Piero Angela e Alessandro Barbero hanno da poco pubblicato un libro dal titolo decisamente accattivante: Dietro le quinte della Storia. È dal 2007 che questo sodalizio tra menti raffinate va avanti nell’ambito del programma televisivo Superquark, ma questa è la prima volta che i due scrivono un libro a quattro mani.
Che poi chissà perché si dice “scrivere a quattro mani” quando si tratta di due autori: forse che normalmente scriviamo con due mani? O forse s’intende scrivere a macchina o, più modernamente, al computer? Oltretutto é notorio che la maggior parte degli scrittori per battere sui tasti usano non più di tre, quattro dita in tutto. Bah, in ogni caso l’immagine di due che scrivono davanti ad uno schermo mi mette addosso una tristezza infinita: meglio pensarli intenti a discutere dottamente prendendo appunti su delle moleskine, davanti ad un camino, o su una terrazza che si affaccia sul mare, mentre il sole s’immerge lentamente all’orizzonte. Libro dei sogni, naturalmente.
In questo nuovo volume, impostato sul modello domanda-risposta – il giornalista introduce l’argomento e l’ordinario di Storia Medievale risponde approfondendo la materia – , i due affrontano una serie di argomenti concreti, reali, sostanziali della vita di tutti i giorni dei nostri antenati, e ciò che più avvince il lettore è il costante riferimento e raffronto con i nostri giorni. Si discute di alimentazione, di viaggi, di rischi dell’esistenza, di famiglia, casa, religione, guerra, privilegi e mobilità sociale ecc… È affascinante lasciarsi guidare tra le pieghe della storia, all’ombra dei grandi eventi che da sempre abbiamo studiato sui libri di testo: ci si rende conto di come ragionavano i nostri avi, di quali erano i loro pensieri, le loro priorità, aspirazioni, modi di vedere il mondo. Ad esempio, il fatto che nell’antichità non si festeggiassero i compleanni, punto cruciale ed essenziale, al contrario, nella scansione delle nostre vite attuali, ci fa aprire squarci di profondità nella conoscenza del passato. Lo scorrere del tempo per gli antichi non aveva bisogno di orologi, né di calendari: semplicemente non se ne sentiva la necessità, anche perché il tempo apparteneva a Dio. Mancava in sostanza il concetto di futuro, non c’era la proiezione sul domani, salvo le preoccupazioni legate alla semina e al raccolto. Era una costante, determinata concentrazione sull’oggi, sull’hic et nunc. Spesso, ad esempio, non si festeggiava il compleanno perché banalmente non si sapeva né quando si era nati, né in che anno si vivesse in quel momento. È rarissimo, afferma Barbero, trovare un atto di epoca medievale in cui si abbia la certezza della data di nascita di qualcuno. Il primo documento attendibile in cui si parla di festa di compleanno, con annesso spegnimento delle candeline sulla torta, risale al 1803, in piena epoca napoleonica: Goethe festeggia il suo 53esimo compleanno.
Tra gli altri argomenti che mi hanno incuriosito, c’è quello legato alla sessualità: in un passato neanche troppo remoto, esistevano delle regole assai rigide sulla vita sessuale, e l’onore della famiglia imponeva un comportamento improntato al pudore, all’onestà, alla sobrietà dei costumi, al rispetto del decoro. La verginità della nubenda era sacra, il libertinaggio malvisto, l’adulterio della donna sposata una colpa riprovevole e foriera di conseguenze gravissime. Ma a fronte di tutto questo sistema di valori, che segnava pesantemente lo scorrere della vita alla luce del sole, esistevano al contempo abitudini e comportamenti, soprattutto in ambito maschile, che – nell’ombra del non detto – apparivano tutt’altro che virtuosi. Per avere un’idea della portata di tali costumi basta pensare che nelle grandi città il dieci per cento dei bambini erano trovatelli. Certo per fare bambini occorreva pur sempre essere in due, ci mancherebbe, ma mentre per gli uomini avere dei figli illegittimi e a spasso per il mondo poteva rappresentare quasi un vanto – sebbene ipocritamente sottaciuto – , per la donna era sinonimo di disonore, immoralità e meretricio.
Tutto ciò mi ha fatto tornare alla mente un episodio di famiglia, lontano nel tempo eppure costantemente riproposto, con un misto di ilarità e orgoglio. Siamo intorno alla metà degli anni ’30, una piccola città di provincia del Meridione. Nella numerosa famiglia di mio nonno paterno – composta da ben otto fratelli, oltre ai genitori – Antonietta, la sorella maggiore, comincia a frequentare un simpatico giovane. All’apparenza si tratta di un buon partito, ha un ottimo lavoro, proviene da una famiglia di specchiata onorabilità. Che sia minuto e leggermente scuro di carnagione – talché bonariamente gli si appioppi il nomignolo di Maometto – poco importa. I due cominciano a frequentarsi e le rispettive famiglie si preparano psicologicamente, e ancor più economicamente per il grande passo che li condurrà verso il matrimonio. Improvvisamente però, come il classico fulmine a ciel sereno, comincia a diffondersi la notizia che Antonietta è incinta. La famiglia, oltraggiata da questo accadimento inopportuno e inaspettato, dapprima cerca di negare la notizia, ma poi, dato il precipitare degli eventi, è costretta ad ammetterla. Ma la faccenda prende subito una brutta piega: Maometto, messo al corrente della gravidanza della fidanzata, si dimostra assai poco responsabile. E tra mille scuse, mezze frasi e velate accuse di tradimento rivolte alla fidanzata, fa intendere di non essere più disposto a sposare Antonietta. In famiglia è il caos. Il disonore, e ancor più l’angoscia che la ragazza debba crescere un bimbo da sola e che soprattutto possa restare a carico dei parenti – chi mai potrà prendersi per moglie una donna così compromessa? – , fanno tremare dalla rabbia e dalla paura. E così, ecco correre in soccorso della sventurata la rete di protezione familiare. Michele e Luigi, due dei quattro fratelli maschi di Antonietta, fanno giungere un’ambasciata a Maometto, nella quale lo si invita a un chiarimento civile, educato e alla luce del sole. Perché, “va bene tutto – vi si legge nel biglietto – , ma prima di ogni altra cosa occorre conservare buoni rapporti”. Maometto è preoccupato all’idea di tale incontro, teme che possa finire male, anche perché Michele e Luigi sono due energumeni, grandi, grossi e si dice anche violenti. Michele tra l’altro ha un passato da picchiatore fascista alle spalle. Tuttavia accetta, anche perché se l’incontro avviene in luogo pubblico ha poco da temere. E dunque, una bella domenica mattina, i tre si trovano in centro, presso un’osteria. Il clima è sereno, si discute del più e del meno, non dico con armonia, ma senza neanche tensioni o attriti. E poi così, dopo aver disquisito dell’incostanza del tempo meteorologico e delle recenti avventure coloniali dell’Impero, en passant, il discorso cade sulla triste vicenda. Maometto, con uno stato d’animo rasserenato dalla cordialità dei due, si lascia andare e confessa apertamente di non essere più disposto a sposare Antonietta. E pur con molto tatto, adombra l’ipotesi che la stessa non gli sia stata poi del tutto fedele durante il loro rapporto. E che dunque si ritiene del tutto estraneo e privo di obblighi riguardo al nascituro. Michele e Luigi, accolgono tali parole con apparente tranquillità, senza denotare un minimo cenno di reazione. Usciti dall’osteria, tuttavia, prendono con insolita fermezza sottobraccio Maometto, e lo invitano gentilmente a fare due passi. Giunti però sul cavalcavia della ferrovia, la situazione muta in maniera definitiva. Con una manovra risoluta e improvvisa i due afferrano per le gambe Maometto e lo sporgono dalla balaustra fino a farlo penzolare con la testa nel vuoto, verso i binari. Questi comincia a gridare disperato, chiede aiuto, urla frasi e preghiere sconclusionate verso i suoi aggressori. Oltretutto passa un treno sotto il sul capino, e dunque le sue parole arrivano ancora più drammaticamente incomprensibili. Quando il frastuono finisce, Michele e Luigi finalmente riescono ad udire, e sono parole di una chiarezza cristallina: «Me la sposo…, me la sposo subito. Ci siamo fraintesi, ci siamo tremendamente fraintesi…! Domani stesso vado in chiesa per le pubblicazioni…! Mettetemi giùùùùù».
A detta dei presenti fu un matrimonio bellissimo.
“Sembrerà strano, perché in tutti i sondaggi la gente, se si pone il problema della sicurezza tende a rispondere che si sente insicura e che il paese è più pericoloso rispetto al passato. Ma è uno di quei casi in cui la percezione della gente è sbagliata. Un secolo fa in Italia il numero degli omicidi rispetto al totale della popolazione era il quadruplo rispetto ad oggi. Il paese era molto più violento e pericoloso, solo che non ce ne rendiamo conto […]. Era un mondo molto più violento del nostro. La gente girava armata: non c’era nessuno che non girasse con un coltello nella cintura […]. E poi la gente era più povera e quindi anche più attaccata al possesso; si litigava molto, anche per cose da nulla, si creavano rancori che duravano anni, nascevano le faide familiari, e prima o poi arrivava l’archibugiata […]. Per molto tempo l’omicidio non è stato considerato un crimine veramente grave; era molto più facile cavarsela se si commetteva un omicidio, che non in caso di furto”.
Ecco, più leggo queste considerazioni di Barbero e più m’immergo nel passato e lo capisco. E anche le storie di famiglia, quelle più piccole e banali, quelle avvolte da veli di mistero e che inevitabilmente sono destinate a essere dimenticate, assumono ai miei occhi consistenza di realtà. E così là dove un tempo c’erano sorrisi e interrogativi dettati dall’incomprensione, ora vi sono sorpresa e riflessione sulle ragioni che governavano quei comportamenti dei nostri antenati.
E tutto ciò mi porta grande piacere, immenso piacere: perché capire la storia infondo vuol dire anche collocare ogni casella al posto giusto.
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