Sarà il cielo grigio, quest’attesa della neve che non arriva, sarà che in giro non si sente parlare d’altro che di crisi, di elezioni e altre similari amenità, fatto sta che oggi è uno di quei giorni in cui sento il bisogno di ridere, di rincorrere il buon umore e non pensare a tutto il resto.
Il mio amico Lucio ed io abbiamo circa tre anni di differenza, io sono il più grande.
A differenziarci, oltre all’età – che da piccoli ci sembrava immensa, mentre ora è poco più che un’inezia – è anche una visione complessiva del mondo. Io non ho mai dato grande importanza al possesso, ai beni voluttuari, all’apparenza, all’avere in genere, mentre egli è sempre stato portato verso la proprietà, l’accumulo, la stabilità economica. Ed è forse proprio questa nostra distanza che ci rende così affini l’uno all’altro, complementari: io sognatore trasognato, idealista, visionario, utopista sperduto dietro alle mie fantasticherie fumose; egli realista, materiale, disincantato, legato indissolubilmente alla concretezza.
Il suo fiuto e amore per gli affari lo portò, all’età di sei anni scarsi, a far redigere un contratto scritto al padre – una sorta di eredità anticipata – , per la cessione, a suo esclusivo favore, della proprietà del disimpegno della casa di famiglia, una specie di locale di transito da cui si accedeva alla cucina e all’uscita secondaria dell’appartamento. Se ricordo bene, per un certo periodo pretese dai familiari anche una salata gabella di passaggio sul suo possedimento. Non ho indagato approfonditamente, ma sono convinto che quell’atto ce l’abbia ancora ben conservato da qualche parte.
E così, quando giungeva l’estate, mentre io sprofondavo nel torpore e nell’accidia più totale, egli si prodigava subito per la ricerca di un lavoro – essendo tra l’altro ancora minorenne – . Perché lavoro significava quattrini, ovviamente; e quattrini volevano dire vacanze e divertimento.
Una volta la madre, tramite amicizie e conoscenze varie, riuscì a procurargli un colloquio di lavoro presso un bar. La persona che si era spesa per la raccomandazione aveva una grande stima di questa donna e ne conosceva le grandi doti umane e professionali. Al titolare del bar aveva detto: «Se questo ragazzo è sveglio e volenteroso anche solo in decimo della madre, farai un grandissimo affare ad assumerlo».
E dunque Lucio, che peraltro la sera prima aveva fatto bisboccia fino a tardi, quella mattina si avviò verso il bar con la speranza di trovare un lavoro. Aveva un sonno apocalittico, ma non voleva rinunciare a quell’occasione. Sul foglietto che gli aveva dato la madre si leggeva la via e il nome del bar. Aprì la porta ed entrò. Lo sguardo fluttuava spaesato tra quei locali fumosi, colmi di rumori e chiasso. Da dietro il bancone un omone con un grembiulaccio azzurro da barista gli chiese cosa volesse. Ed egli prontissimo: «Salve, cercavo la signora Bianca Maria…».
Il barista lo guardò come si guarderebbe un elfo appena uscito dal Bosco Atro, quello de Il Signore degli Anelli: «A dire il vero qui non c’è nessuna signora Bianca Maria…! È pur vero che qui siamo in viale Bianca Maria, ma la nobildonna è deceduta qualche secolo fa…».
Al che Lucio, accortosi dell’errore grossolano, spiegazzò nervosamente il foglio e cercò disperatamente un altro nome: «Ha ragione, mi scusi, ha perfettamente ragione. In realtà cercavo il signor Victory».
Il barista, che peraltro era una carogna conclamata, rispose: «Guarda che Victory è il nome del bar…! Ad ogni modo dimmi, sono il proprietario».
Lucio era paonazzo dalla vergogna, ma trovò la forza di dire che era lì per il colloquio di lavoro. A quelle parole al barista tornarono subito in mente le frasi profetiche udite un paio di giorni prima: “Se questo ragazzo è sveglio e volenteroso anche solo in decimo della madre…”. Ad ogni modo l’esperienza durò solo pochi giorni, e non lasciò un piacevolissimo ricordo in nessuno dei due.
Ma Lucio non si dette per vinto e, nel breve volgere di qualche settimana, trovò un nuovo impiego. Questa volta si trattava di una bottega da salumiere del centro, la cui clientela era rappresentata per lo più dagli impiegati degli uffici dei paraggi. Lucio al mattino aiutava il titolare a preparare i panini e, a ora di pranzo, effettuava le consegne. E ogni volta era sempre la stessa stucchevole litania: «Giovane – dicevano a ripetizione gli impiegati – , ma questi panini li fa lei?».
Lucio prendeva immediatamente le distanze: «No, no io faccio solo le consegne…».
«Ecco – continuavano i clienti rancorosi – allora dica al principale di metterci una fetta di salame in più per cortesia…, che diamine. Guarda qua che roba…, questo panino è il ritratto della tristezza…».
Lucio riferiva diligentemente le lagnanze, ma il padrone rispondeva sempre immancabilmente: «A si, vogliono più salame…? E allora di loro che sarò costretto ad aumentare il prezzo…! Diglielo, diglielo pure…!».
Resistette fino ai primi d’agosto a quel ping-pong di alta economia, poi diede le dimissioni e se ne andò a Milano Marittima con gli amici.
A settembre ricominciò la scuola, ma fu una perdita di tempo. In classe non seguiva, fumava durante le lezioni, minacciava i compagni di classe e irrideva i professori. Il preside, esasperato dalle lagnanze dei docenti, fu costretto a chiamare il padre: nel colloquio che ne seguì venne avanzata la proposta di ritirarlo da scuola. E così avvenne.
Ma Lucio non se ne stette con le mani in mano. Un suo amico gli suggerì di fare domanda presso una cooperativa di lavoro dell’hinterland. Nel giro di qualche giorno si ritrovò in un ampio capannone nei pressi dell’Orto Mercato provinciale, in compagnia di una nutrita schiera di sfaccendati, extracomunitari irregolari e avanzi di galera. Dieci ore al giorno a selezionare (“questo è buono, questo non è buono”) i limoni che poi sarebbero finiti sui banconi dei supermercati. Che poi non sarebbe stato neanche tanto malaccio come lavoro, se non fosse stato per quel fetido responsabile del personale, un caporale di un’ignoranza e cattiveria potenzialmente clamorose: «E questi sarebbero limoni capati? Eh…, dico a voi, farabutti…!». E cominciava a lanciare limoni bacati sulle teste dei lavoratori atterriti…!
Anche sta volta Lucio tagliò la corda senza grossi rimpianti.
Provò poi con un impiego da operaio presso una fabbrica che produceva copri water in pvc, ma neanche questa volta venne rapito di entusiasmo.
Finì dunque presso un’azienda che produceva isolanti elettrici. E qui finalmente trovò un po’ di serenità. Anche perché in quell’ambiente si trovava a suo agio, la paga era decente, i capi abbastanza umani e i colleghi simpatici. Tra questi ultimi uno in particolare era il suo preferito: Vittorio. Costui, come si direbbe a Roma, era un gran cazzaro, uno che raccontava un sacco di frottole, che amava vantarsi, che probabilmente beveva, e che era stato accusato, in passato, di aver compiuto anche qualche furtarello di poco conto in azienda. Una volta, ad esempio, un collega l’aveva incolpato di essersi appropriato addirittura delle suolette antiodore dei suoi scarponi. E da quel dì, in officina tutti presero a chiamarlo Arma Letame Due. Ma così, del tutto bonariamente. Vittorio poi, nonostante fosse un padre di famiglia, e dunque carico di responsabilità, assumeva sempre atteggiamenti assai licenziosi con le colleghe: lanciava battute, provocava, faceva proposte indecenti. Spesso si esibiva nella sua specialità, vale a dire il cosiddetto “salamino”: s’infilava cioè nei pantaloni uno strofinaccio, e poi mostrava con spavalda guitteria la sua mascolinità taroccata. Ed i colleghi ridevano, ridevano con lui. La sua filosofia di vita infondo era una, e una soltanto: “Se chiedi puoi ottenere un si o un no; se non chiedi sarà sempre un no”. E alla teoria faceva seguire immancabilmente la pratica. Un bel giorno giunse una nuova inserviente per le pulizie, una signora di mezza età, non troppo avvenente, e Vittorio non perse tempo: «Ciao bella, che ne dici se ce ne andiamo a mangiare qualche pizza (sic) una di queste sere?».
E la sua audacia venne repentinamente premiata: «Si, perché no. La macchina ce l’hai?».
Vittorio andò immediatamente a vantarsi di questa nuova conquista con i colleghi. Lucio tuttavia dimostrò di non apprezzare molto e questi dunque chiese spiegazioni: «Ma dai, è brutta, è brutta forte. Non l’hai vista che faccia che ha?».
Ma Vittorio, indignato, difese senza indugio la sua posizione: «Tu la faccia…, toglila di mezzo. È il resto che conta. Ad ogni modo, lo sapevo…! Lo sai qual è il tuo problema, Lucio? È che sei troppo timido».
E dunque, tra un’avventura sentimentale e l’altra, un bel giorno Vittorio, passeggiando per il corso, s’imbatté in un manifesto funebre che lo fece trasalire. Il suo collega Mario, il suo caro – per modo di dire – collega Mario Squicciarelli, di anni 53, era defunto. A dire il vero il manifesto era strappato, scolorito per la pioggia e non si leggeva integralmente il nome. Ma non c’erano dubbi, si trattava proprio di Mario.
Il giorno dopo, impaziente di dare la notizia ai colleghi, si presentò in officina quasi in lutto totale. Chiamò tutti intorno a se e con la voce carica di finta commozione disse: «Avete saputo…? È morto Mario. È morto Mario Squicciarelli…!».
La notizia colse tutti di sorpresa, lasciando senza parole. Poi, ad un tratto, uno dei colleghi ruppe il silenzio: «Ma come, ieri sera era qui, stava benissimo…! Ma sei sicuro, Vittorio? Chi te l’ha detto?».
Al che tra i presenti cominciò immediatamente a insinuarsi il dubbio.
Vittorio perse subito le staffe: «Come sarebbe chi te l’ha detto? Metti in discussione la mia parola? L’ho letto, ho letto il manifesto…! È morto, Mario Squicciarelli è morto…! Ve lo dico io…!».
Ma in quel preciso momento, proprio mentre Vittorio si batteva con tutte le sue forze contro quel gruppo di implacabili nichilisti, alle spalle del capannello e con il suo solito passo svelto e deciso, transitò Mario: «Ehilà, buongiorno a tutti…».
Nell’ampio capannone si udì un unanime, sentitissimo “vaffanculo” corale che sapeva tanto di liberazione.
Da alcuni anni il mio amico Lucio svolge un altro lavoro, molto più appagante, soprattutto dal punto di vista economico. Il che non guasta, ovviamente. Ma quando abbiamo voglia di sorridere un po’, quando sentiamo la necessità di alleggerire il peso della vita con una risata, il pensiero torna a questo passato spassoso, a queste deliziose chicche che impreziosiscono la memoria degli anni lontani. Episodi che, edulcorati dal tempo trascorso e resi quasi fiabeschi dalla distanza, hanno perso tutto il carico di brutture e dolori, lasciando solo la bellezza della semplicità e dell’ingenuità di quel mondo.
Ed è un fardello che non pesa, che non porta pena, ma arricchisce e lascia senso di quiete.
E ce n’è un gran bisogno.
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