Più guardo quelle immagini spaventose del deragliamento del treno diretto a Santiago de Compostela e più faccio fatica a credere che non si tratti di un video-gioco. In effetti siamo abituati ormai a tutto, ma le immagini che riprendono le stragi fanno quasi sempre riferimento ad eventi già consumati, a lamiere accartocciate, a tracce di incendi domate. Vedere un treno che a folle velocità affronta una curva e si schianta contro un muro di cemento armato, ribaltandosi sul fianco, è qualcosa di dirompente, lascia increduli e senza fiato: come se si trattasse appunto di un modellino della “Trenini Lima”. Il bilancio parla di ottanta morti e decine di feriti, anche molto gravi. A quanto pare ci sarebbe anche un italiano tra le vittime. E fa ancora più specie pensare che quasi tutti i passeggeri fossero pellegrini, diretti verso il Santuario in cui sono conservate le spoglie di San Giacomo.
La prima cosa che ho pensato, guardando quel filmato è stata: “Ma per la miseria, possibile che non esista un sistema computerizzato capace di arrestare un treno che imbocca una tratta a velocità troppo elevata rispetto al consentito? Possibile non ci sia un ausilio in grado di mettere in sicurezza un convoglio in caso di distrazione, malore o assopimento improvviso del macchinista?”. A sto punto c’è poco da star tranquilli anche sui treni, ho pensato per deduzione. Questa mattina tuttavia sui giornali italiani si leggono commenti autorevoli e rassicuranti: “Quanto accaduto a Santiago de Compostela in Italia non potrebbe accadere, i passeggeri italiani possono stare tranquilli” (Giorgio Diana, massimo esperto di sicurezza ferroviaria del Politecnico di Milano, che si occupò del deragliamento del Pendolino di Piacenza nel 1997). E il motivo è presto detto: sui 12mila km di linea del nostro Paese vi è installato un sistema automatico (SCMT - “Sistema controllo marcia treni”) in grado di gestire la corsa dei treni: ogni 200 metri dei nostri binari dove transitano intercity e treni pendolari, delle boe mandano costantemente dei segnali a un decoder installato sul treno, che dice al macchinista quando deve rallentare o fermarsi. Quando non lo fa, scatta il sistema automatico di frenatura. Un controllo a distanza così ravvicinata permette dunque che il treno non raggiunga velocità elevate. Sulle tratte ad Alta Velocità, in più, vi è un sistema dotato di mappatura gps in grado di intervenire in automatico in caso di superamento dei limiti di velocità. Dunque, facendo i debiti scongiuri, da noi i treni dovrebbero essere abbastanza sicuri.
Questa tremenda sciagura mi ha fatto tornare alla mente un episodio di vita familiare. Molti e molti anni fa mio nonno paterno fu coinvolto in un deragliamento spaventoso, e ne uscì miracolosamente illeso. Quello che segue è il racconto che ne ho fatto per Il Cialtrone.
Questioni di famiglia
Michele e Luigi erano fratelli e provenivano da una famiglia molto numerosa. Fino a che non erano diventati autonomi erano vissuti in una piccola abitazione insieme agli altri sei fratelli, di cui quattro femmine, il padre - unico sostegno di famiglia - , la madre e gli anziani nonni. Era una lotta continua per la sopravvivenza. La madre era costretta a nascondere il pane ogni giorno in un nascondiglio diverso, onde evitare che la sera, a tavola, mancasse l’alimento principe su cui si basava la loro dieta.
Crebbero tutti grandi e grossi nonostante le ristrettezze ed in breve ognuno riuscì a farsi una propria vita. Michele e Luigi rimasero negli anni molto attaccati: il primo aveva quasi dieci anni più del secondo ed aveva un atteggiamento molto protettivo nei suoi confronti; il secondo aveva altresì nei riguardi del primo un rispetto assoluto, quasi a considerarlo un secondo padre […].
Una bella mattina i due fratelli si recarono alla stazione e salirono sul diretto per Napoli: nel pomeriggio la squadra locale, di cui erano tifosi, avrebbe affrontato la blasonata Inter. Avevano acquistato i biglietti tre mesi prima. Poco prima dell’alba, nell’approssimarsi della stazione di Benevento Luigi si accorse - da buon ferroviere qual era - che il treno viaggiava ad una velocità insolitamente elevata. Si aggrappò ad una maniglia temendo il peggio e dopo qualche attimo il convoglio deragliò in maniera spaventosa. Il treno, coricatosi sul fianco destro, andò a schiantarsi contro un’ala della stazione ferroviaria di Benevento, causando 22 morti e una settantina di feriti. Luigi assistette a quell’Apocalisse reggendosi disperatamente a quella maniglia. Tutto intorno era la fine del mondo: corpi scaraventati contro le pareti, carrozze accartocciate, stridore di lamiera, vetri infranti, urla strazianti. Quando, dopo un tempo che parve infinito, il treno impazzito si arrestò Luigi lasciò la maniglia e precipitò pesantemente su qualcosa di morbido, che ne attutì la caduta. Nella confusione non si rese subito conto di dove fosse atterrato. Spostò un impermeabile bagnato e sotto di esso vide il corpo senza vita di un uomo obeso, lo stesso che aveva visto dormire placidamente un attimo prima. Tra le lamiere iniziarono lentamente a sentirsi le grida disperate dei sopravvissuti. Luigi cominciò a cercare il fratello a gran voce: in quello scenario di morte e distruzione temeva che non fosse sopravvissuto.
«Michele… Michele rispondi… Michele».
Il fratello giaceva a poca distanza da lui e, sebbene sentisse quelle grida, non poteva rispondere dal momento che aveva subito uno schiacciamento toracico, oltreché la frattura del braccio destro.
Quando Luigi ripeté per l’ennesima volta quell’urlo disperato Michele non ne poté più e sbottò in un nervosissimo: «…e statti zitto, accidenti a te: stai mettendo in subbuglio tutto il treno…».
I primi soccorsi giunsero dopo quasi un’ora e con grande difficoltà le vittime cominciarono ad essere evacuate. Nella confusione andarono perse valigie, cappotti ed ogni altra cosa, e dunque - data la stagione invernale (era il 16 febbraio del ’53) - Luigi dovette suo malgrado accaparrarsi un palettò di cammello, elegantissimo, appartenuto ad un ragazzo che si trovava in viaggio di nozze con la moglie: entrambi erano deceduti. Nel frattempo a Foggia la notizia del disastro era arrivata in un baleno: i parenti si erano riuniti tutti intorno a Teresa, la matrona della famiglia, madre di Luigi e Michele, in attesa di sapere che fine avessero fatto i loro congiunti. Le prime informazioni parlavano di un deragliamento spaventoso, come mai se ne erano registrati fino ad allora, ed il bilancio dei morti, sebbene provvisorio, faceva temere il peggio. Le donne piangevano angosciate, ma sopra ad esse si levava la voce straziante di Teresa, come una litania ripetuta all’infinito per la salvezza dei figli: ad ogni preghiera ripeteva tre volte il nome di Michele ed una sola quella di Luigi. La faccenda parve strana al primogenito di Luigi: «Mamma’, ma perché la nonna dice tre volte il nome dello zio Michele ed una sola quello di papà?».
Al che Marcella, che era una donna coraggiosa, fatalista e soprattutto molto intelligente rispose: «Perché lo zio le porta le medicine…!».
Michele venne ricoverato all’ospedale di Benevento mentre Luigi, che aveva riportato solo una leggera ferita sulla fronte, tornò a casa. Fece tutto il viale che dalla Stazione portava alla Villa Comunale, salutato come un reduce da parenti e conoscenti, curiosi di sapere di quella triste avventura. A nessun sfuggì quell’elegante palettò di cammello, tanto che qualcuno arrivò a malignare biecamente, sostenendo che Luigi aveva approfittato di quella circostanza per rifarsi il guardaroba.
Quando Marcella lo vide imboccare via Salomone con quel suo passo marziale da ex-sottufficiale dell’Esercito, sentì scendere due calde lacrime dagli occhi: non aveva pianto fino ad allora, era troppo ottimista per pensare che lui, proprio lui che aveva fatto la guerra in Grecia e Albania, e che dopo l’armistizio aveva sfidato la sorte durante l’occupazione tedesca pur di mantenere la famiglia, non sarebbe tornato. Scese in strada e lo fissò: solo allora si accorse dell’eleganza di suo marito. Sorrise appena, poi un singulto violento la scosse. Gli corse incontro con passi brevi, le mani veloci ad asciugare il volto rigato. L’angoscia che aveva sospeso il corso naturale dei giorni spariva all’improvviso, spazzata via da sciabolate di felicità. Lungo il vicolo c’era una folla curiosa che assisteva a quella scena mettendo imbarazzo. Ma Luigi, che pure era uomo schivo e di una serietà prussiana, quando la moglie gli fu vicino, non poté fare a meno di sollevarla e di stringerla a se tra le sue braccia forti. Quegli sguardi indiscreti erano svaniti.
P.S. Nell’atrio della stazione di Benevento, c’è una targa commemorativa che ricorda le vittime dell’incidente avvenuto il 16 febbraio 1953. Treno 816, ore 04.45. Ventidue morti e 70 feriti.
E questo è ciò che disse il Ministro Malvestiti in risposta ad un’interrogazione parlamentare del 23 marzo 1953:
“In base alle risultanze dell’inchiesta all’uopo espletata, già rese di pubblico dominio, si può affermare che le cause del disastro ferroviario avvenuto a Benevento il 16 febbraio 1953 sono da ricercarsi nel mancato o troppo ritardato azionamento dei mezzi di frenatura del treno, la cui responsabilità è da attribuire ai due macchinisti del treno stesso, entrambi del deposito locomotive di Napoli smistamento. Il mancato intervento dei due agenti di macchina si verificò con ogni probabilità perché essi non rilevarono l’oltrepassamento del segnale di avviso e, solo allorché si trovarono a transitare sotto il segnale di prima categoria, sia resero conto che stavano ormai entrando in stazione, cioè troppo tardi per un efficace intervento. Nessun difetto presentava l’apparecchiatura di comando sia del freno automatico sia del freno moderabile, ubicata nella cabina anteriore nel senso di marcia, del locomotore 423.212 del treno di cui trattasi. Per quanto riguarda la sicurezza dell’esercizio essa è normalmente garantita dagli impianti esistenti e dalla applicazione delle norme che la disciplinano; naturalmente se tali disposizioni non vengono osservate possono verificarsi inconvenienti che in certi casi come in quello di Benevento assumono carattere di particolare gravità”.
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