dal 2007 ad oggi Renaldi ha girato per le strade degli States, con l’idea di fotografare perfetti sconosciuti nell’atto di abbracciarsi, toccarsi, alle volte anche baciarsi davanti alla sua fotocamera. L’intento nobile è quello di scuotere e provocare la società con questi scatti, al fine di riuscire a fare qualche passo avanti sulla difficile strada della comprensione e accettazione reciproca. Ecco perché alcune foto ritraggono ebrei ortodossi e mussulmani insieme; oppure bianchi e neri che si abbracciano e si baciano. Come al solito tuttavia, trovandoci in America, c’è al fondo di tutto ciò una morale: la volontà un po’ retorica di spingere sul tema della fratellanza e dell’accettazione del “diverso” da se, come arricchimento. Retorica perché gli Stati Uniti sono il simbolo stesso della globalizzazione, ovvero dell’appiattimento delle differenze in funzione del modello unico di sviluppo. L’esportazione della democrazia, teorizzato a suon di bombe e invasioni, ne è la riprova: tutto va bene purché secondo ciò che ritengo più giusto dal mio punto di vista. E nulla potrà far cambiare questa forma mentale. E così, anche quelle foto di persone abbracciate tra di loro, così diverse per etnia, cultura, religione, hanno il gusto un po’ falso della finzione scenica, del copione ben recitato: come se mancassero di spontaneità. Ed infatti Renaldi mette in posa i suoi soggetti e dice loro cosa fare, come abbracciarsi, come guardare nell’obiettivo. In primavera, l’Aperture Foundation pubblicherà le foto in un libro.
Certo viviamo in un’epoca in cui l’apertura verso il prossimo si è ridotta fin quasi a scomparire, questo è indubbio. Non c’è comunicazione, spesso vediamo con fastidio i nostri vicini (soprattutto in metropolitana a ora di punta…), abbiamo paura di interagire perché non si sa mai con chi si ha a che fare. Ed anche il contatto fisico è ormai ridotto, tra conoscenti, ad una semplice stretta di mano. Toccarsi, mettere una mano sulla spalla di qualcuno, per non parlare del bacio, sono atteggiamenti che si riservano esclusivamente a parenti o amici stretti. E sono sinonimo di grande conoscenza e affiatamento. Al netto di tutto il retroterra storico e culturale di ogni singolo individuo. Una volta lessi uno splendido articolo di Indro Montanelli circa il suo incontro con Papa Wojtyla. Scrive Montanelli: «La sera che cenai col Papa […] cenai praticamente da solo […]. Per la prima volta, nella mia lunga carriera d’inappetente sempre in imbarazzo per ciò che rifiuta, mi sentivo in colpa d’ingordigia. […] Quando ci alzammo da tavola, lui che c’era rimasto seduto quasi due ore a veder noi mangiare, mi accompagnò lungo il corridoio. Ma, passando davanti alla cappella, mi toccò il braccio e con qualche esitazione, come avesse paura di apparirmi indiscreto, mi disse: “So che sua madre era una donna molto pia. Vogliamo dire una piccola preghiera per lei?”. C’inginocchiammo l’uno accanto all’altro. Ma quando, nel congedarmi, accennai a un inchino, me lo impedì serrandomi il polso in una morsa di ferro, e mi abbracciò accostando due volte la tempia alle mie. Come faceva mio padre, che baci non ne dava».
Ecco, l’abbraccio è una delle manifestazioni d’affetto più travolgenti che vi siamo. L’importante è che questo gesto sia sentito e ci sia spontaneità. Tutto il resto non conta.
Fonte: http://lens.blogs.nytimes.com/2013/07/05/strangers-in-embrace/
Il New York Times di venerdì scorso ha pubblicato un bell’articolo su Richard Renaldi, fotografo americano, e sul suo libro di prossima pubblicazione Touching Strangers. Dal 2007 ad oggi Renaldi ha girato per le strade degli States, con l’idea di fotografare perfetti sconosciuti nell’atto di abbracciarsi, toccarsi, alle volte anche baciarsi davanti alla sua fotocamera. L’intento nobile è quello di scuotere e provocare la società con questi scatti, al fine di riuscire a fare qualche passo avanti sulla difficile strada della comprensione e accettazione reciproca. Ecco perché alcune foto ritraggono ebrei ortodossi e mussulmani insieme; oppure bianchi e neri che si abbracciano e si baciano. Come al solito tuttavia, trovandoci in America, c’è al fondo di tutto ciò una morale: la volontà un po’ retorica di spingere sul tema della fratellanza e dell’accettazione del “diverso” da se, come arricchimento. Retorica perché gli Stati Uniti sono il simbolo stesso della globalizzazione, ovvero dell’appiattimento delle differenze in funzione del modello unico di sviluppo. L’esportazione della democrazia, teorizzato a suon di bombe e invasioni, ne è la riprova: tutto va bene purché secondo ciò che ritengo più giusto dal mio punto di vista. E nulla potrà far cambiare questa forma mentale. E così, anche quelle foto di persone abbracciate tra di loro, così diverse per etnia, cultura, religione, hanno il gusto un po’ falso della finzione scenica, del copione ben recitato: come se mancassero di spontaneità. Ed infatti Renaldi mette in posa i suoi soggetti e dice loro cosa fare, come abbracciarsi, come guardare nell’obiettivo. In primavera, l’Aperture Foundation pubblicherà le foto in un libro.
Certo viviamo in un’epoca in cui l’apertura verso il prossimo si è ridotta fin quasi a scomparire, questo è indubbio. Non c’è comunicazione, spesso vediamo con fastidio i nostri vicini (soprattutto in metropolitana a ora di punta…), abbiamo paura di interagire perché non si sa mai con chi si ha a che fare. Ed anche il contatto fisico è ormai ridotto, tra conoscenti, ad una semplice stretta di mano. Toccarsi, mettere una mano sulla spalla di qualcuno, per non parlare del bacio, sono atteggiamenti che si riservano esclusivamente a parenti o amici stretti. E sono sinonimo di grande conoscenza e affiatamento. Al netto di tutto il retroterra storico e culturale di ogni singolo individuo. Una volta lessi uno splendido articolo di Indro Montanelli circa il suo incontro con Papa Wojtyla. Scrive Montanelli: «La sera che cenai col Papa […] cenai praticamente da solo […]. Per la prima volta, nella mia lunga carriera d’inappetente sempre in imbarazzo per ciò che rifiuta, mi sentivo in colpa d’ingordigia. […] Quando ci alzammo da tavola, lui che c’era rimasto seduto quasi due ore a veder noi mangiare, mi accompagnò lungo il corridoio. Ma, passando davanti alla cappella, mi toccò il braccio e con qualche esitazione, come avesse paura di apparirmi indiscreto, mi disse: “So che sua madre era una donna molto pia. Vogliamo dire una piccola preghiera per lei?”. C’inginocchiammo l’uno accanto all’altro. Ma quando, nel congedarmi, accennai a un inchino, me lo impedì serrandomi il polso in una morsa di ferro, e mi abbracciò accostando due volte la tempia alle mie. Come faceva mio padre, che baci non ne dava».
Ecco, l’abbraccio è una delle manifestazioni d’affetto più travolgenti che vi siamo. L’importante è che questo gesto sia sentito e ci sia spontaneità. Tutto il resto non conta.
Fonte: http://lens.blogs.nytimes.com/2013/07/05/strangers-in-embrace/
giovedì 11 luglio 2013
Oddio no, arrivano le vacanze…
In questi giorni i Listoniani che hanno deciso di prendere parte al Tour Marche-Abruzzo in bicicletta si stanno dando un gran da fare: controllo itinerari, lunghezza delle tappe, altimetrie, luoghi da visitare, orari dei treni (per raggiungere il punto di partenza) e dei traghetti (per le isole Tremiti). Un lavoro da eseguire con grande accuratezza, senza lasciare nulla al caso. D’accordo che l’avventura è il sale della vita (e del viaggio…), ma quando si parte in autosufficienza, vale a dire dovendo contare esclusivamente sulle proprie forze, meglio essere prudenti. Anche perché, pur essendo amanti del pedale, non siamo professionisti da Giro d’Italia, e piantarsi a metà strada perché si è sottostimato un percorso, non è affatto una prospettiva gradevole. Certo affidarsi ad un operatore del settore sarebbe stato più comodo e meno complicato dal punto di vista organizzativo. Questo è indubbio. Ma a parte il fatto che appoggiarsi ad una realtà simile ha un certo costo (che alle volte arriva addirittura al 50 per cento dell’intera vacanza), quello che a noi piace è creare dal nulla il viaggio, immaginarlo, inventarcelo guardando una mappa. Alfio e Alessandra, ad esempio sono degli esperti del settore: l’anno scorso hanno attraversato la Sardegna in lungo e in largo, da Olbia ad Alghero, e poi ancora su in Gallura. 800 chilometri in perfetta autonomia (con le borse al seguito), infischiandosene del caldo agostano. E l’anno prima, partendo da Assisi, hanno viaggiato attraverso Umbria e Toscana, arrivando fino a Cecina, sul Mar Tirreno.
Certo l’impegno per realizzare un viaggio simile è notevole. Le prenotazioni dei posti dove fermarsi, ad esempio, comportano lunghe e complicate ricerche: i luoghi devono essere belli, ma non troppo costosi (dati i nostri budget); devono essere lungo il percorso stabilito, o al massimo distanti solo pochi chilometri; ci dev’essere poi un posto sicuro dove lasciare i nostri cavalli di ferro. Ed altro ancora. E così, fino a che non partiremo con il primo colpo di pedale, ci accompagnerà sempre una certa qual tensione nervosa, una smania incontrollabile di cominciare il viaggio (“Oh Lu, non vedo l’ora di partire…”), il dubbio di trovarci di fronte a qualche imprevisto. Ma infondo, va bene così: sapete che noia sarebbe aver già tra le mani il classico programmino da villaggio vacanza organizzato. No, no… meglio l’avventura.
Ma tutto ciò è nulla se confrontato con le ansie e le angosce che attanagliano l’italiano medio in procinto di andarsene in ferie. Lo rivela una ricerca condotta dall’Osservatorio Italiani e benessere emozionale di HRD Training Group. Stando ai dati raccolti (12 focus group effettuati in luoghi diversi di tutto il territorio nazionale, su un campione di uomini e donne rappresentativo del target, di età compresa tra i 24 e i 55 anni), le ragioni di ansia più diffuse sono prevalentemente legate ai furti in appartamento (51 per cento degli intervistati). In effetti tornare e trovare la casa svaligiata non è affatto piacevole. Nel mio vicinato, ad esempio, ci sono alcuni soggetti che per evitare brutte sorprese negli anni hanno messo a punto delle strategie “fenomenali”: uno ha pensato bene di lasciare tutte le luci di casa accese, infischiandosene del costo energetico (una mazzata inenarrabile…); un altro ha deciso di tenere acceso lo stereo, con musica afro-cubana a tutto volume (stereo che poi io stesso ho reso innocuo, staccandogli il contatore generale della corrente elettrica…); un altro ancora ha ipotizzato che offrendo un contentino ai topi d’appartamento, questi avrebbero lasciato intonsa l’abitazione: “Su questo tavolo ci sono cinquanta euro, gli unici denari presenti in casa. È inutile che cercate: perdereste solo tempo. Cordialità”. Altri invece, pur avendo installato potentissimi antifurti, hanno scavato buche nei giardini privati e vi hanno sotterrato tesori e contanti. Regolarmente portati alla luce dai cani di compagnia lasciati a guardia di casa e accuditi da altri vicini volenterosi.
Altra angoscia che attanaglia i vacanzieri è quella della spesa: il 44 per cento del campione ha dichiarato di non riuscire a godersi la vacanza per via delle preoccupazioni economiche. E come dar loro torto con questa fottuta crisi. Certo se poi si guarda alle vacanze solo come a un costo, allora meglio starsene a casa. Viceversa se si ragiona in termini di benessere, relax e tempo di recupero di energie psico-fisiche, anche questa spesa acquisisce una luce diversa.
Nella classifica delle ansie da vacanza segue poi lo stress da viaggio: il 32 per cento degli intervistati dichiara di soffrire mal d’auto, mal di mare o paura di volare. Ecco, lo vedete: se si convertissero tutti alla bicicletta, niente più sofferenza…! (se non altro psichica).
Ci sono poi coloro che soffrono di claustrofobia o agorafobia (11 per cento). In vacanza, dicono gli esperti, si perdono le certezze del nostro habitat abituale e dunque queste angosce tendono a manifestarsi in maniera più accentuata.
Un altro 5 per cento del campione ha dichiarato di provare un forte fastidio nel contatto fisico. Soprattutto con degli sconosciuti (misofobia). Queste persone tra l’altro sono angosciate dall’idea di trovarsi in luoghi poco puliti, paventano la possibilità di contrarre qualche malattia parassitaria, di ingurgitare cibi avariati. Per costoro sarebbe, a mio avviso, assai utile una settimana a spasso per sentieri e rifugi della Corsica settentrionale: una cura da cavallo che o guarisce o ammazza. Vivere nell’incertezza non conviene a nessuno.
E per concludere l’ultima categoria, ovvero quella di coloro che non fanno il bagno in mare (o che si immergono solo in parte) perché ossessionati dall’igiene. Sono pochi (solo il 2 per cento) per fortuna, ma fanno tanta tristezza. A sorpresa non rientra in classifica uno degli appuntamenti più ansiogeni di tutto l’universo viaggio: la preparazione del bagaglio. Sarà, ma quando devo cimentarmi con questa pratica entro sempre in profonda agitazione: “Metto questo, metto quello…, si ma poi pesa troppo…, devo ricordarmi di tagliare il manico dello spazzolino da denti così alleggerisco lo zaino di quei buon dieci grammi…”. Per almeno un paio di giorni è sempre la stessa storia…! Poi parto e regolarmente ho dimenticato qualcosa. Certo non arrivo ai livelli di Simona che nel beauty case una volta ci trovò solo una mezza matita per gli occhi e un pettine, ma poco ci manca.
Come affrontare dunque tutte queste angosce? “Il segreto per rilassarsi - suggeriscono ancora una volta gli esperti - è evitare di darsi troppe regole e norme troppo rigide: molto meglio affrontare con il sorriso i piccoli imprevisti della vacanza”. Ecco, la prossima volta che vi smarriscono il bagaglio all’aeroporto di Bangkok , fate un bel sorriso e infischiatevene. Vi prenderanno per matti, ma ne guadagnerete in salute.
Fonte: http://www.oggisalute.it/2013/07/stress-vacanza/
Ma tutto ciò è nulla se confrontato con le ansie e le angosce che attanagliano l’italiano medio in procinto di andarsene in ferie. Lo rivela una ricerca condotta dall’Osservatorio Italiani e benessere emozionale di HRD Training Group. Stando ai dati raccolti (12 focus group effettuati in luoghi diversi di tutto il territorio nazionale, su un campione di uomini e donne rappresentativo del target, di età compresa tra i 24 e i 55 anni), le ragioni di ansia più diffuse sono prevalentemente legate ai furti in appartamento (51 per cento degli intervistati). In effetti tornare e trovare la casa svaligiata non è affatto piacevole. Nel mio vicinato, ad esempio, ci sono alcuni soggetti che per evitare brutte sorprese negli anni hanno messo a punto delle strategie “fenomenali”: uno ha pensato bene di lasciare tutte le luci di casa accese, infischiandosene del costo energetico (una mazzata inenarrabile…); un altro ha deciso di tenere acceso lo stereo, con musica afro-cubana a tutto volume (stereo che poi io stesso ho reso innocuo, staccandogli il contatore generale della corrente elettrica…); un altro ancora ha ipotizzato che offrendo un contentino ai topi d’appartamento, questi avrebbero lasciato intonsa l’abitazione: “Su questo tavolo ci sono cinquanta euro, gli unici denari presenti in casa. È inutile che cercate: perdereste solo tempo. Cordialità”. Altri invece, pur avendo installato potentissimi antifurti, hanno scavato buche nei giardini privati e vi hanno sotterrato tesori e contanti. Regolarmente portati alla luce dai cani di compagnia lasciati a guardia di casa e accuditi da altri vicini volenterosi.
Altra angoscia che attanaglia i vacanzieri è quella della spesa: il 44 per cento del campione ha dichiarato di non riuscire a godersi la vacanza per via delle preoccupazioni economiche. E come dar loro torto con questa fottuta crisi. Certo se poi si guarda alle vacanze solo come a un costo, allora meglio starsene a casa. Viceversa se si ragiona in termini di benessere, relax e tempo di recupero di energie psico-fisiche, anche questa spesa acquisisce una luce diversa.
Nella classifica delle ansie da vacanza segue poi lo stress da viaggio: il 32 per cento degli intervistati dichiara di soffrire mal d’auto, mal di mare o paura di volare. Ecco, lo vedete: se si convertissero tutti alla bicicletta, niente più sofferenza…! (se non altro psichica).
Ci sono poi coloro che soffrono di claustrofobia o agorafobia (11 per cento). In vacanza, dicono gli esperti, si perdono le certezze del nostro habitat abituale e dunque queste angosce tendono a manifestarsi in maniera più accentuata.
Un altro 5 per cento del campione ha dichiarato di provare un forte fastidio nel contatto fisico. Soprattutto con degli sconosciuti (misofobia). Queste persone tra l’altro sono angosciate dall’idea di trovarsi in luoghi poco puliti, paventano la possibilità di contrarre qualche malattia parassitaria, di ingurgitare cibi avariati. Per costoro sarebbe, a mio avviso, assai utile una settimana a spasso per sentieri e rifugi della Corsica settentrionale: una cura da cavallo che o guarisce o ammazza. Vivere nell’incertezza non conviene a nessuno.
E per concludere l’ultima categoria, ovvero quella di coloro che non fanno il bagno in mare (o che si immergono solo in parte) perché ossessionati dall’igiene. Sono pochi (solo il 2 per cento) per fortuna, ma fanno tanta tristezza. A sorpresa non rientra in classifica uno degli appuntamenti più ansiogeni di tutto l’universo viaggio: la preparazione del bagaglio. Sarà, ma quando devo cimentarmi con questa pratica entro sempre in profonda agitazione: “Metto questo, metto quello…, si ma poi pesa troppo…, devo ricordarmi di tagliare il manico dello spazzolino da denti così alleggerisco lo zaino di quei buon dieci grammi…”. Per almeno un paio di giorni è sempre la stessa storia…! Poi parto e regolarmente ho dimenticato qualcosa. Certo non arrivo ai livelli di Simona che nel beauty case una volta ci trovò solo una mezza matita per gli occhi e un pettine, ma poco ci manca.
Come affrontare dunque tutte queste angosce? “Il segreto per rilassarsi - suggeriscono ancora una volta gli esperti - è evitare di darsi troppe regole e norme troppo rigide: molto meglio affrontare con il sorriso i piccoli imprevisti della vacanza”. Ecco, la prossima volta che vi smarriscono il bagaglio all’aeroporto di Bangkok , fate un bel sorriso e infischiatevene. Vi prenderanno per matti, ma ne guadagnerete in salute.
Fonte: http://www.oggisalute.it/2013/07/stress-vacanza/
lunedì 8 luglio 2013
Nome proprio di persona
L’altro giorno parlavo con una mia cara amica. Tra qualche giorno partorirà e così, tra le tante cose a cui sta pensando intensamente, c’è anche il nome da dare alla bimba. In realtà lei saprebbe già come chiamarla, vale a dire un nome tradizionale di famiglia. E fin qui non ci sono grossi problemi, dato che col marito c’è perfetto accordo. Il problema si pone con i successivi due nomi. E già perché, uno solo non basta: minimo tre. Ed è qui che l’accordo si incrina. Classici, moderni, desueti, fuori dall’ordinario, biblici o che si richiamino alla mitologia: c’è da sbizzarrirsi. Che poi uno potrebbe dire: “Ma a che servono tre nomi?”.
“A che servono tre nomi? Ma è la tradizione…, ovviamente: servono per portarsi dietro la famiglia”. Ecco, giusto: la famiglia. Eppure, a sentire gli psicologi, ogni persona tende ad uniformarsi al proprio nome, ad identificarsi con ciò che esso significa e rappresenta. A quale dei tre nomi dunque dare retta? “Ma al primo, naturalmente: il resto è bagaglio da portarsi dietro, ricordo di persone importanti”.
Il nome di una persona, conferito alla nascita, identifica e distingue un individuo all’interno di una collettività, lo rende unico. Ed è proprio qui che a me viene spontaneo un pensiero: e perché mai non si può avere un nome proprio esclusivo, uno tutto per noi? Invece di averne uno in condivisione con altri milioni di persone. Avete mai provato a urlare, che so, Francesco, o Giuseppe, Mario, Luca in una pubblica piazza affollata? Ecco, regalatevi quest’esperienza indimenticabile: si volteranno non meno di venti, trenta persone. Rarissimi sono i personaggi identificabili solo per nome (tipo Silvio) così come altrettanto rari sono coloro che vengono identificati con la professione che fanno o che facevano: l’Avvocato era per tutti, Gianni Agnelli. Ma al di là di questi sparuti casi, siano tutti persone comuni e anonime pur potendo contare su di un nome “proprio” di persona. Ma quale proprio e proprio…! Pensate invece se ognuno fosse titolare di un nome in esclusiva. Tipo gli indiani d’America: alla nascita ogni individuo riceveva un nome provvisorio, così tanto per non essere chiamato “Ah coso…” (tipica espressione in voga presso i Lakota-Sioux delle grandi praterie). Solo successivamente, con la pubertà, gli veniva dato il nome vero, quello definitivo. E tale nome poteva derivare o da un evento che l’aveva coinvolto durante questi anni, o da una propria caratteristica sia fisica sia psichica, o da una somiglianza con qualche animale. Ahanu (colui che ride), Ahiga (colui che combatte), Howahkan (voce misteriosa), Kohana (veloce), Napayshni (duro e coraggioso), Kwatoko (uccello dal grande becco). Ecco, quest’ultimo, ad occhio e croce doveva avere un naso tipo Dante Alighieri. Pensate che meraviglia: ogni uomo e ogni donna avevano un nome che non apparteneva a nessun altro. Un nome che era tutt’uno con l’essenza della propria persona, della propria anima. Bello, vero? Già, ma qui stiamo parlando di uno dei popoli più poetici della storia dell’Umanità, mica di una marmaglia di rintronati che danno nomi di profumi ai proprio figli. A queste mie elucubrazioni la mia amica ha risposto: “Ma guarda che da noi ci sono i soprannomi: in fondo è un po’ la stessa cosa”. Al che ho ribattuto: “Già, ma il soprannome è quasi sempre qualcosa di ironico, uno sberleffo attaccato a qualcuno tanto per prenderlo un po’ in giro”. E nelle realtà dove il dialetto è ancora vivo, ce n’è di tutti i generi e gusti. Il nonno di Dario Fo, ad esempio, era chiamato “Bristin”, ovvero seme di peperone. Così scrive Fo ne Il paese dei mezeràt: “Ho scoperto quasi subito la ragione di quel titolo: le battute e i commenti di mio nonno piccavano lingua e stomaco di chiunque si trovasse a ingoiarle”. Ma anche nella mia famiglia ci sono soprannomi molto belli: “Precochillo” (un fratello di mia nonna, sempre azzimato e fresco come una pesca); “Maometto” (uno zio lontano, piccolo e di carnagione scura); “Capacchione” (un tizio con la testa molto grossa); “Ricciosa” (una zia con un carattere aspro e scontroso). E così via. L’unico soprannome lusinghiero che ho mai sentito era quello che davano a mio nonno paterno: “Oh maste”, ovvero il maestro. Perché sul lavoro era molto in gamba. Anche i romani antichi avevano qualcosa del genere: Gaio Giulio Cesare, Marco Tullio Cicerone. Cesare e Cicerone, in realtà erano dei soprannomi (il primo si riferiva ad un parto cesareo, o anche ad un tipo dai capelli folti; il secondo viene da cece e pare che si riferisse ad un’escrescenza appunto a forma di cece sul volto). Tali soprannomi erano stati dati ai loro antenati e poi, nel tempo, erano entrati a far parte della locuzione completa del nome dei discendenti. Ci sono poi i nomignoli appiccicati ai bimbi, quelli pronunciati con grandi schiocchi di lingua e labbra e che sanno di vezzeggiativo: Chicco, Ghigo, Nené, Giuggiolino, Cipollino. Con il conseguente paradosso che i portatori di tali appellativi, anche a settant’anni saranno sempre chiamati alla stessa maniera. Il che, francamente, è imbarazzante.
Ed è così che mi sono affezionato a quella sorta di nome d’arte con il quale alcuni amici mi chiamano: Yanez. Molti anni fa mi trovavo su di una nave che, partita da Brest, faceva rotta per l’isola di Oussant. Nel vento fresco dell’Oceano Atlantico, la mia amica Teresa mi fissò per alcuni attimi e poi proruppe con un meraviglioso: “Ah Luì, ma lo sai chi mi ricordi in questo preciso momento?”. Io rimasi inchiodato senza dire una parola: pensavo che se ne venisse fuori con qualcosa tipo Giggi il bullo o Pierino colpisce ancora. E invece lasciò cadere queste parole magiche: “Yanez, l’amico di Sandokan”. Vale a dire Yanez de Gomera, il personaggio inventato da Salgari, corsaro portoghese, pirata gentiluomo, sempre pronto ad aiutare fedelmente Sandokan, la Tigre di Mompracem. Lì per lì feci finta di nulla. Nella realtà ero molto felice di questo accostamento. Tant’è che ancora oggi, firmo i miei pezzi con quello pseudonimo. Certo non è Tashunka Uitko (Cavallo Pazzo), né tantomeno Tatanka Iyotake (Toro Seduto), questo è ovvio, ma nella vita occorre pur accontentarsi.
“A che servono tre nomi? Ma è la tradizione…, ovviamente: servono per portarsi dietro la famiglia”. Ecco, giusto: la famiglia. Eppure, a sentire gli psicologi, ogni persona tende ad uniformarsi al proprio nome, ad identificarsi con ciò che esso significa e rappresenta. A quale dei tre nomi dunque dare retta? “Ma al primo, naturalmente: il resto è bagaglio da portarsi dietro, ricordo di persone importanti”.
Il nome di una persona, conferito alla nascita, identifica e distingue un individuo all’interno di una collettività, lo rende unico. Ed è proprio qui che a me viene spontaneo un pensiero: e perché mai non si può avere un nome proprio esclusivo, uno tutto per noi? Invece di averne uno in condivisione con altri milioni di persone. Avete mai provato a urlare, che so, Francesco, o Giuseppe, Mario, Luca in una pubblica piazza affollata? Ecco, regalatevi quest’esperienza indimenticabile: si volteranno non meno di venti, trenta persone. Rarissimi sono i personaggi identificabili solo per nome (tipo Silvio) così come altrettanto rari sono coloro che vengono identificati con la professione che fanno o che facevano: l’Avvocato era per tutti, Gianni Agnelli. Ma al di là di questi sparuti casi, siano tutti persone comuni e anonime pur potendo contare su di un nome “proprio” di persona. Ma quale proprio e proprio…! Pensate invece se ognuno fosse titolare di un nome in esclusiva. Tipo gli indiani d’America: alla nascita ogni individuo riceveva un nome provvisorio, così tanto per non essere chiamato “Ah coso…” (tipica espressione in voga presso i Lakota-Sioux delle grandi praterie). Solo successivamente, con la pubertà, gli veniva dato il nome vero, quello definitivo. E tale nome poteva derivare o da un evento che l’aveva coinvolto durante questi anni, o da una propria caratteristica sia fisica sia psichica, o da una somiglianza con qualche animale. Ahanu (colui che ride), Ahiga (colui che combatte), Howahkan (voce misteriosa), Kohana (veloce), Napayshni (duro e coraggioso), Kwatoko (uccello dal grande becco). Ecco, quest’ultimo, ad occhio e croce doveva avere un naso tipo Dante Alighieri. Pensate che meraviglia: ogni uomo e ogni donna avevano un nome che non apparteneva a nessun altro. Un nome che era tutt’uno con l’essenza della propria persona, della propria anima. Bello, vero? Già, ma qui stiamo parlando di uno dei popoli più poetici della storia dell’Umanità, mica di una marmaglia di rintronati che danno nomi di profumi ai proprio figli. A queste mie elucubrazioni la mia amica ha risposto: “Ma guarda che da noi ci sono i soprannomi: in fondo è un po’ la stessa cosa”. Al che ho ribattuto: “Già, ma il soprannome è quasi sempre qualcosa di ironico, uno sberleffo attaccato a qualcuno tanto per prenderlo un po’ in giro”. E nelle realtà dove il dialetto è ancora vivo, ce n’è di tutti i generi e gusti. Il nonno di Dario Fo, ad esempio, era chiamato “Bristin”, ovvero seme di peperone. Così scrive Fo ne Il paese dei mezeràt: “Ho scoperto quasi subito la ragione di quel titolo: le battute e i commenti di mio nonno piccavano lingua e stomaco di chiunque si trovasse a ingoiarle”. Ma anche nella mia famiglia ci sono soprannomi molto belli: “Precochillo” (un fratello di mia nonna, sempre azzimato e fresco come una pesca); “Maometto” (uno zio lontano, piccolo e di carnagione scura); “Capacchione” (un tizio con la testa molto grossa); “Ricciosa” (una zia con un carattere aspro e scontroso). E così via. L’unico soprannome lusinghiero che ho mai sentito era quello che davano a mio nonno paterno: “Oh maste”, ovvero il maestro. Perché sul lavoro era molto in gamba. Anche i romani antichi avevano qualcosa del genere: Gaio Giulio Cesare, Marco Tullio Cicerone. Cesare e Cicerone, in realtà erano dei soprannomi (il primo si riferiva ad un parto cesareo, o anche ad un tipo dai capelli folti; il secondo viene da cece e pare che si riferisse ad un’escrescenza appunto a forma di cece sul volto). Tali soprannomi erano stati dati ai loro antenati e poi, nel tempo, erano entrati a far parte della locuzione completa del nome dei discendenti. Ci sono poi i nomignoli appiccicati ai bimbi, quelli pronunciati con grandi schiocchi di lingua e labbra e che sanno di vezzeggiativo: Chicco, Ghigo, Nené, Giuggiolino, Cipollino. Con il conseguente paradosso che i portatori di tali appellativi, anche a settant’anni saranno sempre chiamati alla stessa maniera. Il che, francamente, è imbarazzante.
Ed è così che mi sono affezionato a quella sorta di nome d’arte con il quale alcuni amici mi chiamano: Yanez. Molti anni fa mi trovavo su di una nave che, partita da Brest, faceva rotta per l’isola di Oussant. Nel vento fresco dell’Oceano Atlantico, la mia amica Teresa mi fissò per alcuni attimi e poi proruppe con un meraviglioso: “Ah Luì, ma lo sai chi mi ricordi in questo preciso momento?”. Io rimasi inchiodato senza dire una parola: pensavo che se ne venisse fuori con qualcosa tipo Giggi il bullo o Pierino colpisce ancora. E invece lasciò cadere queste parole magiche: “Yanez, l’amico di Sandokan”. Vale a dire Yanez de Gomera, il personaggio inventato da Salgari, corsaro portoghese, pirata gentiluomo, sempre pronto ad aiutare fedelmente Sandokan, la Tigre di Mompracem. Lì per lì feci finta di nulla. Nella realtà ero molto felice di questo accostamento. Tant’è che ancora oggi, firmo i miei pezzi con quello pseudonimo. Certo non è Tashunka Uitko (Cavallo Pazzo), né tantomeno Tatanka Iyotake (Toro Seduto), questo è ovvio, ma nella vita occorre pur accontentarsi.
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