Il 30 ottobre del 1938, ovvero 75 anni fa, negli Stati Uniti d’America si svolge uno degli eventi mediatici più straordinari dell’era moderna. Orson Welles, attore, regista e sceneggiatore cinematografico, trasmette dalla CBS Mercury Theatre on the Air, un programma in cui vengono proposte settimanalmente letture di romanzi celebri. In questa circostanza, la scelta cade su La Guerra dei Mondi di Herbert George Wells, pubblicato nel 1897. L’idea geniale è quella di inserire, nel corso della serata musicale, una serie di comunicati “dal vivo” del tutto simili a quelli trasmessi nei notiziari radiofonici. L’effetto immediato - nonostante sia all’inizio, sia alla fine della trasmissione, venga ripetuto a più riprese che si tratta di una finzione radiofonica - è il panico generalizzato della popolazione. I finti comunicati sono talmente realistici e allarmanti che gli ascoltatori sono davvero indotti a credere che sia in atto una cruenta invasione aliena. Ad intervalli sempre più ravvicinati, la trasmissione viene interrotta dai comunicati che giungono dai finti inviati sul luogo dell’evento, racconti brevi, essenziali, che descrivono l’arrivo sulla Terra di misteriosi meteoriti, dai quali escono strani esseri: «Signore e signori, è la cosa più terribile alla quale abbia mai assistito…! Aspettate un momento! Qualcuno sta cercando di affacciarsi alla sommità… Qualcuno… o qualcosa. Nell’oscurità vedo scintillare due dischi luminosi… sono occhi? Potrebbe essere un volto. Potrebbe essere…». E a seguire, nel confuso sottofondo, un urlo agghiacciante della folla. La trasmissione prosegue e, sempre più incalzanti, i comunicati narrano dell’arrivo di altri oggetti sconosciuti, di altri alieni atterrati nel New Jersey: l’inviato parla di una vera e propria invasione proveniente da Marte. Nel corso della serata, si descrive poi una tremenda battaglia combattuta tra uomini e marziani, “una delle più strabilianti disfatte subite da un esercito nei tempi moderni”. A quel punto il panico regna sovrano in ogni casa in cui c’è una radio accesa: la gente corre per le strade per cercare conferme, per trovare solidarietà e conforto nelle braccia dei vicini; le chiese si riempiono di fedeli dell’ultima ora; i centralini delle stazioni di polizia e le redazioni dei giornali vengono bombardate di telefonate. L’intera America è in preda dall’angoscia più nera. E a nulla vale il lieto epilogo del racconto, ovvero la sconfitta degli alieni: l’evento mediatico è ormai esploso in tutta la sua devastante potenza.
Ci vollero giorni e giorni di smentite radiofoniche ufficiali e comunicati delle autorità competenti per tornare alla normalità. Eppure molti furono coloro che continuarono a credere alla notizia dell’invasione aliena. Tale fu la portata di questo portentoso “a lupo a lupo” che, quando tre anni dopo, il 7 dicembre del 1941, i giapponesi attaccarono la flotta americana a Pearl Harbor, molti non credettero ai notiziari.
Dall’altra parte invece, nelle file di coloro che dubitano delle versioni ufficiali, ci sono ancora coloro che credono fermamente alle prove “schiaccianti” sull’esistenza degli alieni racchiuse nella misteriosa Area 51.
Il punto ovviamente non è l’esistenza o meno di altre forme di vita a parte noi: certo se ragionassimo per probabilità statistiche, e stante l’immensità dell’Universo (miliardi e miliardi di galassie…) sarebbe davvero arduo sostenere che non ci sia nulla là fuori. In ogni caso per noi sarebbe un bel vantaggio se fossimo soli: e parlo di pura convenienza. La compianta Margherita Hack sosteneva che qualora davvero non fossimo soli nell’Universo, ci converrebbe non avere mai nulla a che fare con questi ipotetici alieni: le distanze infatti sono talmente siderali nello spazio, che una civiltà che fosse in grado di raggiungerci sarebbe talmente progredita rispetto a noi che potremmo solo correre dei rischi da questo incontro. D’altra parte gli incontri di civiltà, c’insegna la storia, non sono mai semplici scambi di cordialità, ma si risolvono in grandi tragedie. Soprattutto quando una delle due (com’è avvenuto tra europei e pellerossa) è sensibilmente più progredita dell’altra. Certo l’idea che un giorno qualcuno possa venirci a trovare è incredibilmente fascinosa. Una sera d’estate di qualche anno fa, mi sedetti in veranda a respirare l’aria della notte. All’improvviso, come in un sogno, cominciai a vedere delle strane luci nel cielo buio. Rimasi senza parole e un brivido nella schiena risalì violento, recapitando un messaggio alla mente: “Sono arrivati”. Ero al colmo dell’euforia: forse ero il primo essere umano che avvistava gli alieni. Corsi in casa a prendere il binocolo. Quando tornai le luci erano diventate tantissime: si muovevano molto lentamente nell’oscurità, ed avevano una traiettoria ascensionale. Quando puntai le lenti su di loro, la delusione fu violenta: si trattava semplicemente di lampade cinesi. Oggetti volanti che fino ad allora non avevo mai visto.
Certo l’arrivo degli alieni oggi da noi, sarebbe davvero una notizia sensazionale: in un baleno verrebbero spazzate via tutte le mortifere e infinite discussioni su decadenze di parlamentari condannati, leggi finanziarie, leggi elettorali e quant’altro. Le prime pagine sarebbero invase di reportage, commenti, analisi: una nuova era per l’umanità. Giorni e giorni di clamore e battage mediatico. Fino a esaurimento spontaneo del cosiddetto ciclo vitale della notizia: ci possiamo giurare. Nel 1954 Ennio Flaiano scrisse un racconto dal titolo Un marziano a Roma. Vi si narra dell’arrivo di una navicella aliena con a bordo un viaggiatore dello spazio. C’è un clamore straordinario intorno a questo evento, e il marziano viene accolto con tutti gli onori dalle autorità e dalle folle capitoline. Sono giorni e giorni di euforia e festeggiamenti. Col passare del tempo, tuttavia, l’attenzione sul marziano si smorza, si spengono i riflettori, ed anche quel prodigio piovuto sulla Terra da mondi lontani, diventa uno dei tanti personaggi insignificanti destinati all’ombra e all’indifferenza. Ed anzi, alla derisione. Ecco come termina il racconto:
La noia della notte, la paura del letto, l’orrore di una stanza nemica che respinge lo tenevano ora inchiodato davanti ad una vetrina di giocattoli, ora davanti ad una vetrina di fiori. Sembra che su Marte non crescano fiori così belli come da noi… Ha deciso infine di attraversare la strada e, a questo punto, nel grigio silenzio, qualcuno ha gridato forte: “A marziano…!”. Il marziano si è subito voltato, ma ancora una volta il silenzio è stato rotto e stavolta da un suono lungo, straziante, plebeo. Il marziano è rimasto fermo e scrutava nel buio. Ma non c’era nessuno o, meglio, non si vedeva nessuno. Si è mosso per riprendere la sua passeggiata; un suono ancora più forte, multiplo, fragoroso, lo ha inchiodato sull’asfalto: la notte sembrava squarciata da un concerto di diavoli. “Mascalzoni!” ha gridato il marziano.
Gli ha risposto una salve di suoni, prolungata, scoppiettante come un atroce fuoco d’artificio, che si è poi spenta in una corona di abili fiorettature solo quando il marziano ha potuto confondersi nella piccola folla che stazionava davanti al Caffè Strega. Abbiamo potuto dedurre che i giovinastri erano in folto gruppo, nascosti dietro l’edicola di giornali di via Boncompagni.
Più tardi, tornando a casa ho visto Kunt (il marziano: ndr) che si dirigeva, solo, a lunghi passi morbidi, verso Villa Borghese. Sopra le chiome dei pini brillava il rosso puntino di Marte, quasi solitario nel cielo. Kunt si è fermato a guardarlo. Si parla infatti di una sua prossima partenza, sempre se riuscirà a riavere l’aeronave, che gli albergatori hanno fatto, si dice, pignorare.
Prova
“Non preoccuparti della pioggia, lasciala cadere” (Marco Brignoli, Rifugio Baroni al Brunone, Sentiero delle Orobie Orientali)
Pagine
mercoledì 30 ottobre 2013
martedì 29 ottobre 2013
Le invenzioni che hanno cambiato la nostra vita
È da un po’ di settimane che girano in rete e sui giornali di mezzo mondo articoli che parlano delle invenzioni che hanno cambiato la nostra vita. Tirare somme e stilare classifiche definitive sembra essere il leitmotiv di questa stagione, come se un sipario si stesse per chiudere a sigillo di un’epoca che, tra i vortici impetuosi della storia, ci ha portato a cotanto progresso. E così si leggono liste di oggetti e abitudini consegnate agli archivi (tipo il tormentone “Noi che…”), elenchi di nomi e parole che hanno valore e significato solo per coloro che hanno una certa età (tipo gettone telefonico, Burgy, Paninaro etc…), sondaggi e classifiche sul meglio del meglio della scienza, della musica, della letteratura, etc…! C’è un che di nostalgico - se non addirittura tragico - in tutto ciò, come se si rimpiangesse un’età dell’oro ormai tramontata. E così, sull’onda lunga di questo filone, ecco anche la classifica delle invenzioni più straordinarie compiute dal genere umano, quelle che hanno consentito il salto definitivo di qualità. A regalarci questa perla incommensurabile è il sito VoucherCodesNetwork.co.uk: grazie ad un sagace sondaggio condotto su di un campione rappresentativo della popolazione, il portale anglosassone ha stilato la classifica delle 50 più grandi invenzioni della storia dell’Umanità. Non ne ho la certezza, ma sono convinto che molti di coloro che stanno leggono queste righe, di fronte a tali premesse, hanno in mente un’unica parole: computer. Come si fa a non riservare a tale invenzione, dato il periodo che stiamo vivendo, la piazza più alta del podio? Così come si fa a non correre subito all’altra invenzione, quella che è l’esplicazione più portentosa dello scibile universale alla portata di tutti, ovvero Internet. E invece no: per gli intervistati né il primo né in secondo sono invenzione da primi posti: nella classifica generale il computer si posiziona al 34esimo posto; Internet addirittura al 45esimo.
E quali sono dunque le invenzioni più importanti secondo il campione intervistato? Ecco le prime dieci classificate: apribottiglie; lenti; chiusura zip; accendino; lampadina; thermos; telefono; orologio da polso; cucina a gas; automobile. Qualcuno ne riderà, lo so, ma questo è quanto. In effetti non è semplice pensare alle trovate che più hanno avuto importanza per l’uomo: a suo modo, ogni invenzione ha portato ad una rivoluzione, ad un miglioramento delle condizioni di vita. Si potrebbe dissentire sul primo posto dell’apribottiglie, questo è ovvio, ma occorre pur contestualizzare il risultato: se il sondaggio fosse stato fatto in Iran (dove è reato consumare alcolici) l’esito probabilmente sarebbe stato diverso. Che poi, che cos’è l’invenzione? Non è altro che la risposta ad un’esigenza divenuta impellente e non più rimandabile. Gli storici infatti sostengono che la scienza, a differenza dell’arte che è molto più legata alla creatività individuale e all’ispirazione soggettiva, è un’evoluzione collettiva: se pur non fosse mai nato, ad esempio, un tale di nome Johann Gutenberg, la stampa a caratteri mobili sarebbe stata comunque inventata da qualcun altro. In altre parole i tempi erano maturi e, dai e ridai, a qualcuno sarebbe venuto in mente di sviluppare quel genere di tecnologia.
Se dovessi pensare ad un’invenzione che in assoluto ha cambiato il corso dell’umanità - e con tutto il rispetto per il genio che ideò la ruota - forse penserei alla scrittura. E di fatti per gli studiosi è proprio questo il momento in cui l’uomo abbandona la preistoria e si affaccia nella storia. Furono i Sumeri, oltre 5000 anni fa, i primi a creare un linguaggio scritto, il cosiddetto alfabeto cuneiforme. Si trattò, come sempre accade, di un’esigenza pratica legata al mondo degli affari e del commercio: con la forma scritta nasceva la possibilità di dialogare a distanza, di conservare nel tempo la parola, di stipulare accordi, di avviare transazioni. Col tempo poi quest’invenzione trovò la sua sublimazione nella poesia e nella letteratura, e ciò che fino ad allora era stata cultura esclusivamente orale, tramandata di generazione in generazione attraverso riti corali di passaggio, divenne opera scritta da lasciare ai posteri.
Ma come detto, ogni invenzione è stato un passo necessario e importante per le genti di quell’epoca e di quel contesto specifico e dunque è assai arduo stilare classifiche. Nel film Non ci resta che piangere, per esempio, Mario (Troisi) e Saverio (Benigni) sono due “personcine” comuni del nostro tempo che, per un prodigio inspiegabile, vengono catapultati nel 1492. Immediatamente si rendono conto della scomodità dell’epoca in cui sono capitati, e in una delle scene più belle dell’intera pellicola, si trovano a discutere di cosa potrebbero inventare - o meglio reinventare - per portare un po’ di progresso in quel mondo arretrato. Eccolo, è tutto da gustare:
- «Allora fammi sentire che inventi…»
- «Tutto si può inventate. Ne vuoi sentire una? La lampadina…»
- «Sai fare la lampadina tu?»
- «Perché non hai mai visto una lampadina tu?»
- «Io l’ho vista, ma tu la sai fare?»
- «Ci vuol tanto… fai l’interruttore, poi la lampadina, il filo, la spina…, attenti alla scossa…»
- «Si, ma tu sai fare la lampadina?»
- «Che c’entro io? Lo si dice ad un elettricista qualsiasi…»
- «Non ci sta la lampadina, e vai dall’elettricista? Allora, imbecille, devi inventare prima l’elettricista e poi la lampadina…! L’unica cosa che si potrebbe inventare, che qua fanno proprio schifo e ne avrebbero bisogno…, è il gabinetto…»
- «Gabinetto…! Quello lo si sa fare…»
- «Perché è facile: quello è una tazza…, la puoi fare pure di legno se non ci sta la ceramica. Vai là, poi tiri lo sciacquone…»
- «Si però…, lo sciacquone è un mistero: perché va via l’acqua e poi ritorna da se»
- «Va be’ mistero: là ci sarà un sistema comunicante…»
- «Sì, ma c’è il sistema anche nella lampadina…»
- «Ma là è facile, è meccanico: l’acqua va via, e l’altra acqua prende il posto…»
- «Lo sai fare o non lo sai fare?»
- «Lo sciacquone? No. Cioè per adesso no, però se mi ci metto…! E sennò per adesso si fa il gabinetto e poi si butta un secchio d’acqua»
- «E che butti l’acqua sempre lì…? E poi vien fuori…! E questa sarebbe l’invenzione del gabinetto?»
Ecco, per dire: il gabinetto, secondo il sondaggio inglese, non rientra tra le 50 invenzioni che hanno cambiato il corso della storia. Vogliamo parlarne?
Fonte: http://www.express.co.uk/news/science-technology/435398/50-gadgets-that-changed-our-lives
http://www.corriere.it/foto-gallery/tecnologia/13_ottobre_09/50-invenzioni-che-ci-hanno-cambiato-vita-secondo-inglesi-f50c6e58-30d1-11e3-b3e3-02ebe4aec272.shtml#1
E quali sono dunque le invenzioni più importanti secondo il campione intervistato? Ecco le prime dieci classificate: apribottiglie; lenti; chiusura zip; accendino; lampadina; thermos; telefono; orologio da polso; cucina a gas; automobile. Qualcuno ne riderà, lo so, ma questo è quanto. In effetti non è semplice pensare alle trovate che più hanno avuto importanza per l’uomo: a suo modo, ogni invenzione ha portato ad una rivoluzione, ad un miglioramento delle condizioni di vita. Si potrebbe dissentire sul primo posto dell’apribottiglie, questo è ovvio, ma occorre pur contestualizzare il risultato: se il sondaggio fosse stato fatto in Iran (dove è reato consumare alcolici) l’esito probabilmente sarebbe stato diverso. Che poi, che cos’è l’invenzione? Non è altro che la risposta ad un’esigenza divenuta impellente e non più rimandabile. Gli storici infatti sostengono che la scienza, a differenza dell’arte che è molto più legata alla creatività individuale e all’ispirazione soggettiva, è un’evoluzione collettiva: se pur non fosse mai nato, ad esempio, un tale di nome Johann Gutenberg, la stampa a caratteri mobili sarebbe stata comunque inventata da qualcun altro. In altre parole i tempi erano maturi e, dai e ridai, a qualcuno sarebbe venuto in mente di sviluppare quel genere di tecnologia.
Se dovessi pensare ad un’invenzione che in assoluto ha cambiato il corso dell’umanità - e con tutto il rispetto per il genio che ideò la ruota - forse penserei alla scrittura. E di fatti per gli studiosi è proprio questo il momento in cui l’uomo abbandona la preistoria e si affaccia nella storia. Furono i Sumeri, oltre 5000 anni fa, i primi a creare un linguaggio scritto, il cosiddetto alfabeto cuneiforme. Si trattò, come sempre accade, di un’esigenza pratica legata al mondo degli affari e del commercio: con la forma scritta nasceva la possibilità di dialogare a distanza, di conservare nel tempo la parola, di stipulare accordi, di avviare transazioni. Col tempo poi quest’invenzione trovò la sua sublimazione nella poesia e nella letteratura, e ciò che fino ad allora era stata cultura esclusivamente orale, tramandata di generazione in generazione attraverso riti corali di passaggio, divenne opera scritta da lasciare ai posteri.
Ma come detto, ogni invenzione è stato un passo necessario e importante per le genti di quell’epoca e di quel contesto specifico e dunque è assai arduo stilare classifiche. Nel film Non ci resta che piangere, per esempio, Mario (Troisi) e Saverio (Benigni) sono due “personcine” comuni del nostro tempo che, per un prodigio inspiegabile, vengono catapultati nel 1492. Immediatamente si rendono conto della scomodità dell’epoca in cui sono capitati, e in una delle scene più belle dell’intera pellicola, si trovano a discutere di cosa potrebbero inventare - o meglio reinventare - per portare un po’ di progresso in quel mondo arretrato. Eccolo, è tutto da gustare:
- «Allora fammi sentire che inventi…»
- «Tutto si può inventate. Ne vuoi sentire una? La lampadina…»
- «Sai fare la lampadina tu?»
- «Perché non hai mai visto una lampadina tu?»
- «Io l’ho vista, ma tu la sai fare?»
- «Ci vuol tanto… fai l’interruttore, poi la lampadina, il filo, la spina…, attenti alla scossa…»
- «Si, ma tu sai fare la lampadina?»
- «Che c’entro io? Lo si dice ad un elettricista qualsiasi…»
- «Non ci sta la lampadina, e vai dall’elettricista? Allora, imbecille, devi inventare prima l’elettricista e poi la lampadina…! L’unica cosa che si potrebbe inventare, che qua fanno proprio schifo e ne avrebbero bisogno…, è il gabinetto…»
- «Gabinetto…! Quello lo si sa fare…»
- «Perché è facile: quello è una tazza…, la puoi fare pure di legno se non ci sta la ceramica. Vai là, poi tiri lo sciacquone…»
- «Si però…, lo sciacquone è un mistero: perché va via l’acqua e poi ritorna da se»
- «Va be’ mistero: là ci sarà un sistema comunicante…»
- «Sì, ma c’è il sistema anche nella lampadina…»
- «Ma là è facile, è meccanico: l’acqua va via, e l’altra acqua prende il posto…»
- «Lo sai fare o non lo sai fare?»
- «Lo sciacquone? No. Cioè per adesso no, però se mi ci metto…! E sennò per adesso si fa il gabinetto e poi si butta un secchio d’acqua»
- «E che butti l’acqua sempre lì…? E poi vien fuori…! E questa sarebbe l’invenzione del gabinetto?»
Ecco, per dire: il gabinetto, secondo il sondaggio inglese, non rientra tra le 50 invenzioni che hanno cambiato il corso della storia. Vogliamo parlarne?
Fonte: http://www.express.co.uk/news/science-technology/435398/50-gadgets-that-changed-our-lives
http://www.corriere.it/foto-gallery/tecnologia/13_ottobre_09/50-invenzioni-che-ci-hanno-cambiato-vita-secondo-inglesi-f50c6e58-30d1-11e3-b3e3-02ebe4aec272.shtml#1
lunedì 28 ottobre 2013
L’Italia a piedi, da nord a sud
Tante volte mi è venuta in mente l’idea di attraversare a piedi tutta l’Italia, da nord a sud, da est a ovest, isole comprese. Con alcuni amici ne ho anche discusso, abbiamo fatto delle stime, chilometri da percorrere, budget di spesa, tempi di marcia. Davide, ascoltando questi miei voli pindarici, è riuscito anche a rilanciare: «E se invece facessimo tutto il Sentiero E1, ovvero da Capo Nord a Capo Passero? Sono solo seimila chilometri…! Sei mesi di cammino…!». Una bazzecola, ovviamente. Tipo Calboni che per far colpo su Cobram, il nuovo Presidente della megaditta, dice a voce sostenuta: «Si potrebbe andare a cenare da mia zia a Pinerolo…». «Scusi ragioniere, ma sono 1.200 chilometri…». «E che cosa sono 1.200 chilometri…! Tutti a Pinerolo». E già, facile così: l’automobile era parcheggiata all’angolo della strada…!
Se invece le intenzioni sono pure e la voglia di partire è tanta, non c’è niente che possa arrestare quest’impulso vitale. Lo sa bene il signor Alessandro Bellière, emiliano residente a Bologna, che per il suo 80esimo compleanno ha pensato bene di regalarsi il sogno di una vita: l’Italia a piedi, da nord a sud. Partito il 10 settembre da Predoi, in Alto Adige è arrivato giovedì scorso a Portopalo di Capo Passero (Ragusa). 1.759 chilometri percorsi in un mese e mezzo, 42 tappe alla media di 40 chilometri al giorno. Con soli due giorni di riposo. Ecco, per dare una dimensione di ciò che ha compiuto questo grande sognatore, basta pensare che il Cammino di Santiago si sviluppa su di un percorso di circa 800 chilometri e per percorrerlo tutto ci vogliono non meno di 20 giorni. Complimenti vivissimi. E speriamo un giorno di riuscire anche noi in questa impresa.
Ecco il suo blog: http://www.alessandrobelliere.com/
Leggi anche: http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/catania/notizie/cronaca/2013/24-ottobre-2013/va-piedi-alto-adige-portopaloalessandro-festeggia-cosi-suoi-80-anni-2223537439324.shtml
Ecco il suo blog: http://www.alessandrobelliere.com/
Leggi anche: http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/catania/notizie/cronaca/2013/24-ottobre-2013/va-piedi-alto-adige-portopaloalessandro-festeggia-cosi-suoi-80-anni-2223537439324.shtml
Enrico e il deserto
Ciao Ya, sono Piazza, ti prenoto una copia del tuo ultimo libro,
non appena riusciamo ad organizzare una cena in zona Milano.
Dopo il 20 di novembre però, visto che sono disperso nel
Sahara, non a fare trekking ma a lavorare!
Vi allego un paio di foto, tutto bene, comunque. Alla fine, in Italia si stà proprio bene . . . Carina la foto del mulo, dei pozzi di petrolio sullo sfondo e dei pannelli fotovoltaici, sarà un metafora del passato, presente e futuro? mah?!
Un abbraccio,
Bacioni Piazza.
Vi allego un paio di foto, tutto bene, comunque. Alla fine, in Italia si stà proprio bene . . . Carina la foto del mulo, dei pozzi di petrolio sullo sfondo e dei pannelli fotovoltaici, sarà un metafora del passato, presente e futuro? mah?!
Un abbraccio,
Bacioni Piazza.
venerdì 25 ottobre 2013
Menzogne a fin di bene...
«Eh no Lu, con le donne non si deve mai mentire: la prima cosa è la sincerità». Con queste parole si chiudeva qualche settimana fa un lungo ragionamento con una mia cara amica. Di cosa stessimo parlando? Ma un po’ di tutto e un po’ di niente: ovvero dei rapporti tra uomini e donne. Io sostenevo che per tenere in vita un rapporto a volte è necessaria anche qualche bugia (a fin di bene, s’intende); lei invece ribatteva che l’onestà è alla base di ogni buona relazione e che la sincerità non deve mai mancare in nessun frangente. Non saprei dire chi dei due avesse ragione e chi torto: in linea di principio è ovvio che eticamente sarebbe più corretto avere un atteggiamento il più possibile cristallino con il prossimo (a prescindere dei rapporti che legano l’uno all’altra), ma non sempre ci si riesce e non sempre conviene. Anche perché esprimere sempre e comunque le proprie opinioni, può essere motivo di conflitto e può portare là dove nessuno dei due ha interesse ad arrivare. È la delicata arte del compromesso, un equilibrio necessario e indispensabile al fine di conciliare le diverse anime che giocano la partita. E che c’entra la menzogna con tutto questo, mi direte? C’entra c’entra…! Passare l’intera domenica in un orrendo centro commerciale, al guinzaglio della compagna alla ricerca spasmodica del vestitino carino, economico e che le stia bene, può essere motivo di tensione spaventevole e di conseguenze tragiche: in questo caso simulare un terrificante attacco di dissenteria fulminante, può essere una buona soluzione. Lei troverà sicuramente un’amica (o anche l’amante, perché no…) disposta ad accompagnarla; lui invece se ne andrà bel felice allo stadio per vedere l’Inter. E le cose continueranno a girare come sempre. Da recenti studi pare che gli uomini siano soliti inventare balle almeno sei volte al giorno, il doppio delle donne. E le donne lo sanno. Ma pur sapendolo oltre la metà di esse (55 per cento) afferma che sarebbe un “terribile choc” scoprire di essere state ingannate dal proprio uomo.
Ma siamo veramente sicuri che si tratti di falsità e non di sopravvivenza? E poi, di che tipo di menzogne stiamo parlando? Qualche mese fa la versione statunitense del mensile Cosmopolitan ha stilato la classifica delle bugie più ricorrenti nel genere maschile: al primo posto si trova il classico dei classici: ovvero, a domanda «che hai, c’è qualche problema?», la risposta è quasi sempre la stessa: «Nothing’s wrong, I’m fine». In realtà nell’animo del maschio si agitano burrasche portentose, ma si ritiene che sia più opportuno non parlarne. A scendere troviamo promesse e dichiarazioni d’intenti, tipo “questa è la mia ultima birra”. Salvo poi correre al bar sottocasa per scolarsi la brocca di Sambuca. C’è poi il capitolo menzogna sull’aspetto fisico della propria partner: «Come mi trovi con questo tailleur?». «Magnifica, semplicemente magnifica…». Mentre invece nella mente del maschio echeggia un pensiero: “Oddio…, sembra una meringa gigante…”. E ancora ci sono tutte le panzane per giustificare la mancata telefonata all’amore della propria vita: “Non c’era segnale”; “la batteria era a terra”; “ho finito il credito” etc…! Tutto tempo sprecato e gioco delle parti: per la donna tutto ciò ha un unico significato: “se n’è scordato e dunque non mi ama”. Cosa c’è di buono in tutto ciò? Il fatto che comunque è stato instillato il dubbio: “E se fosse vero…?”. E questo basta. Ci sono poi le scuse banali per giustificare il ritardo (“Sono stato bloccato nel traffico…”), o quelle più sottili e psicologiche per evitare di partecipare ad un evento indigesto, tipo una cena con i parenti di lei: “Ho bisogno di stare un po’ per conto mio”.
Tutto ciò vuol dire non voler bene? Non necessariamente. Una volta conobbi una ragazza durante un viaggio organizzato. Ci fu un’attrazione reciproca durante quei giorni lontani da casa, ma quando tornai mi sentii subito molto distante da lei. I viaggi a volte creano situazioni e stati emotivi da tempo sospeso, modellano realtà che hanno senso in quel determinato contesto e che al di fuori di esso tendono a scomporsi e a sbiadirsi. E così mi sentivo una volta tornato a casa. La ragazza mi chiamò diverse volte, voleva che la raggiungessi a casa sua, su al lago. Ogni volta prendevo tempo per non ferirla, rimandavo, a volte non rispondevo. Fino a che mi mise con le spalle al muro: «Allora, vieni su o no?». «No guarda, è troppo lontano: io sono molto pigro, lo sai, e tu abiti quasi al confine…! Lasciamo stare». Terminò tutto lì. Anzi, forse da lì nacque tutto: e sì perché da allora nacque un’amicizia che viaggiava su altre corde sentimentali. E che tutt’oggi è molto forte. Se fossi stato sincero e brutale, e cioè le avessi detto che non m’interessava più, l’avrei ferita. Nel dubbio invece, poteva sempre pensare che ci fossero altre ragioni, altre motivazioni: è la certezza che uccide, non certo il dubbio.
E le donne invece? Che rapporto hanno loro con la menzogna? Secondo una ricerca condotta dal sito MyCelebryFashion.co.uk, ogni occasione è buona per dare un colore particolare alla “verità” nell’ambito di una nuova relazione. Al primo posto nella graduatoria delle bugie troviamo “il numero di partner”: più di una donna su due ammette di mentire spudoratamente su questo argomento. E io aggiungere un bel “ovviamente”: nessuna donna si sognerebbe di iniziare una relazione raccontando di quanti uomini si è portata a letto. Al massimo, se proprio è costretta a riferire qualcosa dei suoi pregressi, tenderà a limarne il numero fino a raggiungere il minimo sindacale, al di là del quale la faccenda comincia a puzzare. Dall’altra parte, viceversa, l’uomo - per apparire più interessante - cercherà di applicare un adeguato moltiplicatore alle sue storie. Al secondo posto troviamo “i motivi della rottura con il partner precedente”. Qui in realtà non si tratta di mentire, ma semplicemente di tacere: meglio non far sapere qual è stata la causa del fallimento: potrebbe ritorcersi a proprio svantaggio. A seguire troviamo le bugie circa “il costo del proprio guardaroba”: meglio tenersi bassi e lasciar scoprire solo in seguito allo sventurato partner qual è il tenore di vita della vamp. Seguono poi le balle sul “lavoro” (sempre molto interessante e colmo di soddisfazioni), sullo “stipendio” (con dichiarazioni sempre inferiori alla realtà per non deprimere il potenziale partner); sull’”età” (una donna su cinque tende a togliersi manciate di anni senza alcuno scrupolo); su eventuali “tradimenti” (e certo…, non è proprio il massimo parlare di corna al primo appuntamento…); sul “peso”; sulla “taglia di reggiseno” (ma che vergogna…); e “sul colore dei capelli”. Tutte sfumature di verità perlopiù inoffensive, tenere, che muovono al sorriso empatico. Tutto fatto a fin di bene. Niente a confronto di quello che è uso dire un mio carissimo amico per sfangarsela in ogni occasione:
«Guarda, sto malissimo, ma il mio psicanalista dice che frequentarti per me è deleterio: mi destabilizzi». Risposta della partner scaricata: «Ok Psyco, divertiti con il tuo bel Tavor…».
«Non mi sento pronto per una relazione seria e matura». Risposta: «Ma se ci conosciamo da due settimane».
«Sei angosciante con questa tua gelosia fuoriposto…! Te l’ho detto: è solo una vecchia amica». Risposta: «E tu ad un’amica le metti la lingua in bocca?».
«Certo, è da una vita che non la vedevo…».
Fonte: http://www.cosmopolitan.com/sex-love/dating-advice/lies-men-tell-women
http://www.dailymail.co.uk/femail/article-2322523/Women-divide-men-times-How-BOTH-sexes-lie-partners-theyve-had.html
Ma siamo veramente sicuri che si tratti di falsità e non di sopravvivenza? E poi, di che tipo di menzogne stiamo parlando? Qualche mese fa la versione statunitense del mensile Cosmopolitan ha stilato la classifica delle bugie più ricorrenti nel genere maschile: al primo posto si trova il classico dei classici: ovvero, a domanda «che hai, c’è qualche problema?», la risposta è quasi sempre la stessa: «Nothing’s wrong, I’m fine». In realtà nell’animo del maschio si agitano burrasche portentose, ma si ritiene che sia più opportuno non parlarne. A scendere troviamo promesse e dichiarazioni d’intenti, tipo “questa è la mia ultima birra”. Salvo poi correre al bar sottocasa per scolarsi la brocca di Sambuca. C’è poi il capitolo menzogna sull’aspetto fisico della propria partner: «Come mi trovi con questo tailleur?». «Magnifica, semplicemente magnifica…». Mentre invece nella mente del maschio echeggia un pensiero: “Oddio…, sembra una meringa gigante…”. E ancora ci sono tutte le panzane per giustificare la mancata telefonata all’amore della propria vita: “Non c’era segnale”; “la batteria era a terra”; “ho finito il credito” etc…! Tutto tempo sprecato e gioco delle parti: per la donna tutto ciò ha un unico significato: “se n’è scordato e dunque non mi ama”. Cosa c’è di buono in tutto ciò? Il fatto che comunque è stato instillato il dubbio: “E se fosse vero…?”. E questo basta. Ci sono poi le scuse banali per giustificare il ritardo (“Sono stato bloccato nel traffico…”), o quelle più sottili e psicologiche per evitare di partecipare ad un evento indigesto, tipo una cena con i parenti di lei: “Ho bisogno di stare un po’ per conto mio”.
Tutto ciò vuol dire non voler bene? Non necessariamente. Una volta conobbi una ragazza durante un viaggio organizzato. Ci fu un’attrazione reciproca durante quei giorni lontani da casa, ma quando tornai mi sentii subito molto distante da lei. I viaggi a volte creano situazioni e stati emotivi da tempo sospeso, modellano realtà che hanno senso in quel determinato contesto e che al di fuori di esso tendono a scomporsi e a sbiadirsi. E così mi sentivo una volta tornato a casa. La ragazza mi chiamò diverse volte, voleva che la raggiungessi a casa sua, su al lago. Ogni volta prendevo tempo per non ferirla, rimandavo, a volte non rispondevo. Fino a che mi mise con le spalle al muro: «Allora, vieni su o no?». «No guarda, è troppo lontano: io sono molto pigro, lo sai, e tu abiti quasi al confine…! Lasciamo stare». Terminò tutto lì. Anzi, forse da lì nacque tutto: e sì perché da allora nacque un’amicizia che viaggiava su altre corde sentimentali. E che tutt’oggi è molto forte. Se fossi stato sincero e brutale, e cioè le avessi detto che non m’interessava più, l’avrei ferita. Nel dubbio invece, poteva sempre pensare che ci fossero altre ragioni, altre motivazioni: è la certezza che uccide, non certo il dubbio.
E le donne invece? Che rapporto hanno loro con la menzogna? Secondo una ricerca condotta dal sito MyCelebryFashion.co.uk, ogni occasione è buona per dare un colore particolare alla “verità” nell’ambito di una nuova relazione. Al primo posto nella graduatoria delle bugie troviamo “il numero di partner”: più di una donna su due ammette di mentire spudoratamente su questo argomento. E io aggiungere un bel “ovviamente”: nessuna donna si sognerebbe di iniziare una relazione raccontando di quanti uomini si è portata a letto. Al massimo, se proprio è costretta a riferire qualcosa dei suoi pregressi, tenderà a limarne il numero fino a raggiungere il minimo sindacale, al di là del quale la faccenda comincia a puzzare. Dall’altra parte, viceversa, l’uomo - per apparire più interessante - cercherà di applicare un adeguato moltiplicatore alle sue storie. Al secondo posto troviamo “i motivi della rottura con il partner precedente”. Qui in realtà non si tratta di mentire, ma semplicemente di tacere: meglio non far sapere qual è stata la causa del fallimento: potrebbe ritorcersi a proprio svantaggio. A seguire troviamo le bugie circa “il costo del proprio guardaroba”: meglio tenersi bassi e lasciar scoprire solo in seguito allo sventurato partner qual è il tenore di vita della vamp. Seguono poi le balle sul “lavoro” (sempre molto interessante e colmo di soddisfazioni), sullo “stipendio” (con dichiarazioni sempre inferiori alla realtà per non deprimere il potenziale partner); sull’”età” (una donna su cinque tende a togliersi manciate di anni senza alcuno scrupolo); su eventuali “tradimenti” (e certo…, non è proprio il massimo parlare di corna al primo appuntamento…); sul “peso”; sulla “taglia di reggiseno” (ma che vergogna…); e “sul colore dei capelli”. Tutte sfumature di verità perlopiù inoffensive, tenere, che muovono al sorriso empatico. Tutto fatto a fin di bene. Niente a confronto di quello che è uso dire un mio carissimo amico per sfangarsela in ogni occasione:
«Guarda, sto malissimo, ma il mio psicanalista dice che frequentarti per me è deleterio: mi destabilizzi». Risposta della partner scaricata: «Ok Psyco, divertiti con il tuo bel Tavor…».
«Non mi sento pronto per una relazione seria e matura». Risposta: «Ma se ci conosciamo da due settimane».
«Sei angosciante con questa tua gelosia fuoriposto…! Te l’ho detto: è solo una vecchia amica». Risposta: «E tu ad un’amica le metti la lingua in bocca?».
«Certo, è da una vita che non la vedevo…».
Fonte: http://www.cosmopolitan.com/sex-love/dating-advice/lies-men-tell-women
http://www.dailymail.co.uk/femail/article-2322523/Women-divide-men-times-How-BOTH-sexes-lie-partners-theyve-had.html
mercoledì 23 ottobre 2013
Difendersi (e guadagnarci) dalle telefonate moleste
Fino ad un paio d’anni fa il telefono di casa per me era un vero e proprio incubo: non c’era santissimo giorno che Iddio mandava in Terra che non ci fosse qualche fottuto call center aziendale che cercasse di vendermi con insistenza molesta un qualche dannatissimo prodotto o servizio: una seccatura senza limiti. Le chiamate arrivavano con precisione svizzera verso le otto di sera e si svolgevano sempre più o meno alla stessa maniera:
- «Pronto, parlo con il Signor Gennaro Scoccimarro?».
- «No, veramente sono Luigi d’Ausilio».
- «Ah va beh, non importa: senta la nostra compagnia telefonica, con la certezza di farle cosa gradita…».
- «Mi scusi se l’interrompo…, ma come sarebbe che non importa? Lei cercava Gennaro Scoccimarro e invece trova me…!».
- «Ma si, lei non si faccia troppe domande e mi stia a sentire…».
- «E se invece di me trovava Pasquale Tamurriello?».
- «Cambiava poco, mi creda: senta, la nostra azienda le offre la possibilità in esclusiva - pensi che lei è l’unico prescelto tra milioni di clienti - di usufruire di duecentocinquanta sms al costo di trenta euro al mese…».
- «Senta, lasci stare! Provi a chiedere a Tamurriello che sicuramente è più interessato di me».
Questo fino a che non ho raggiunto il livello di saturazione. Da qui in poi non ho avuto più remore e in più di un’occasione ho avuto reazioni degne del miglior cafone dell’agro pontino. Una volta addirittura ho rasentato la perfidia: «Come dice scusi…? Non la sento bene: un attimo che le passo sua Eccellenza il Prefetto…». Dall’altra parte hanno riattaccato subito.
Che poi, passata l’incazzatura, uno s’immedesima, prova un po’ di compassione e si pente di aver trattato male dei lavoratori che infondo cercano solo di guadagnare quattro soldi per tirare fine mese. Ma immancabile giunge una nuova telefonata e il buon proposito umanitario va a farsi friggere…! Tale fu il grado di fastidio raggiunto in quel periodo che dovetti andare dal mio gestore telefonico per farmi assegnare un nuovo numero. E tale numero questa volta, per mia espressa richiesta, doveva essere totalmente criptato. Avrei dovuto avvisare parenti, amici e conoscenti di questa novità, ma la consapevolezza che non sarei più stato molestato mi metteva addosso una gran contentezza. E così tornai a casa carico di entusiasmo. Giunsero le otto di sera e tutto taceva: avevo ottenuto il mio scopo. Poi, all’improvviso uno squillo. “E chi cacchio è ora…? - pensai con grande sorpresa - Nessuno dovrebbe conoscere questo numero a parte me…”. Tirai su la cornetta: «Pronto, signora Pecorini?». Rimasi di sale: «Ha sbagliato numero» - risposi con voce tremolante per la rabbia. «Mi scusi, ma questo non è il numero 03[xxx]?». Era esattamente il mio nuovo numero. E come cavolo si spiegava quell’arcano. Nei giorni a seguire fu una valanga incontrollata di telefonate, tutte alla ricerca della signora Pecorini. Irritato fino allo sfinimento una sera esplosi con una frase di una volgarità ributtante: «Mi dispiace, ma qui non c’è nessuno… alla pecorina…!». Per farla breve, mi era stato assegnato un numero che precedentemente apparteneva ad una rappresentante di commercio al dettaglio: questa aveva smesso la sua attività e si era disfatta di quell’utenza; e il gestore astutamente, aveva pensato bene di ricollocarlo al primo che passava di là per caso. Ero passato dalla padella nella brace. Feci il diavolo a quattro e alla fine mi fu assegnato ancora un nuovo numero. Per ora sembra che vada bene, ma in questo campo non è mai detta l’ultima parola.
Di certo l’invadenza del mercato e della pubblicità ha raggiunto dei livelli insopportabili in questi ultimi tempi e il cittadino spesso si trova inerme di fronte a simili aggressioni. L’unico modo di sopravvivere e non sopportare l’insopportabile è ingegnarsi in qualche maniera. Sul Daily Mirror di fine agosto per esempio è apparsa una notizia assolutamente in tema. Il sagace Lee Beaumont, esasperato fino allo stremo per le infinite offerte commerciali telefoniche, ha pensato bene di trasformare questa immane seccatura, in un’occasione se non altro di guadagno. Sapete com’è…, data la crisi. E come ha fatto il buon Beamont per ottenere questo strepitoso risultato? Semplicissimo: ha convertito la sua utenza telefonica in un numero a pagamento. Con il costo di soli dieci sterline infatti, il suo numero di casa è divenuto per incanto un numero a pagamento: ovvero una fonte di guadagno. Pare che sul conto personale dell’astuto inglese siano già arrivate ben trecento ricche sterline; e sebbene negli ultimi tempi le telefonate siano diminuite, il business sembra destinato a sicuro successo. E per i suoi contatti personali? Pagano l’obolo anche parenti e amici quando chiamano? No, niente lucro nei confronti di costoro: per essi c’è un’altra linea, assolutamente riservata. Da quando il telefono squilla a pagamento, pare che Beamont risponda sempre con grande cordialità, e le conversazioni non termina mai in tempi brevi, ma anzi vanno avanti per mezzore intere. Beamont si fa spiegare tutto, ma proprio tutto per filo e per segno: fa domande, commenta, fornisce opinioni articolate, racconta aneddoti personali. Il tutto per tirarla il più a lungo possibile. Nell’ambiente dei call center ormai lo conoscono tutti. Imbattersi nel suo nome, scorrendo la lista giornaliere delle persone da chiamare, è sempre un’angoscia spaventevole: “Oddio no…, quel seccatore…”.
Bon, vi sta bene: pan per focaccia.
Fonte: http://www.mirror.co.uk/news/uk-news/cold-callers-lee-beaumont-turns-2234967
- «Pronto, parlo con il Signor Gennaro Scoccimarro?».
- «No, veramente sono Luigi d’Ausilio».
- «Ah va beh, non importa: senta la nostra compagnia telefonica, con la certezza di farle cosa gradita…».
- «Mi scusi se l’interrompo…, ma come sarebbe che non importa? Lei cercava Gennaro Scoccimarro e invece trova me…!».
- «Ma si, lei non si faccia troppe domande e mi stia a sentire…».
- «E se invece di me trovava Pasquale Tamurriello?».
- «Cambiava poco, mi creda: senta, la nostra azienda le offre la possibilità in esclusiva - pensi che lei è l’unico prescelto tra milioni di clienti - di usufruire di duecentocinquanta sms al costo di trenta euro al mese…».
- «Senta, lasci stare! Provi a chiedere a Tamurriello che sicuramente è più interessato di me».
Questo fino a che non ho raggiunto il livello di saturazione. Da qui in poi non ho avuto più remore e in più di un’occasione ho avuto reazioni degne del miglior cafone dell’agro pontino. Una volta addirittura ho rasentato la perfidia: «Come dice scusi…? Non la sento bene: un attimo che le passo sua Eccellenza il Prefetto…». Dall’altra parte hanno riattaccato subito.
Che poi, passata l’incazzatura, uno s’immedesima, prova un po’ di compassione e si pente di aver trattato male dei lavoratori che infondo cercano solo di guadagnare quattro soldi per tirare fine mese. Ma immancabile giunge una nuova telefonata e il buon proposito umanitario va a farsi friggere…! Tale fu il grado di fastidio raggiunto in quel periodo che dovetti andare dal mio gestore telefonico per farmi assegnare un nuovo numero. E tale numero questa volta, per mia espressa richiesta, doveva essere totalmente criptato. Avrei dovuto avvisare parenti, amici e conoscenti di questa novità, ma la consapevolezza che non sarei più stato molestato mi metteva addosso una gran contentezza. E così tornai a casa carico di entusiasmo. Giunsero le otto di sera e tutto taceva: avevo ottenuto il mio scopo. Poi, all’improvviso uno squillo. “E chi cacchio è ora…? - pensai con grande sorpresa - Nessuno dovrebbe conoscere questo numero a parte me…”. Tirai su la cornetta: «Pronto, signora Pecorini?». Rimasi di sale: «Ha sbagliato numero» - risposi con voce tremolante per la rabbia. «Mi scusi, ma questo non è il numero 03[xxx]?». Era esattamente il mio nuovo numero. E come cavolo si spiegava quell’arcano. Nei giorni a seguire fu una valanga incontrollata di telefonate, tutte alla ricerca della signora Pecorini. Irritato fino allo sfinimento una sera esplosi con una frase di una volgarità ributtante: «Mi dispiace, ma qui non c’è nessuno… alla pecorina…!». Per farla breve, mi era stato assegnato un numero che precedentemente apparteneva ad una rappresentante di commercio al dettaglio: questa aveva smesso la sua attività e si era disfatta di quell’utenza; e il gestore astutamente, aveva pensato bene di ricollocarlo al primo che passava di là per caso. Ero passato dalla padella nella brace. Feci il diavolo a quattro e alla fine mi fu assegnato ancora un nuovo numero. Per ora sembra che vada bene, ma in questo campo non è mai detta l’ultima parola.
Di certo l’invadenza del mercato e della pubblicità ha raggiunto dei livelli insopportabili in questi ultimi tempi e il cittadino spesso si trova inerme di fronte a simili aggressioni. L’unico modo di sopravvivere e non sopportare l’insopportabile è ingegnarsi in qualche maniera. Sul Daily Mirror di fine agosto per esempio è apparsa una notizia assolutamente in tema. Il sagace Lee Beaumont, esasperato fino allo stremo per le infinite offerte commerciali telefoniche, ha pensato bene di trasformare questa immane seccatura, in un’occasione se non altro di guadagno. Sapete com’è…, data la crisi. E come ha fatto il buon Beamont per ottenere questo strepitoso risultato? Semplicissimo: ha convertito la sua utenza telefonica in un numero a pagamento. Con il costo di soli dieci sterline infatti, il suo numero di casa è divenuto per incanto un numero a pagamento: ovvero una fonte di guadagno. Pare che sul conto personale dell’astuto inglese siano già arrivate ben trecento ricche sterline; e sebbene negli ultimi tempi le telefonate siano diminuite, il business sembra destinato a sicuro successo. E per i suoi contatti personali? Pagano l’obolo anche parenti e amici quando chiamano? No, niente lucro nei confronti di costoro: per essi c’è un’altra linea, assolutamente riservata. Da quando il telefono squilla a pagamento, pare che Beamont risponda sempre con grande cordialità, e le conversazioni non termina mai in tempi brevi, ma anzi vanno avanti per mezzore intere. Beamont si fa spiegare tutto, ma proprio tutto per filo e per segno: fa domande, commenta, fornisce opinioni articolate, racconta aneddoti personali. Il tutto per tirarla il più a lungo possibile. Nell’ambiente dei call center ormai lo conoscono tutti. Imbattersi nel suo nome, scorrendo la lista giornaliere delle persone da chiamare, è sempre un’angoscia spaventevole: “Oddio no…, quel seccatore…”.
Bon, vi sta bene: pan per focaccia.
Fonte: http://www.mirror.co.uk/news/uk-news/cold-callers-lee-beaumont-turns-2234967
lunedì 21 ottobre 2013
Halloween: la morte come farsa
Sui mezzi d’informazione si comincia a parlare della notte di Halloween: è il ciclo della notizia e purtroppo ci tocca. In effetti la tradizione americana negli ultimi tempi si è consolidatasi anche da noi, e intorno a quest’evento si fa sempre un gran clamore. Il globalismo non risparmia ormai neanche più la Ricorrenza dei Morti. L’economia d’altra parte deve pur girare e dunque perché perdere l’occasione di far baldoria agghindandoci con maschere e costumi a sfondo (fintamente) macabro? E così anche questa ricorrenza, che pure aveva conservato fino a qualche decennio fa un barlume di sacralità, è stata ridotta a puro esercizio consumistico. Al pari di un qualsiasi “San Valentino”. Che poi, a ben vedere, non si tratta neanche di una tradizione americana. Sì certo, la zucca è invenzione yankee, ma tutto il resto ha radici antichissime. Come spiega il Professor Barbero nel libro intervista Dietro le quinte della Storia, la festa di Halloween affonda le sue radici in epoche ancestrali: “Halloween è una festa dei morti, e si sa che già prima del Cristianesimo c’era l’uso di esorcizzare i morti andando in giro in maschera per rappresentare i defunti che ritornano; e lo si faceva all’inizio dell’inverno, che è la morte della terra. Poi i monaci medievali inventano il giorno dei Morti e il giorno di Ognissanti, e li collocano proprio nel momento in cui la gente celebrava già questi riti, all’inizio di novembre: il tentativo è quello di rabbonire i defunti offrendo loro preghiere cristiane, anziché un rito pagano”.
Eppure, nonostante quest’intervento della Chiesa, per tutto il Medioevo e fino al Rinascimento, i giovani hanno continuato a imperversare per le strade spaventando i passanti e chiedendo cibarie bussando alle porte delle case. Col passare del tempo tuttavia, le autorità riuscirono a soffocare questa tradizione e la giornata dei Morti divenne una ricorrenza esclusivamente religiosa. Il tutto però avvenne dopo che i primi pellegrini avevano già attraversato l’Oceano Atlantico, portandosi appresso tutto il proprio bagaglio culturale. E qui, nel perfetto isolamento del Nuovo Mondo, le tradizioni furono àncora di salvezza e fondamenta sulle quali costruire una patria e un futuro. E così, mentre in Europa la festa pagana scompariva definitivamente a favore di quella religiosa, nelle colonie americane continuava a vivere e a perpetuarsi. Identica e immutabile - salvo la zucca, come detto - fino ai nostri giorni. Esattamente come tante altre abitudini derivanti da epoche medievali e da noi scomparse: tipo le unità di misura (pinte, galloni, pollici, miglia etc…).
Nel giorno dei morti è consuetudine visitare i cimiteri e portare fiori sulle tombe dei propri cari. Da bambino le miei visite ai defunti di famiglia avvenivano sempre in differita, ovvero in agosto. Dato che i miei genitori erano emigrati a Milano poco più che ventenni, non avevamo morti da onorare al nord e solo con le ferie d’estate, che ci riportavano verso sud, si poteva ottemperare a quell’obbligo. La visita al cimitero era una delle incombenze prioritarie e si svolgeva il giorno successivo al nostro arrivo. Lungo quei silenziosi viali alberati, carichi di ombra e profumi mediterranei, ritrovavo antiche radici d’appartenenza. Si passava prima a trovare i nonni: quelli paterni se ne andarono quando ancora ero bambino. Foto in bianco e nero sulle lapidi, gesti lenti di mio padre, carichi di sacralità e rispetto. Un fazzoletto passava sulle immagini a pulire dalla polvere, le mani recapitavano baci e lo sguardo a stento tratteneva lacrime. Non mi perdevo un solo fotogramma di quell’immagine: i genitori sono gli esseri viventi più scrutati al mondo. Da qui poi, a scendere per vicinanza parentale e per comodità di visita, si andava a trovare i bisnonni, gli zii, gli affini e i conoscenti. Per me era come assistere ad un film: le immagini erano le architetture monumentali del luogo, i sotterranei freschi che odoravano di acqua stantia e fiori marcescenti, i campi con le distese di croci; il sonoro era il racconto di mio padre. È davanti a queste lapidi che ho appreso quasi tutto ciò che so dei miei antenati. Mia madre invece da bambina attendeva il 31 ottobre con una trepidazione tutta particolare: sua mamma era morta che lei aveva neanche tre anni e la tradizione di famiglia le aveva insegnato che in quella notte magica i morti erano soliti far visita ai vivi, anche se questi ultimi non se ne accorgevano. Unica traccia del loro passaggio notturno erano i dolcetti lasciati ai bambini, e ritrovati in una calza sul comodino della cameretta. Una notte la bambina decise che non si sarebbe addormentata: questa volta ci sarebbe riuscita a vedere sua mamma. L’attesa fu carica di suspance: il timore di quella manifestazione spiritica si mischiava al desiderio di rivedere quella madre strappatale via troppo presto e quasi dimenticata. Ma il sonno alla lunga la vinse e così anche quella volta i morti poterono adempiere ai loro uffici. Al mattino i dolcetti erano come sempre sul comodino, e alla bimba rimaneva la rabbia, temperata da un cioccolatino alla nocciola, di non essere riuscita a rivedere la madre.
Ecco, tutto questo era ciò che ci univa al mondo dei trapassati: il senso del sacro, l’affetto che affondava nelle profondità del mistero, il chiaro-scuro dell’oltre la vita che dava dimensione e contorni alla nostra esistenza. Ora invece, a dare la dimensione della distanza siderale che ci divide dal concetto antropologico della morte, abbiamo Halloween: una festa pacchiana, insulsa, comica piuttosto che spaventosa, estranea ai nostri costumi (quando ancora ne avevamo qualcuno…) e intrisa di guitterie carnevalesche. Una manifestazione chiassosa e banale, che non ha più nulla di quell’antichissimo rito celebrato dai nostri antenati. Un set hollywoodiano aviotrasportato su ciò che rimane della nostra povera cultura. E così anche la morte diviene farsa.
Eppure, nonostante quest’intervento della Chiesa, per tutto il Medioevo e fino al Rinascimento, i giovani hanno continuato a imperversare per le strade spaventando i passanti e chiedendo cibarie bussando alle porte delle case. Col passare del tempo tuttavia, le autorità riuscirono a soffocare questa tradizione e la giornata dei Morti divenne una ricorrenza esclusivamente religiosa. Il tutto però avvenne dopo che i primi pellegrini avevano già attraversato l’Oceano Atlantico, portandosi appresso tutto il proprio bagaglio culturale. E qui, nel perfetto isolamento del Nuovo Mondo, le tradizioni furono àncora di salvezza e fondamenta sulle quali costruire una patria e un futuro. E così, mentre in Europa la festa pagana scompariva definitivamente a favore di quella religiosa, nelle colonie americane continuava a vivere e a perpetuarsi. Identica e immutabile - salvo la zucca, come detto - fino ai nostri giorni. Esattamente come tante altre abitudini derivanti da epoche medievali e da noi scomparse: tipo le unità di misura (pinte, galloni, pollici, miglia etc…).
Nel giorno dei morti è consuetudine visitare i cimiteri e portare fiori sulle tombe dei propri cari. Da bambino le miei visite ai defunti di famiglia avvenivano sempre in differita, ovvero in agosto. Dato che i miei genitori erano emigrati a Milano poco più che ventenni, non avevamo morti da onorare al nord e solo con le ferie d’estate, che ci riportavano verso sud, si poteva ottemperare a quell’obbligo. La visita al cimitero era una delle incombenze prioritarie e si svolgeva il giorno successivo al nostro arrivo. Lungo quei silenziosi viali alberati, carichi di ombra e profumi mediterranei, ritrovavo antiche radici d’appartenenza. Si passava prima a trovare i nonni: quelli paterni se ne andarono quando ancora ero bambino. Foto in bianco e nero sulle lapidi, gesti lenti di mio padre, carichi di sacralità e rispetto. Un fazzoletto passava sulle immagini a pulire dalla polvere, le mani recapitavano baci e lo sguardo a stento tratteneva lacrime. Non mi perdevo un solo fotogramma di quell’immagine: i genitori sono gli esseri viventi più scrutati al mondo. Da qui poi, a scendere per vicinanza parentale e per comodità di visita, si andava a trovare i bisnonni, gli zii, gli affini e i conoscenti. Per me era come assistere ad un film: le immagini erano le architetture monumentali del luogo, i sotterranei freschi che odoravano di acqua stantia e fiori marcescenti, i campi con le distese di croci; il sonoro era il racconto di mio padre. È davanti a queste lapidi che ho appreso quasi tutto ciò che so dei miei antenati. Mia madre invece da bambina attendeva il 31 ottobre con una trepidazione tutta particolare: sua mamma era morta che lei aveva neanche tre anni e la tradizione di famiglia le aveva insegnato che in quella notte magica i morti erano soliti far visita ai vivi, anche se questi ultimi non se ne accorgevano. Unica traccia del loro passaggio notturno erano i dolcetti lasciati ai bambini, e ritrovati in una calza sul comodino della cameretta. Una notte la bambina decise che non si sarebbe addormentata: questa volta ci sarebbe riuscita a vedere sua mamma. L’attesa fu carica di suspance: il timore di quella manifestazione spiritica si mischiava al desiderio di rivedere quella madre strappatale via troppo presto e quasi dimenticata. Ma il sonno alla lunga la vinse e così anche quella volta i morti poterono adempiere ai loro uffici. Al mattino i dolcetti erano come sempre sul comodino, e alla bimba rimaneva la rabbia, temperata da un cioccolatino alla nocciola, di non essere riuscita a rivedere la madre.
Ecco, tutto questo era ciò che ci univa al mondo dei trapassati: il senso del sacro, l’affetto che affondava nelle profondità del mistero, il chiaro-scuro dell’oltre la vita che dava dimensione e contorni alla nostra esistenza. Ora invece, a dare la dimensione della distanza siderale che ci divide dal concetto antropologico della morte, abbiamo Halloween: una festa pacchiana, insulsa, comica piuttosto che spaventosa, estranea ai nostri costumi (quando ancora ne avevamo qualcuno…) e intrisa di guitterie carnevalesche. Una manifestazione chiassosa e banale, che non ha più nulla di quell’antichissimo rito celebrato dai nostri antenati. Un set hollywoodiano aviotrasportato su ciò che rimane della nostra povera cultura. E così anche la morte diviene farsa.
venerdì 18 ottobre 2013
Il viaggio e il tempo sospeso
Soriano nel Cimino |
Aprile 2006
Un viaggio parte da lontano, si nutre di speranze e aspettative, viene cullato e protetto come qualcosa di prezioso, ma non ci appartiene fino a che non diventa parte di noi, della nostra realtà e dei nostri ricordi. La scelta della meta e della data di partenza non è facile quando si è in gruppo, c’è sempre qualcosa che non va bene: chi non ha le ferie, chi è già stato in quel posto, chi ne preferirebbe un altro. Certo viaggiare da soli comporterebbe minori problemi organizzativi (Terzani aggiungerebbe che in compagnia si finisce per fare conversazione), ma non sarebbe la stessa cosa: rivedere persone care dopo molto tempo consente di riaprire quella finestra della memoria appena socchiusa e che, spalancata, fa riemergere momenti di vita vissuta. Raggiunto un accordo almeno sulla data, cominciano le ricerche su luoghi particolari, curiosi e immersi nella natura. Questa volta la nostra meta è Bomarzo, paesino del viterbese, avvolto nei misteri del suo parco centenario, e nelle boscose colline dell’alto Lazio, alla ricerca delle tracce degli antichi etruschi. Il viaggio è “itinerante”, il che, nell’accezione di quei matti che organizzano questi trekking, significa portarsi in spalla tutto ciò che serve: nessun mezzo di trasporto. È ovvio che stando così le cose, prepararsi lo zaino non è impresa delle più semplici: “Cosa ci metto dentro…? Questo mi servirà… quest’altro pure… forse è meglio una felpa in più…, ma sì dai che vuoi che sia”. E ti ritrovi alla fine con un arnese in spalla più pesante del masso di Obelix. Allora giù a rifare tutto: “Tolgo questo… in fondo non l’ho mai usato prima… anche quest’altro… anche se però…! Va be’ basta, ci penso domani!”. Poi viene domani e sei ancora lì. A quel punto fai lo zaino come capita e immancabilmente, come tutte le volte, ti ritrovi con metà della roba inutilizzata e altrettanta che avresti dovuto portarti dietro, lasciata a casa. Come ad esempio la torcia per andare tra i boschi di notte. L’esperienza però conta molto in queste circostanze: ad esempio ho capito che quella della borraccia è una gran fregatura. Se tu vai in un qualsiasi negozio di attrezzatura per il trekking, ne trovi un intero bancone, di ogni genere e forma: ti garantiscono la tenuta a temperatura costante del liquido contenuto oltre che un “design accattivante” ed una forma perfettamente compatibile con la conformazione anatomica del tuo zaino. Ebbene dall’alto (o dal basso…fate voi) della mia esperienza posso dirvi, senza tema di smentita, che non vi è al mondo miglior borraccia della mia bottiglietta di plastica San Pellegrino! Leggerissima, discreta, senza troppe pretese in fatto di eleganza, ma al contempo solida ed austera in quel suo involucro verdolino. L’unico dispiacere è che l’ho buttata via alla stazione di Orte a fine trek… indegnamente abbandonata in un cestino. È proprio vero che apprezziamo le cose belle della vita soltanto quando non le abbiamo più. Lo zaino è pronto, mi guarda quasi con sfida, è solido e appartiene all’epoca dei boy scout, ma è pur sempre un signor zaino. Sono pronto a partire. Un ultimo sguardo dietro di me: sul comodino del letto c’è un libro, “La fine è il mio inizio” di Terzani. Un pensiero mi sfiora: “me lo porto dietro”. La parte razionale dice “pesa troppo…che te lo porti a fare…quando avrai il tempo di leggerlo..!”. Ma la parte emozionale prevale: “i suoi libri mi hanno fatto viaggiare fino ad ora…adesso sarà lui a viaggiare con me!”. L’appuntamento con Francesca è in stazione Centrale alle diciassette di venerdì. Destinazione Roma, con pernottamento da Teresa. Il treno parte in orario, stranamente: è bello stupirsi delle cose del mondo. Durante il viaggio si parla di viaggi e vacanze: questa vita ci va proprio stretta. Puntuale arriva l’sms di Elena: «Siete partiti? Tutto bene? Ci si vede stasera: a che ora arrivate?”». E immancabile scatta il mio consueto scherzo: «Ma che partiti…? Chi parte…? L’appuntamento è per domani…». Risposta: «Ma come, non era per oggi? Vuoi dire che non ci sei te» (Elena è di Siena e usa dire anche – “noi ci s’ha questo, ci s’ha quello” – meraviglioso). Arriviamo a Roma quando da poco ha smesso di piovere. È umido, ma si sta proprio bene. Dico a Francesca: «La senti l’aria diversa?». Risposta: «È perché c’é stata pioggia». E io: «No…, no: è proprio un’aria diversa». Insomma andiamo avanti così per venti minuti fino a che non intravediamo il bar dove ci attendono Teresa ed Elena. Entriamo, ma non le vediamo. Vado dal barista e dico testualmente: «Scusi che ha visto due ragazze di cui una di Siena?». Certo la domanda è un po’ vaga, ma la risposta mi spiazza: «Ah more’, siamo a fine giornata… a fianco alla stazione… ma te rendi conto de quanta gente passa de qua? E daje, lassame perde. Fa ‘r bravo. Se voi te posso dà na bibbita». Avendo capito il dramma di quest’uomo non insisto: usciamo. Fuori intravediamo Teresa ed Elena, accanto ad un’auto bianca, un vero catorcio (scusa Teresa, ma lo sai che sono sempre per dire la verità, null’altro che la verità, anche quando fa male). Dopo gli abbracci di rito, ce ne andiamo a cena. Intanto mi accorgo che mi sono perso una chiamata ed ho ricevuto un sms (vorrei in questa sede scusarmi con quanti chiamandomi non ottengono risposta…forse sono distratto…forse sordo….o forse odio semplicemente i cellulari…boh!). E’ Antonella che avendo letto la mia e-mail sul nostro arrivo a Roma, vorrebbe raggiungerci e salutarci. Quando la richiamo ha il telefono staccato. Vabbè non importa, prima ceniamo, poi si vedrà. Teresa ci conduce in un’enoteca sotto casa sua: qui dovremmo fare solo l’aperitivo, per poi andare in pizzeria. Niente da fare, ci troviamo bene qui, il cibo è ottimo, ottimo il vino e sublimi i cantuccini della sora Giovanna (..Teresa informiamoci bene del nome dell’ostessa….bisogna essere precisi quando si scrivono racconti…). Mentre si parla e ci si abboffa arriva ancora una telefonata di Antonella: è la prima volta che ascolto la sua voce. Fino ad ora l’ho conosciuta solo via e-mail ed ho potuto vedere una foto in cui è ritratta con altri partecipanti ad un trekking in Corsica. La voce è simpatica, piena di verve, molto amichevole e quasi familiare, tipicamente romana (anche se l’inflessione è appena percepibile). Purtroppo è tardi e non riesce a raggiungerci. Mi fa molto piacere sentirla, ma al contempo sono dispiaciuto che non si possa unire a noi. Prima di chiudere la telefonata chiedo alle mie amiche se vogliono parlarle. Risposta in coro: “Si si salutacela!”. Certo che le donne sono ben strane. Usciamo dal locale e ci avviamo verso casa di Teresa. È una magnifica serata, l’aria è tiepida e dolce, le piante sono tutte in fiore, profumate, appena bagnate da quell’acquazzone primaverile. Continuo a sentire un’aria diversa da quella di Milano: un’aria più giusta (direbbe Gaber). Entrati in casa la prima cosa che fa Teresa è disfare il trolley e fare lo zaino: non aveva capito che il viaggio era itinerante. Per fortuna che ci siamo visti prima, sennò le sarebbe toccato valicare colline, guadare ruscelli, discendere dirupi con la valigia a rotelle. Magari veniva pure meglio… ma non sarebbe stato per niente elegante! Mi tocca dormire con Francesca su un materassino da mare due piazze. Lo gonfio troppo, ma me ne accorgo solo la mattina dopo…tra i dolori lombo-sacrali. Bastava solo sgonfiarlo un po’ e sarebbe stato il migliore dei giacigli desiderabile. Vabbè…tutta esperienza…come la borraccia! Il mattino dopo ci attende il treno per Orte. Nello scompartimento troviamo un’americana del Texas che viaggia da sola per l’Europa. Appartiene all’US Army ed è molto orgogliosa di quello che fa il suo paese in giro per il mondo. Secondo lei i media dicono solo le cose negative e non quelle positive che l’esercito americano fa ad esempio in Iraq. Ovviamente io non la penso così, ma è comunque interessante ascoltare questa versione e soprattutto vedere che i suoi occhi non mentono, sta dicendo la verità in cui crede. Arriviamo alla stazione di Orte e subito vediamo altre persone affardellate: sono sicuramente altri “sventurati” partecipanti al trek. La giornata è magnifica, fa caldo, c’è il sole: e questa è una benedizione per i viandanti! Il ritrovo è davanti alla stazione alle undici. Attendiamo dopo aver fatto qualche compera. All’improvviso ci viene incontro un ragazzo in calzoncini corti e camicia da boy scout: “Anche voi partecipate al trek?”. È Alessandro, la nostra guida. Alessandro è di Firenze ed ha deciso di fare questo lavoro per passione, alternandolo ad un altro in part-time. È un giramondo impenitente, simpatico e discreto (è appena tornato dalla Turchia e sfoggia un’abbronzatura invidiabile… soprattutto per degli impiegati sedentari come noi). È molto misurato nei suoi atteggiamenti ed ispira fiducia. Possiamo fidarci! Arrivano piano piano anche gli altri trekker. Si fanno le presentazioni: 15 persone che declamano il proprio nome… che non verrà regolarmente ricordato dagli altri. Forse sarebbe meglio saltarle le presentazioni: “Come ti chiami? Anam, il senza nome”. Ecco come bisognerebbe fare. Spero fino all’ultimo che tra i partecipanti ci sia anche una ragazza carina seduta su uno scalino in piazza, ma purtroppo non è dei nostri. Certo le sue scarpe con i tacchi a spillo non mi inducevano ad essere molto fiducioso. Da Orte ci spostiamo in pullman fino a Soriano del Cimino (circa 30 minuti di strada). L’autista è un po’ burbero, ma si vede che ha una gran voglia di parlare. Ha sistemato accanto al suo posto di guida tre vassoi di piantine di pomodoro, ed ogni volta che qualcuno sale o scende dal pullman dà loro un calcione ed il burbero si inalbera: «Aho e statte attento… noo! Li vedi li pomidori!!!» (Dà del tu a tutti). Io giustamente dico: «Ma dai… come si fa a non vedere quei vasi? Sono proprio dei vandali sti passeggeri!». Lui apprezza e rincara: «Noo… è che so cecati!!». Arrivati a Soriano ci sbarca alla fermata sbagliata e nello scendere inciampo nei pomodori e li riduco ad una passata di pummarò. E mentre ci allontaniamo sentiamo l’autista imprecarci dietro «Ma li morteee…!». Facciamo un giro per Soriano, paesino medievale, fino a che raggiungiamo una fontana storica: Fontana Papacqua. Purtroppo è cinta ed il cancello è chiuso. Non possiamo visitarla. Alessandro ci da qualche spiegazione e poi si riparte. Mentre si va via scorgo una donna anziana ad un balcone e lesto come una faina non mi lascio scappare l’occasione: «Signora… signora… ma la fontana è chiusa?». «E si fijo mio, se apre na vorta ar mese». E io: «Va be’ peccato. Comunque ci sono altre fontane più avanti… vero? Per riempire le borracce!». La povera donna resta interdetta e noi si ride come matti! Si prosegue verso il Monte Cimino (1.053 metri). Il paesaggio è magnifico, la boscaglia si infittisce man mano che si sale. Prima di giungere in vetta ci fermiamo alle rovine della chiesa della S.S. Trinità, colpevolmente lasciata all’incuria. Si fa una piccola sosta e uno spuntino. Teresa butta pure una buccia di banana nel bosco! All’improvviso Alessandro tira fuori da una sacca un libretto e ci recita una bella poesia. Che personaggio. Si riparte: purtroppo durante lo spuntino mi sono conficcato nella natica destra un puntutissimo riccio. Che dolore! Ad una svolta giungiamo al “Sasso Menicante”, detto anche “Sasso di Plinio” (e non chiedetemi se il vecchio o il giovane: neanche Alessandro lo sapeva). Un masso di 250 tonnellate, che se spinto in un determinato punto oscilla: facciamo la verifica ed è vero. Già lo storico-naturalista romano descriveva questa stranezza. Immancabile la foto ricordo. Di fianco al bar c’è un ristorante/bar che accoglie i viandanti che si apprestano a salire sulla vetta del Monte Cimino. La barista è una ragazza simpaticissima alla quale chiedo se il vulcano del monte è ancora attivo. Lei mi risponde con un accento ciociaro: «Noo è spento… so tanti migliaia di anni ormai…!». Ed io subito ad Alessandro: «Porca miseria… s’è fatto tardi…lo sapevo…!». L’ultima salita la si fa in silenzio, ognuno per conto suo, in meditazione. C’è una strana atmosfera, come se ci trovassimo in una foresta incantata. Si odono solo i canti dolcissimi e melodiosi degli uccelli che interrompono il silenzio. Il sole non filtra tra gli alberi. Si sta bene in questa frescura ombreggiata e silenziosa. Mi fermo su un dirupo, mi sdraio e poggio la testa su un morbido cuscino di muschio (incredibilmente molto più comodo del materassino di Teresa). Si stenta a credere che possano esistere ancora posti così belli e incontaminati. E come mi sembra lontano il caos di Porta Romana, lo strombazzare delle automobili, e i gas asfissianti dei motori. In cima al monte c’è una torre. Alessandro ci recita Thoureau e altri poeti e ci distribuisce alcuni fogli. Anche noi saremo poeti: compito di ognuno di noi sarà scrivere un pensiero anonimo che a fine trek verrà letto alla presenza di tutti. Ci rilassiamo e riposiamo dalla fatica. Tiziana si aggira con fare sospetto… dicendo “ma qui ci sono dei pezzi di vetro”. Alla fine anche lei trova pace e si distende. Si torna giù verso il paese. Ad un certo punto Alessandro ferma la marcia e ci fa fare un gioco: metà gruppo si benderà e l’altra metà condurrà i bendati lungo il sentiero. Poi i ruoli si scambieranno. È una strana sensazione, un esperimento che è teso a creare fiducia reciproca. Divertente e nuovo. Piace un po’ a tutti. Vedere con gli occhi degli altri, fidarsi, come si suol dire, “ciecamente”. Emilio (detto Abramo), forse distratto, invece di curarmi, mi lascia andare quasi in un burrone. Verrò salvato all’ultimo momento. Giungiamo a Soriano e da qui con le macchine di Alessandro, Valerio e Carlo raggiungiamo località Il Pallone, frazione di
Vitorchiano |
Bomarzo |
Fare un viaggio non è solo uscire dalla noia quotidiana: è tempo sospeso e d’attesa, vacanza dalla vita. Quando ti trovi a condividere un’esperienza di pochi giorni con persone che probabilmente non vedrai più, se non altro nelle medesime circostanze, nasce spontaneo un moto di essenzialità di sentimenti: non c’è tempo da perdere, deve avvenire tutto ed ora. Non ci sono alternative, non puoi nasconderti, devi giocare a carte scoperte. Deve necessariamente verificarsi un momento di straordinaria intensità esistenziale. Non c’è bisogno di inventare niente: occorre solo essere se stessi. Conosco ormai molte persone che condividono il piacere del trekking e con ognuna di esse ho deliberatamente voluto instaurare un rapporto che prescindesse dal “chi sono io, cosa faccio nella vita, qual è il mio passato”. Non ho passato, né futuro quando sono con queste magnifiche persone. Ho un nome impostomi dalle convenzioni, ma potrei chiamarmi semplicemente “Boo”, o “Yop” o “Yanez” o qualunque altro verso vi venga in mente. Sono io come sono, come appaio, come mi vedete: non sono colui che c’è scritto sul biglietto da visita. E così voglio che sia anche per gli altri. Conosco Teresa, Francesca, Elena, Michele, Cecilia e tutti gli altri…..ma non voglio sapere chi sono nella loro vita di tutti i giorni. Sono solo coloro che mi stanno davanti adesso, in questo momento. Esiste solo il presente. Né passato, né futuro. La vita è adesso e va assaporata ora! Carpe diem!
Guarda anche: http://www.latartaruga-fio.com/index.php/2013/10/il-parco-dei-mostri-di-bomarzo/
Santiago Express: http://www.lafeltrinelli.it/products/9788856700923/Santiago_Express_e_altre_storie_di_viaggio/D%27Ausilio_Luigi.html
giovedì 17 ottobre 2013
Grosso problema
Ricevo e pubblico:
«Questa mattina, non sono andato in bagno. Cioè in bagno ci sono andato, ma per fare la doccia, lo shampoo, per lavarmi i denti, profumarmi e quant’altro. Quello che non ho potuto fare è espletare l’atto grosso: si insomma, non sono andato - con rispetto parlando - di corpo. E la cosa è alquanto grave dato che io sono un metronomo precisissimo, un orologio svizzero infallibile. Almeno fino ad oggi. Ora mi sento tutto gonfio…! E non ti dico gonfio di cosa…! Non ci si crede quanto sia brutta questa sensazione e a nulla mi vale la constatazione che i nostri mezzi d’informazione sono pieni di pubblicità che sponsorizzano prodotti lassativi e che dunque, per deduzione, in questo momento di difficoltà mi trovo in buona (e abbondante) compagnia. In situazioni come queste gradirei tanto avere le capacità “evacuatorie” del nostro amico Gambe Brevi. Egli, ovunque si trovi, riesce a cagare con grandissima soddisfazione. Certo non lo fa silenziosamente, tutt’altro, e la faccenda diviene assai fastidiosa quando si trova in casa d’altri. Tipo l’ultima volta su a casa di Elisabetta al lago. Tempo trenta secondi da che si era chiuso nel cesso, abbiamo cominciato ad udire dei miagolii sinistri, associati a gorgoglii e borborigmi assai mirabili. Poi, via via queste emittenze hanno preso forza di uragano, fino ad esplodere in tuoni sonori e portentosi. Al che attoniti ci siamo guardati reciprocamente e, in attesa che il primo di noi scoppiasse a ridere, ho detto serio: “Che volete… Faustino è dispeptico…”. Un diluvio di risate ha coperto il resto del grazioso concertino. E così, dopo qualche minuto, il nostro eroe è uscito dal bagno, pimpante e su di morale: come fanno i cagnetti che, dopo aver depositato presso i giardinetti pubblici, si rigirano su loro stessi, saltellano e corricchiano gioiosi. E a quella scena di gaudio qualcuno ha provato una grande invidia. Esattamente lo stesso sentimento che provo io in questo momento».
Ecco, se qualche lettore del blog volesse lasciare un suggerimento al nostro amico in difficoltà (che non siano le solite prugne della California però…) è libero di farlo. Penso che si tratti di un’opera utile e buona.
«Questa mattina, non sono andato in bagno. Cioè in bagno ci sono andato, ma per fare la doccia, lo shampoo, per lavarmi i denti, profumarmi e quant’altro. Quello che non ho potuto fare è espletare l’atto grosso: si insomma, non sono andato - con rispetto parlando - di corpo. E la cosa è alquanto grave dato che io sono un metronomo precisissimo, un orologio svizzero infallibile. Almeno fino ad oggi. Ora mi sento tutto gonfio…! E non ti dico gonfio di cosa…! Non ci si crede quanto sia brutta questa sensazione e a nulla mi vale la constatazione che i nostri mezzi d’informazione sono pieni di pubblicità che sponsorizzano prodotti lassativi e che dunque, per deduzione, in questo momento di difficoltà mi trovo in buona (e abbondante) compagnia. In situazioni come queste gradirei tanto avere le capacità “evacuatorie” del nostro amico Gambe Brevi. Egli, ovunque si trovi, riesce a cagare con grandissima soddisfazione. Certo non lo fa silenziosamente, tutt’altro, e la faccenda diviene assai fastidiosa quando si trova in casa d’altri. Tipo l’ultima volta su a casa di Elisabetta al lago. Tempo trenta secondi da che si era chiuso nel cesso, abbiamo cominciato ad udire dei miagolii sinistri, associati a gorgoglii e borborigmi assai mirabili. Poi, via via queste emittenze hanno preso forza di uragano, fino ad esplodere in tuoni sonori e portentosi. Al che attoniti ci siamo guardati reciprocamente e, in attesa che il primo di noi scoppiasse a ridere, ho detto serio: “Che volete… Faustino è dispeptico…”. Un diluvio di risate ha coperto il resto del grazioso concertino. E così, dopo qualche minuto, il nostro eroe è uscito dal bagno, pimpante e su di morale: come fanno i cagnetti che, dopo aver depositato presso i giardinetti pubblici, si rigirano su loro stessi, saltellano e corricchiano gioiosi. E a quella scena di gaudio qualcuno ha provato una grande invidia. Esattamente lo stesso sentimento che provo io in questo momento».
Ecco, se qualche lettore del blog volesse lasciare un suggerimento al nostro amico in difficoltà (che non siano le solite prugne della California però…) è libero di farlo. Penso che si tratti di un’opera utile e buona.
lunedì 14 ottobre 2013
Nessuna pietà
In questi giorni il Vicariato di Roma e gran parte delle istituzioni capitoline hanno risposto in maniera negativa alla richiesta delle celebrazioni religiose avanzata dal legale del defunto Capitano delle SS Erich Priebke. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha dichiarato: “Roma è una città antinazifascista che ha sofferto drammaticamente. La normativa vigente, purtroppo al momento non consente al Comune di Roma di rifiutare la sepoltura di chi muore nel suo territorio. Sono però personalmente convinto che Roma […] non possa accettare uno schiaffo alla sua storia e alla sua comunità cittadina, tanto profondamente toccate da episodi violenti e tragici commessi dallo stesso Priebke. Non si possono cancellare la storia e le ferite profonde della città di Roma”.
“Non sono previste esequie per Priebke in una chiesa di Roma”, ha aggiunto don Walter Insero, portavoce del Vicariato. Ed a seguire, è giunta una nota ufficiale dello stesso Vicariato: “L’autorità ecclesiastica, considerate tutte le circostanze del caso, ha ritenuto che la preghiera per il defunto e il suo affidamento alla misericordia di Dio […] dovessero avvenire in forma strettamente privata, cioè nella casa che ospitava le spoglie del defunto. Pertanto, nel rispetto della legge della Chiesa, non è stata negata la preghiera per il defunto, ma è stata decisa una modalità diversa da quella abituale, riservata e discreta”.
Tutta questa vicenda mi ha lasciato profondamente turbato, ed ho chiesto ad alcuni amici cosa ne pensassero loro. Qualcuno non ci ha pensato su un istante ed ha affermato senza alcun dubbio che non ci può essere alcuna pietà per una persona come Priebke: «Eh no, mi dispiace: in quella drammatica data quel maledetto boia ha trucidato ben 335 persone innocenti, un eccidio mostruoso. Ci manca solo che gli venga fatto il funerale a Roma. Un’evenienza impensabile e inammissibile. Anche perché c’è il rischio che la sua tomba diventi meta di pellegrinaggio per quei fanatici che ancora inneggiano a Hitler. Nessuna cerimonia funebre, e men che meno dentro la città di Roma…». Altri hanno mostrato un atteggiamento più pietoso: «A me non sembra affatto giusto che la Chiesa proibisca un funerale pubblico ad un essere umano, per di più battezzato. Un tempo si diceva “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Evidentemente i tempi sono cambiati…». Qualcun altro ha manifestato invece un vero e proprio fastidio: «Sono degli ipocriti: si fanno scappare l’ufficiale che ordinò l’eccidio (che è morto di vecchiaia a casa sua) e gettano all’inferno Priebke che se non avesse eseguito gli ordini andava a finire in mezzo ai trucidati».
Come si sa l’eccidio delle Fosse Ardeatine avvenne il 24 marzo del 1944 e furono 335 i civili e militari italiani che persero la vita. Per quel massacro venne arrestato, processato e condannato all’ergastolo Herbert Kappler, all’epoca ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma. Kappler poi, riuscì ad evadere dall’ospedale del Celio - dove era ricoverato per un tumore - nel 1977 e l’anno seguente morì in Germania. Quello che invece non tutti sanno è che Kappler venne ritenuto responsabile e dunque condannato, per la morte di sole 15 persone su 335. Il motivo? Molto semplice: perché all’epoca in tutti i codici di guerra esisteva il cosiddetto “diritto di rappresaglia”, ovvero la possibilità da parte di una potenza occupante di porre in essere azioni punitive nei confronti della popolazione del territorio occupato, quando questa avesse causato danni a propri cittadini (militari o civili) in quello stesso territorio. Kappler venne condannato all’ergastolo per un puro calcolo aritmetico: il diritto di rappresaglia gli avrebbe consentito legittimamente di uccidere 10 italiani per ogni tedesco morto nell’attentato in via Rasella (32 vittime), ma egli di sua iniziativa volle inserire altri 10 persone nell’elenco già stilato. Da 10 poi, per un errore fatale, questi divennero 15. Kappler dunque, se si fosse attenuto scrupolosamente al codice di guerra, probabilmente l’avrebbe fatta franca.
Priebke invece riuscì a fuggire in Argentina e solo nel 1995 venne riconosciuto ed estradato in Italia. Venne processato e assolto in primo grado per intervenuta prescrizione del reato. La Cassazione annullò l’assoluzione e dispose un nuovo processo: condanna a 15 anni. La Corte d’Appello decise invece per l’ergastolo, e la Cassazione confermò. Si trattò di un processo che divise l’opinione pubblica, e che incontrovertibilmente venne segnato dal clamore che si alzava dalle piazze. Basti pensare che, dopo l’assoluzione di primo grado, scoppiarono tumulti tali che il Governo italiano dovette promettere che Priebke, nonostante fosse stato prosciolto, non sarebbe stato liberato. Indro Montanelli nell’aprile del 1996 scrisse una lettera aperta: “Da vecchio soldato, e sia pure di un esercito molto diverso dal suo, so benissimo che lei non poteva fare nulla di diverso da ciò che ha fatto. Il processo si dovrebbe fare alle aberrazioni dei totalitarismi e a certe leggi di guerra che imponevano la rappresaglia. Certo: lei, Priebke, poteva non eseguire l’ordine, e in pratica suicidarsi. Questo avrebbe fatto di lei un martire. Invece, quell’ordine lo eseguì. Ma questo non fa di lei un criminale”.
Io non saprei dire se Priebke sia stato o meno un criminale: per la giustizia italiana lo fu. Mi limito a constatare che la condanna del criminale avvenne a distanza di oltre mezzo secolo, un lasso di tempo spropositato: ha senso punire una persona per dei crimini commessi allora? Che senso ha infliggere la pena dell’ergastolo ad un uomo di quasi novant’anni? E ancora, se è vero come è vero che le pene nel nostro ordinamento sono finalizzate al ravvedimento e alla rieducazione, questa condanna ha qualcosa di logico? Ma al di là di ogni disquisizione giuridica e storica (fu mai processato qualcuno per i bombardamenti a tappeto sulla Germania ormai sconfitta e in ginocchio, o per le bombe atomiche sul Giappone? Erano civili anche quelli…), qui si tratta di semplice pietà umana. E fa effetto sapere che è proprio la Chiesa del “perdono” e della “misericordia” che chiude le sue porte ad un essere umano. Egli può essere stato il più grande criminale della storia, ma di fronte alla morte siamo tutti uguali. Ed un funerale non si nega a nessuno. A maggior ragione se il defunto, com’era il caso di Priebke, era cattolico e battezzato. Mors omnia solvit dicevano i romani. Qui invece siamo alla condanna eterna, al fine pena mai nei secoli dei secoli.
Fonte: http://www.ilmessaggero.it/ROMA/CRONACA/pribke_sepoltura_vicariato_legale_rifiuta_esequie_private/notizie/339405.shtml
http://qn.quotidiano.net/cronaca/2013/10/12/964469-priebke-morto-argentina-rifiuta-salma.shtml
Come si sa l’eccidio delle Fosse Ardeatine avvenne il 24 marzo del 1944 e furono 335 i civili e militari italiani che persero la vita. Per quel massacro venne arrestato, processato e condannato all’ergastolo Herbert Kappler, all’epoca ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma. Kappler poi, riuscì ad evadere dall’ospedale del Celio - dove era ricoverato per un tumore - nel 1977 e l’anno seguente morì in Germania. Quello che invece non tutti sanno è che Kappler venne ritenuto responsabile e dunque condannato, per la morte di sole 15 persone su 335. Il motivo? Molto semplice: perché all’epoca in tutti i codici di guerra esisteva il cosiddetto “diritto di rappresaglia”, ovvero la possibilità da parte di una potenza occupante di porre in essere azioni punitive nei confronti della popolazione del territorio occupato, quando questa avesse causato danni a propri cittadini (militari o civili) in quello stesso territorio. Kappler venne condannato all’ergastolo per un puro calcolo aritmetico: il diritto di rappresaglia gli avrebbe consentito legittimamente di uccidere 10 italiani per ogni tedesco morto nell’attentato in via Rasella (32 vittime), ma egli di sua iniziativa volle inserire altri 10 persone nell’elenco già stilato. Da 10 poi, per un errore fatale, questi divennero 15. Kappler dunque, se si fosse attenuto scrupolosamente al codice di guerra, probabilmente l’avrebbe fatta franca.
Priebke invece riuscì a fuggire in Argentina e solo nel 1995 venne riconosciuto ed estradato in Italia. Venne processato e assolto in primo grado per intervenuta prescrizione del reato. La Cassazione annullò l’assoluzione e dispose un nuovo processo: condanna a 15 anni. La Corte d’Appello decise invece per l’ergastolo, e la Cassazione confermò. Si trattò di un processo che divise l’opinione pubblica, e che incontrovertibilmente venne segnato dal clamore che si alzava dalle piazze. Basti pensare che, dopo l’assoluzione di primo grado, scoppiarono tumulti tali che il Governo italiano dovette promettere che Priebke, nonostante fosse stato prosciolto, non sarebbe stato liberato. Indro Montanelli nell’aprile del 1996 scrisse una lettera aperta: “Da vecchio soldato, e sia pure di un esercito molto diverso dal suo, so benissimo che lei non poteva fare nulla di diverso da ciò che ha fatto. Il processo si dovrebbe fare alle aberrazioni dei totalitarismi e a certe leggi di guerra che imponevano la rappresaglia. Certo: lei, Priebke, poteva non eseguire l’ordine, e in pratica suicidarsi. Questo avrebbe fatto di lei un martire. Invece, quell’ordine lo eseguì. Ma questo non fa di lei un criminale”.
Io non saprei dire se Priebke sia stato o meno un criminale: per la giustizia italiana lo fu. Mi limito a constatare che la condanna del criminale avvenne a distanza di oltre mezzo secolo, un lasso di tempo spropositato: ha senso punire una persona per dei crimini commessi allora? Che senso ha infliggere la pena dell’ergastolo ad un uomo di quasi novant’anni? E ancora, se è vero come è vero che le pene nel nostro ordinamento sono finalizzate al ravvedimento e alla rieducazione, questa condanna ha qualcosa di logico? Ma al di là di ogni disquisizione giuridica e storica (fu mai processato qualcuno per i bombardamenti a tappeto sulla Germania ormai sconfitta e in ginocchio, o per le bombe atomiche sul Giappone? Erano civili anche quelli…), qui si tratta di semplice pietà umana. E fa effetto sapere che è proprio la Chiesa del “perdono” e della “misericordia” che chiude le sue porte ad un essere umano. Egli può essere stato il più grande criminale della storia, ma di fronte alla morte siamo tutti uguali. Ed un funerale non si nega a nessuno. A maggior ragione se il defunto, com’era il caso di Priebke, era cattolico e battezzato. Mors omnia solvit dicevano i romani. Qui invece siamo alla condanna eterna, al fine pena mai nei secoli dei secoli.
Fonte: http://www.ilmessaggero.it/ROMA/CRONACA/pribke_sepoltura_vicariato_legale_rifiuta_esequie_private/notizie/339405.shtml
http://qn.quotidiano.net/cronaca/2013/10/12/964469-priebke-morto-argentina-rifiuta-salma.shtml
venerdì 11 ottobre 2013
L’identikit dell’uomo immaturo (secondo le donne)
E per concludere in bellezza la settimana ecco ancora una perla dell’immenso Massimo Troisi:
Io, guarda, non è che son contrario al matrimonio […]. Solo, non lo so…, io credo che, in particolare, un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi tra di loro. Troppo diversi, capisci?
E ancora:
- «Ah, avete deciso di comprare casa? Come mai? Che, avete problemi?».
- «Problemi? No, perché?».
- «Ma se uno sta bene insieme, non capisco perché deve andare a prendere… Uno dice “viviamo insieme” quando vuol dire che le cose non vanno… Infatti poi quando peggiorano dice “perché non ci sposiamo?”. Quando proprio cominciate che non ce la fate più: “Che facciamo un figlio?”. E quando alla fine vi odiate, ma siete vecchi, dite: “Che ci lasciamo proprio adesso che siamo vecchi?!”. È quello il percorso».
(Pensavo fosse amore e invece era un calesse, 1991).
In effetti non è che Tommaso, il protagonista del film, abbia tutti i torti quando afferma che gli uomini e le donne sono troppo diversi tra di loro, e che dunque ci vuole impegno per vivere insieme conciliando queste due distinte nature. Che ciò tuttavia sia un male o un bene è tutto da chiarire. Perché mi è venuto in mente questo film? Ma perché mi sono imbattuto in un curioso articolo pubblicato sul Telegraph qualche mese fa: “Men grow up at 43 - 11 years later than women”. Ovvero quanto siano più lenti a maturare gli uomini rispetto alle donne. Il quotidiano britannico infatti, commentando i risultati di un sondaggio condotto dal canale televisivo Nickelodeon, conferma ciò che da sempre si sostiene a gran voce: e cioè che i maschi raggiungono l’età della ragione - quando va bene - molto più tardi rispetto alle femmine. L’80 per cento delle donne intervistate infatti, sostiene che gli uomini per natura sono portati a rimanere eterni bambini e che la maturità per loro è una chimera irraggiungibile. E c’è di più: una donna su quattro si considera l’unica persona in grado di prendere decisioni importanti nell’ambito della coppia; quasi una su due (46 per cento) si vede un po’ come la “mamma” del proprio uomo; e una su tre ammette di aver rotto più di una relazione a causa dell’eterna fanciullezza in cui viveva il proprio partner. Un bel ritrattino, non è vero? E gli intervistati uomini cosa ne pensano di tutto ciò? Da buoni bamboccioni Peter Pan, ammettono senza grosse difficoltà di essere assai più immaturi delle donne, ma al contempo, e non senza una punta di orgoglio, sostengono che la mancanza di maturità sia fondamentale in una relazione, dal momento che confornisce vitalità e leggerezza al rapporto; ed inoltre consente di avere un buon legame con i bambini. Già, ma quali sono, secondo le donne, i comportamenti più ricorrenti che identificano l’uomo immaturo? Andiamo a dare un’occhiata. Al primo posto, e con uno scarto assai notevole, si classifica la voce “trovare divertenti le proprie flatulenze e i propri rutti”. Fantastico…! In effetti il genere maschile non riuscirà mai a comprendere il perché della seriosità delle donne di fronte a tali divertentissime emissioni corporali. Certo nel mondo animale tutti questi arieggiamenti non suscitano la benché minima reazione, ma noi siamo esseri evoluti, per Diana: un po’ di ironia non guasterebbe…! Al secondo posto troviamo “mangiare schifezze alle due del mattino”; al terzo “giocare ai video-giochi”. E a seguire “guidare troppo veloci o fare le gare con le altre auto”; “ridacchiare alle parolacce”; “guidare con la musica a tutto volume”; “fare scherzi in continuazione” etc…! In altre parole il ritratto di un adolescente alle prese con i suoi ormoni impazziti. La lista è lunga e tra le tante accuse che le donne rivolgono agli uomini immaturi vi sono anche l’incapacità di provvedere a se stessi (bucati, pranzi, cene…); la carenza di dialogo o addirittura il mutismo rassegnato o rancoroso durante i litigi; il continuo vantarsi di se stessi e delle proprie conquiste. Tutte cose verissime, per carità. Anche se a tutto c’è una spiegazione: perché mai un uomo dovrebbe lavarsi i panni da se o cucinare, quando c’è la mogliettina (o la compagna o la mamma) che può fare tutto ciò, e con risultati decisamente migliori? Ed il dialogo? Ma andiamo, sappiamo tutti benissimo che le donne parlano mediamente tre volte di più di un uomo: provare ad argomentare, soprattutto in occasione di un litigio, è come esporre il petto ad una mitraglia. Tanto vale tacere. In merito poi alla propensione al vanto, mi pare che qui si esageri: sì d’accordo, all’uomo piace fare sfoggio delle proprie conquiste, delle proprie abilità (quasi sempre menzognere peraltro), ma si tratta di inezie, minutaglie che al massimo si portano appresso un sorriso di tenerezza: solo una donna (che peraltro è l’essere più vanitoso del creato) potrebbe irritarsi di fronte a simili faccende. Ma non contente, le donne hanno aggiunto anche il carico da novanta alla posta già alta: l’uomo immaturo ripetere sempre le stesse barzellette e storielle quando si trova con gli amici; non mangia le verdure; odia i libri perché considerati poco interessanti o noiosi; diventa assai buffo quando si cimenta in qualche passo di danza; indossa pigiami coi disegni dei cartoni animati. E, dulcis in fundo, imbratta e insudicia tutto ciò che entra in contatto con lui.
Non so voi, ma a me - fatti gli opportuni distinguo - tutto ciò sembra il ritratto dell’uomo in quanto tale, e non già dell’uomo immaturo. Oddio, nella mia vita mi è capitato di incontrare amici e conoscenti che dimostravano una saggezza stomachevole e che quindi erano del tutto immuni da questi (presunti) difetti. Ma erano persone di una noia potenzialmente clamorosa, e con le donne non avevano alcun successo. Ciò che attrae gli opposti, è la diversità: ficchiamocelo bene in testa. E poi non s’è sempre detto che la diversità arricchisce? Ma voi donne, siete così sicure di volere a tutti i costi l’uomo maturo?
Fonte: http://www.telegraph.co.uk/news/newstopics/howaboutthat/10111993/Men-grow-up-at-43-11-years-later-than-women.html
Io, guarda, non è che son contrario al matrimonio […]. Solo, non lo so…, io credo che, in particolare, un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi tra di loro. Troppo diversi, capisci?
E ancora:
- «Ah, avete deciso di comprare casa? Come mai? Che, avete problemi?».
- «Problemi? No, perché?».
- «Ma se uno sta bene insieme, non capisco perché deve andare a prendere… Uno dice “viviamo insieme” quando vuol dire che le cose non vanno… Infatti poi quando peggiorano dice “perché non ci sposiamo?”. Quando proprio cominciate che non ce la fate più: “Che facciamo un figlio?”. E quando alla fine vi odiate, ma siete vecchi, dite: “Che ci lasciamo proprio adesso che siamo vecchi?!”. È quello il percorso».
(Pensavo fosse amore e invece era un calesse, 1991).
In effetti non è che Tommaso, il protagonista del film, abbia tutti i torti quando afferma che gli uomini e le donne sono troppo diversi tra di loro, e che dunque ci vuole impegno per vivere insieme conciliando queste due distinte nature. Che ciò tuttavia sia un male o un bene è tutto da chiarire. Perché mi è venuto in mente questo film? Ma perché mi sono imbattuto in un curioso articolo pubblicato sul Telegraph qualche mese fa: “Men grow up at 43 - 11 years later than women”. Ovvero quanto siano più lenti a maturare gli uomini rispetto alle donne. Il quotidiano britannico infatti, commentando i risultati di un sondaggio condotto dal canale televisivo Nickelodeon, conferma ciò che da sempre si sostiene a gran voce: e cioè che i maschi raggiungono l’età della ragione - quando va bene - molto più tardi rispetto alle femmine. L’80 per cento delle donne intervistate infatti, sostiene che gli uomini per natura sono portati a rimanere eterni bambini e che la maturità per loro è una chimera irraggiungibile. E c’è di più: una donna su quattro si considera l’unica persona in grado di prendere decisioni importanti nell’ambito della coppia; quasi una su due (46 per cento) si vede un po’ come la “mamma” del proprio uomo; e una su tre ammette di aver rotto più di una relazione a causa dell’eterna fanciullezza in cui viveva il proprio partner. Un bel ritrattino, non è vero? E gli intervistati uomini cosa ne pensano di tutto ciò? Da buoni bamboccioni Peter Pan, ammettono senza grosse difficoltà di essere assai più immaturi delle donne, ma al contempo, e non senza una punta di orgoglio, sostengono che la mancanza di maturità sia fondamentale in una relazione, dal momento che confornisce vitalità e leggerezza al rapporto; ed inoltre consente di avere un buon legame con i bambini. Già, ma quali sono, secondo le donne, i comportamenti più ricorrenti che identificano l’uomo immaturo? Andiamo a dare un’occhiata. Al primo posto, e con uno scarto assai notevole, si classifica la voce “trovare divertenti le proprie flatulenze e i propri rutti”. Fantastico…! In effetti il genere maschile non riuscirà mai a comprendere il perché della seriosità delle donne di fronte a tali divertentissime emissioni corporali. Certo nel mondo animale tutti questi arieggiamenti non suscitano la benché minima reazione, ma noi siamo esseri evoluti, per Diana: un po’ di ironia non guasterebbe…! Al secondo posto troviamo “mangiare schifezze alle due del mattino”; al terzo “giocare ai video-giochi”. E a seguire “guidare troppo veloci o fare le gare con le altre auto”; “ridacchiare alle parolacce”; “guidare con la musica a tutto volume”; “fare scherzi in continuazione” etc…! In altre parole il ritratto di un adolescente alle prese con i suoi ormoni impazziti. La lista è lunga e tra le tante accuse che le donne rivolgono agli uomini immaturi vi sono anche l’incapacità di provvedere a se stessi (bucati, pranzi, cene…); la carenza di dialogo o addirittura il mutismo rassegnato o rancoroso durante i litigi; il continuo vantarsi di se stessi e delle proprie conquiste. Tutte cose verissime, per carità. Anche se a tutto c’è una spiegazione: perché mai un uomo dovrebbe lavarsi i panni da se o cucinare, quando c’è la mogliettina (o la compagna o la mamma) che può fare tutto ciò, e con risultati decisamente migliori? Ed il dialogo? Ma andiamo, sappiamo tutti benissimo che le donne parlano mediamente tre volte di più di un uomo: provare ad argomentare, soprattutto in occasione di un litigio, è come esporre il petto ad una mitraglia. Tanto vale tacere. In merito poi alla propensione al vanto, mi pare che qui si esageri: sì d’accordo, all’uomo piace fare sfoggio delle proprie conquiste, delle proprie abilità (quasi sempre menzognere peraltro), ma si tratta di inezie, minutaglie che al massimo si portano appresso un sorriso di tenerezza: solo una donna (che peraltro è l’essere più vanitoso del creato) potrebbe irritarsi di fronte a simili faccende. Ma non contente, le donne hanno aggiunto anche il carico da novanta alla posta già alta: l’uomo immaturo ripetere sempre le stesse barzellette e storielle quando si trova con gli amici; non mangia le verdure; odia i libri perché considerati poco interessanti o noiosi; diventa assai buffo quando si cimenta in qualche passo di danza; indossa pigiami coi disegni dei cartoni animati. E, dulcis in fundo, imbratta e insudicia tutto ciò che entra in contatto con lui.
Non so voi, ma a me - fatti gli opportuni distinguo - tutto ciò sembra il ritratto dell’uomo in quanto tale, e non già dell’uomo immaturo. Oddio, nella mia vita mi è capitato di incontrare amici e conoscenti che dimostravano una saggezza stomachevole e che quindi erano del tutto immuni da questi (presunti) difetti. Ma erano persone di una noia potenzialmente clamorosa, e con le donne non avevano alcun successo. Ciò che attrae gli opposti, è la diversità: ficchiamocelo bene in testa. E poi non s’è sempre detto che la diversità arricchisce? Ma voi donne, siete così sicure di volere a tutti i costi l’uomo maturo?
Fonte: http://www.telegraph.co.uk/news/newstopics/howaboutthat/10111993/Men-grow-up-at-43-11-years-later-than-women.html
giovedì 10 ottobre 2013
Lettura che passione
L’altra sera sono andato a letto tardi - come al solito - e ho cominciato a leggere il mio libro da comodino. Vecchia abitudine che chiude in bellezza la giornata e accompagna frase dopo frase verso il sonno ristoratore. Di solito mi accade che più mi addentro nella lettura, più la coscienza scade verso uno stato soporoso che sovrappone sensazioni reali ad altre oniriche, ed il tutto si confonde in una realtà nuova ed immaginifica, che prende vita propria e che, discostandosi dalla trama fino ad allora letta, crea nuove storie, prende altre direzioni, altri epiloghi. Capita spesso, ad esempio, che mi accorga di non essere più sveglio, ma al contempo mi pare che gli occhi ancora leggano dal libro. E quando ciò avviene, provo come un senso di rabbia, perché mi pare di essere vittima di un imbroglio perpetrato ai miei danni dall’inconscio. Inutile dire che poi, al mattino, non ricordo più nulla di quelle misteriose divagazioni. Alle volte invece mi capita di leggere dei libri talmente coinvolgenti che non riesco a staccarmene. E così pagina dopo pagina, tiro degli orari indecenti, perfino per un nottambulo come me. Ed è ciò che mi è capitato l’altra notte. Leggevo Il nome della rosa di Umberto Eco, e mi sono imbattuto in Guglielmo di Baskerville e Adso alle prese con la misteriosa biblioteca dell’abbazia. Ditemi voi, come si fa ad interrompere la lettura arrivati a questo punto? Impossibile. E dunque, quando ho spento la luce dell’abat-jour quasi albeggiava.
Per anni ho lasciato sonnecchiare questo volume nella libreria: non mi sembrava mai il momento giusto per leggerlo. In realtà non ho mai amato leggere libri spinto dall’onda emotiva e mediatica e se devo avvicinarmi ad un autore è perché lo decido io, non perché ne parlano riviste e televisioni. Mi direte, ma Il nome della rosa è stato scritto nel 1980, vale a dire più di trent’anni fa. Ottima obiezione. Allora diciamola tutta: Eco mi ha sempre fatto un po’ paura. Perché? Ma perché mi è sempre parso di essere inadeguato a quel mostro di cultura. E questo nonostante da anni veda gente di ogni strato sociale, di ogni fascia intellettuale e culturale, sfogliare i suoi volumi con grande nonchalance. Ricordo che quando uscì Il pendolo di Foucault non c’era amico, parente o conoscente che non l’avesse acquistato. Sui mezzi pubblici ci si metteva in posa a favore di copertina, per la strada non c’era passante che non impugnasse - oltre all’autoradio - il voluminoso tomo, sulle spiagge e sotto gli ombrelloni idem. Un vero e proprio status symbol. Quanti di questi lettori poi abbiano effettivamente letto il libro, non è dato sapere. Io ci provai anni e anni fa, ma vi rinunciai quasi subito. Ed è da qui che ho sempre provato un certo timore reverenziale verso Eco. Ora però, dopo che negli anni ho affrontato autori il cui solo nome fa tremare le vene dei polsi, mi è parso che fosse il momento giusto per leggere anche Il nome della rosa. E come avrete capito, la lettura mi sta molto piacendo. Che tipo di lettore sono io? In generale leggo molto: almeno due o tre libri al mese. Quando affronto un autore che mi ha colpito particolarmente tendo ad approfondire e spesso leggo tutto ciò che ha scritto. L’oggetto libro mi piace a prescindere, amo sfogliare le pagine, adoro il rumore rotondo della carta che si piega e si rilascia, perfino l’odore della carta mi delizia. E di conseguenza ogni libro viene trattato con molto rispetto, con delicatezza e riguardo: niente orecchie sulle pagine, niente sottolineature, il volume viene aperto senza che il dorso venga troppo sollecitato, etc…! Una specie di oggetto sacro da preservare nel tempo, come se si trattasse di un antico incunabolo medievale scritto su fogli di pergamena. Ci sono amici invece, che non provano soddisfazione se il libro non lo “vivono” molto materialmente. Ma in generale, quali sono i tipo di lettori in circolazione ai nostri tempi? Ce lo dice Libreriamo, il social book-magazine per la promozione dei libri e della lettura.
Si parte con il “divoratore”, ovvero il cosiddetto lettore forte, colui che mette la passione per i libri prima di ogni altra cosa. E che spesso, se non avvezzo all’utilizzo delle biblioteche pubbliche, corre il rischio di finire per stracci. Per un lungo periodo della mia vita ho fatto parte di questa categoria malata senza badare a spese. Quando però, preso dalla curiosità, ho fatto due conti e ho realizzato che viaggiavo sui 500/600 euro all’anno di spesa, ho cominciato a valorizzare con convinzione ciò che avevo in casa. Tipo appunto Il nome della rosa.
Il secondo fenotipo di lettore è il cosiddetto “piluccatore”. Costui è il classico personaggio che ama leggere lentamente, e poi rileggere. Ogni frase va assaporata senza fretta, va pronunciata a voce alta per sentire come suona. L’importante non è la quantità, ma la qualità della lettura.
A seguire c’è poi il lettore “so tutto io”, ovvero colui che legge tutto, capisce al volo e divulga erga omnes la sapienza così acquisita. Non senza una punta di presuntuosa arroganza. Con questo personaggio l’unica tattica possibile è fingersi completamente disinteressati a qualsiasi tipo di argomento culturale. Per fare ciò si consiglia di ricorrere ad una qualche becera barzelletta tipo quelle su Pierino. Passerete per ignorantoni matricolati, ma almeno porterete a casa la pelle.
Troviamo poi “il compratore compulsivo”, ovvero colui che acquista centinaia di libri perché innamorato dell’idea di essere un grande appassionato di lettura. In realtà, come spesso accade, questi soggetti non leggono affatto - se non in minima parte - ciò che acquistano, e si beano semplicemente di ammirare la magnificenza dalla propria libreria.
C’è a seguire “il lettore emotivo”, vale a dire colui che si cala completamente nella vicenda letteraria e ne rimane invischiato per giorni interi - ammorbando all’inverosimile parenti e amici; e poi c’è “il lettore impossibile da accontentare”, ovvero colui che disprezza qualsiasi autore e che quando parla di un libro appena letto sembra che sia sul punto di vomitare; e per finire “l’amante delle copertine”, cioè colui che acquista i libri a seconda del gradimento o meno della copertina. Che pure conta, non c’è che dire, ma che non dovrebbe mai essere l’unico motivo per il quale si decide di acquistare un volume.
Ma al di fuori di questa classificazione esistono tante altre categorie di lettori: tipo quelli che lasciano a metà un libro se non li soddisfa e quelli che invece - come me - si sfiancano per arrivare fino alla fine; quelli che leggono ovunque, persino camminando per strada, e quelli che se non c’è la poltrona preferita, la luce giusta e il silenzio totale non aprono neanche il libro; quelli che leggono solo in bagno per trovare l’ispirazione e altro ancora. E questi sono i lettori. E poi ci sono quelli come Camillo, il protagonista del film Le vie del Signore sono finite:
“Io pure so leggere, eh, vabbè, cioè leggere, insomma quasi, m’arrangio, diciamo, non è che so’ proprio bravo. Io non leggo mai, non leggo libri, cose… pecché che comincio a leggere mo’ che so’ grande? Che i libri so’ milioni, milioni, non li raggiungo mai, capito? Pecché io so’ uno a leggere, là so’ milioni a scrivere, cioè un milione di persone e io uno: mentre ne leggo uno… ma che m’emporta a me?”.
Fonte: http://www.libreriamo.it/a/5217/che-tipo-di-lettore-sei.aspx
Ma al di fuori di questa classificazione esistono tante altre categorie di lettori: tipo quelli che lasciano a metà un libro se non li soddisfa e quelli che invece - come me - si sfiancano per arrivare fino alla fine; quelli che leggono ovunque, persino camminando per strada, e quelli che se non c’è la poltrona preferita, la luce giusta e il silenzio totale non aprono neanche il libro; quelli che leggono solo in bagno per trovare l’ispirazione e altro ancora. E questi sono i lettori. E poi ci sono quelli come Camillo, il protagonista del film Le vie del Signore sono finite:
“Io pure so leggere, eh, vabbè, cioè leggere, insomma quasi, m’arrangio, diciamo, non è che so’ proprio bravo. Io non leggo mai, non leggo libri, cose… pecché che comincio a leggere mo’ che so’ grande? Che i libri so’ milioni, milioni, non li raggiungo mai, capito? Pecché io so’ uno a leggere, là so’ milioni a scrivere, cioè un milione di persone e io uno: mentre ne leggo uno… ma che m’emporta a me?”.
Fonte: http://www.libreriamo.it/a/5217/che-tipo-di-lettore-sei.aspx
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